“Contro la città autoritaria”. Intervista ad Alietti e Farinella, relatori al Festival di Internazionale L’essenza della città autoritaria è la negazione, in nome del primato dell’economico sul sociale, dell’idea stessa di urbanità intesa come incontro tra le differenze

“Contro la città autoritaria”. Intervista ad Alietti e Farinella, relatori al Festival di Internazionale

L’essenza della città autoritaria è la negazione, in nome del primato dell’economico sul sociale, dell’idea stessa di urbanità intesa come incontro tra le differenze

“Contro la città autoritaria” è il manifesto con cui il sociologo Alfredo Alietti e l’architetto Romeo Farinella dell’Università di Ferrara hanno lanciato l’idea di un confronto interdisciplinare sui luoghi dell’abitare. Agenda17 ha raccolto l’invito a questo confronto aprendolo a molte voci, provenienti da campi disciplinari ed esperienze molto diverse. 

Nell’ambito del Festival Internazionale a Ferrara, Alietti e Farinella, introdotti da Michele Fabbri direttore di Agenda 17, interverranno sul tema “Contro la città autoritaria” venerdì 4 ottobre alle ore 16 nell’Aula magna della Facoltà di economia.

Abbiamo posto ai due relatori alcune domande relative ai temi che verranno affrontati nel corso del loro intervento.

Secondo la vostra visione della città, e anche alla luce del dibattito che si è sviluppato su Agenda17, come si può tratteggiare in poche parole una” città autoritaria”? quali sono le caratteristiche salienti e concrete che ci fanno capire se abitiamo in un luogo gestito e governato in maniera autoritaria?

 “Ovviamente dipende dai contesti politici e culturali perché l’autoritarismo può manifestarsi in modi diversi. Sotto la pressione del capitalismo neoliberale occidentale si sta rafforzando una tendenza reazionaria e nazionalista che sostituisce le guerre alla diplomazia, come strumento per la regolazione dei conflitti, che promuove il controllo militare e poliziesco dello spazio pubblico, che approva ordinamenti giuridici segregazionisti, finalizzati al controllo delle migrazioni, che attua delle pratiche sociali e urbanistiche di matrice neoliberista. 

Questo ci fa pensare ad un futuro che sarà sempre più selettivo, perché basato su politiche e azioni che non consentiranno a tutti di beneficiare dei prodigi della tecnica, delle opportunità localizzative migliori, dell’accesso alle risorse essenziali e rare per la vita (acqua, aria, suolo, cibo, salute). 

Per il capitalismo neoliberista, la democrazia è un’opzione tra le altre, non è un fattore fondativo della propria cultura. Anzi riteniamo che il neoliberismo sia oramai un fattore che mette in seria crisi gli assetti democratici così come gli abbiamo conosciuti finora. 

La città autoritaria è concettualmente e nella realtà il luogo entro cui le dinamiche di esclusione della marginalità (la città dei poveri) e dell’esclusività (la città dei ricchi) diviene sempre più egemone in nome del primato dell’economico sul sociale. 

Tale egemonia, e questo è la vera novità rispetto al passato, appare come il corso naturale della storia e l’unica via per la crescita socio-economica delle metropoli contemporanee.

Alfredo Alietti, docente di Sociologia urbana presso l’Università di Ferrara (©Unife)

Il rapporto tra autoritarismo e città nel corso della storia si è manifestato in varie modalità e contesti, la nostra riflessione riguarda la città contemporanea e le interazioni che si sono stabile tra la cultura del capitalismo che oggi, appunto, identifichiamo con il “neoliberismo” e che promuove la riduzione dell’intervento statale nell’economia, enfatizzando il libero mercato, la deregulation e la privatizzazione, mentre lo stato e gli enti pubblici sono sempre più chiamati a svolgere un ruolo di “facilitatori” di processi gestiti privatamente. 

Il capitalismo neoliberista non è in crisi, anzi rafforza sempre più il suo ruolo di “motore di prosperità selettiva”, come sottolinea Nadia Urbinati e lo fa rapportandosi con la politica e le istituzioni senza porsi problemi di democrazia o di autoritarismo, di diritti garanti o negati, lo fa a seconda delle convenienze. 

Nei paesi autoritari la volontà di modificare una città o di costruirne una nuova è una decisione non negoziabile (ad es. New Cairo, Neom Line): è sufficiente un accordo tra investitori e potere. 

Nei paesi democratici, dove i livelli di interazione istituzionale e di garanzia dei diritti comuni dovrebbe essere un bene acquisito la strategia è più subdola e si avvale di potenti apparati comunicativi che propugnano una retorica e una selettiva idea di futuro green che non prende in conto il tema delle disuguaglianze e del diritto alla città per tutti.”

Se queste sono le caratteristiche di fondo, esiste una “cura” per questa che potremmo definire una patologia della convivenza nello spazio urbano? su quali strategie bisognerebbe puntare? che cosa invece non va assolutamente fatto?

“Oggi affidare, come già anticipato, totalmente al mercato la progettazione e la socialità urbana, come possiamo riscontrare in numerose città occidentali, vuol dire orientare un governo della città verso la mercificazione degli spazi e la gentrificazione, scelte che comportano la necessità di rafforzare i meccanismi di sorveglianza, se non proprio la militarizzazione della città. 

Il mercato finanziario e immobiliare deve garantire i propri investimenti per cui si affida a forme di controllo che spesso coinvolgono anche gli spazi pubblici per la ridefinizione di un inedito ordine urbano deprivato di socialità. 

Va tenuto lontano tutto ciò che potrebbe inficiare l’immagine venduta attraverso il progetto di rigenerazione. 

Del resto interventi quali la creazione di nuovi parchi e l’aumento degli alberi in città, la riqualificazione dei waterfront, la mitigazione delle isole di calore, il ridisegno degli spazi pubblici anche per gestire gli effetti indotti dalle acque piovane, il recupero di vecchi edifici esistenti per trasformarli in studentati o in  attrezzature pubbliche, gli interventi per la mobilità sostenibile, hanno certamente un effetto positivo sulla transizione ecologica, ma scatenano anche investimenti finanziari e immobiliari di lusso che generano disuguaglianze e allontanano sempre più i cittadini a basso reddito.

Romeo Farinella, docente di Progettazione urbanistica presso l’Università di Ferrara (©Unife)

Una cura potrebbe essere l’incentivazione di forme di cittadinanza attiva che prevedano il coinvolgimento dei cittadini nei processi urbanistici e di rigenerazione della città. 

Vanno condivisi dei valori e delle scelte che dovrebbero essere “non negoziabili” e che pongono al centro la città pubblica e il diritto per tutti i cittadini ad usufruirne, partendo dagli obiettivi posti, ad esempio dall’agenda 2030 dell’ONU che però si sta rivelando un fallimento, o quanto meno una retorica priva di fondamenta nella realtà.

Solo un percorso caratterizzato da un processo partecipativo con le comunità locali e incentrato su di un ruolo attivo e autorevole dell’amministrazione pubblica, può dare un senso ampio e condiviso ad una strategia urbana non condizionata dal potere del mercato finanziario neoliberista. Questo in un contesto democratico maturo. 

Tuttavia, questa configurazione ideale si scontra proprio con quanto discusso finora, ovvero il carattere autoritario delle politiche urbane presente sia nelle cosiddette democrazie liberali, sia negli stati autocratici e dittatoriali dove ovviamente questo non è nemmeno ipotizzabile.”

 Ci sono buone pratiche a cui ispirarsi, almeno su alcuni aspetti?

In molte città del mondo ci sono esperienze dal basso interessanti che si pongono anche come sperimentazione di processi di gestione e progettazione della città ma non incidono ancora sulle strategie politiche di una città rimanendo esperienze limitate e in qualche caso tollerate per dimostrare che i cittadini sono ascoltati. 

Per quanto riguarda le grandi città interessante è il caso della città di Vienna, una delle esperienze socialmente più avanzate di diritto alla casa e alla città. 

In Europa molte città si sono attivate con progetti e strategie che legano i temi della mobilità sostenibile, alla riconversione ecologica dei quartieri, alle politiche del verde e dello spazio pubblico associato anche ai temi del rischio idraulico. Possiamo citare città come Amsterdam, Copenaghen, Strasburgo e tante altre, ma il rischio gentrificazione (e quindi controllo sociale) è sempre dietro l’angolo come dimostrano i processi di overtourism, le politiche degli affitti brevi, la sostituzione selettiva del commercio. 

Ma siamo sempre in Europa dove, comunque, esiste un livello sociopolitico di attenzione democratica, seppur con luci e ombre, più difficile è la valutazione degli effetti dell’autoritarismo nei paesi del Global South, dove tra l’altro le politiche urbane e territoriali sono spesso strettamente legate a processi “estrattivisti” essendo paesi ricchi di materie prime. 

Lo sfruttamento delle risorse naturali di foreste e mari ha generato dei processi di urbanizzazione informali, mentre l’innovazione passa spesso attraverso la costruzione di smart city in Africa, Asia o Medio Oriente finanziate da capitali finanziari occidentali con l’avvallo di governi locali corrotti. 

L’ esempio eclatante lo troviamo nelle nuove città saudite o degli Emirati Arabi Uniti, costruite con fondi di varia provenienza, certamente occidentali, sauditi e/o “emiratini”. 

Per un altro verso, esistono esperienze di cittadinanza attiva dal basso orientate al recupero dei quartieri informali in America Latina e in Africa ma ancora una volta non appaiono incidere sulle sorti di questi territori. 

Il problema è strutturale e se non si riuscirà ad avviare una seria ridistribuzione della ricchezza e un rinnovamento (ove possibile) della democrazia il futuro delle società urbane, anche nella prospettiva della transizione ecologica, si fonderà su progetti che saranno inevitabilmente selettivi e aumenteranno le dinamiche di segregazione dei poveri e di autosegregazione delle élite. Tornando all’inizio, crediamo che questa tendenza annulli l’idea stessa di urbanità intesa come incontro tra le differenze; quindi, è in questa negazione che ritroviamo l’essenza della città autoritaria.

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