Siamo molto grati alla redazione di Agenda17 che ha lanciato un dibattito aperto sulla proposta del “Manifesto contro la città autoritaria”. La gratitudine è altresì fondata sul valore delle osservazioni e dei contributi, molti dei quali ci permettono di inquadrare meglio i contenuti della nostra proposta. In queste brevi riflessioni tentiamo di rispondere alle tante sollecitazioni, scusandoci in anticipo se non tutte saranno trattate come si dovrebbe.
Prima di entrare nel merito della discussione, vorremmo ribadire il punto nodale del Manifesto, ovvero l’utilizzo dell’aggettivo autoritario. Al di là dei punti elencati nel Manifesto quali sintomi, o indicatori, di città autoritaria i quali agiscono sovente intrecciati tra loro, riteniamo fondamentale definire il termine in oggetto come “l’insieme di ideologie, discorsi, pratiche e politiche sulla città orientato a generare profitto e rendita, a ridurre i diritti alla città degli abitanti, a marginalizzare ed escludere i gruppi più vulnerabili”.
Tale definizione sottolinea implicitamente il ridursi delle istanze di giustizia socio-spaziale e di giustizia climatica quale esito di queste dinamiche. Dalla lettura attenta degli articoli pubblicati emergono con chiarezza questi processi in corso nelle città a partire dalle diverse visioni e tematiche presentate.
Fatte queste premesse passiamo in rassegna alcune delle questioni emerse dalla discussione.
Eco-gentrification come ulteriore elemento di differenziazione sociale
Per quanto ci si sforzi attraverso reti transnazionali tra città e istituzioni, la sostenibilità intesa quale progetto di città nelle sue differenti articolazioni non pare ancora avere un effetto sugli assetti democratici nei termini di giustizia socio-ambientale.
L’abbondante letteratura mostra quanto il valore ecologico sia un ulteriore elemento di differenziazione sociale e spaziale. Il termine eco-gentrification racchiude assai bene tale dinamica per cui gli effetti del cambiamento climatico agiscono principalmente sulle soggettività che non hanno i mezzi per risiedere nei quartieri provvisti delle infrastrutture sostenibili ed ecologiche.
Ne deriva che siamo al paradosso che si avviano progettualità e interventi nella direzione giusta della sostenibilità ma i cui esiti alimentano ancora di più la disuguaglianza poiché non sono rimesse in discussione le fondamenta di un modello ultraliberista che governa le aree urbane che crea sempre più differenziazione tra aree privilegiate e aree deprivate.
Del resto la stessa proposta della città dei 15 minuti nasconde il suo lato oscuro. Certamente il principio guida è assolutamente giusto, creare le condizioni e le situazioni per ritessere legami sociali e promuovere un modello comunitario di prossimità. Tuttavia così come si pone pragmaticamente appare l’ennesima retorica sul futuro delle città. Infatti, prima ancora di determinare la sua applicabilità si dovrebbe spiegare, da un lato, come contrastare efficacemente le dinamiche (autoritarie) e le politiche urbane che hanno desertificato socialmente soprattutto le periferie e i quartieri popolari; dall’altro, quali risorse sono necessarie e possibili per ristabilire quella rete di servizi e di cura in un periodo di profonda crisi della spesa pubblica.
Investire in servizi decentrati ha un costo sovente insostenibile per le amministrazioni locali, e la possibile sostituzione, o delega, con reti comunitarie, o civiche, richiede un lavoro dal basso estremamente difficile, lungo e dai risultati non scontati.
L’idea romantica del negozio sotto casa, della strada quale spazio di vita comunitaria (nella visione della Jane Jacobs) si scontra con la logica inesorabile, solo per fare un esempio tra i tanti, degli spazi commerciali sempre più estesi ed invasivi, anch’esso effetto dell’egemonia del profitto a scapito del sociale. Inoltre, come è stato studiato nel caso dei ghetti afro-americani bisognerebbe aggiungere anche la questione della qualità dei servizi commerciali e pubblici.
L’esempio sempre riconducibile a questa realtà è la questione dei cosiddetti desert food, ovvero la scarsa qualità del cibo venduto localmente nei piccoli negozi di quartiere che alimenta quelle malattie dei “poveri” quali diabete e problemi cardio-vascolari. Il valore della prossimità rischia di diventare l’ennesimo indicatore di disuguaglianza sociale e differenziazione spaziale se non si agisce sulle premesse abilitanti di chi vive in contesti marginalizzati e marginalizzanti.
Proprio a partire dall’ultimo esempio riportato, ci pare oltremodo importante riflettere sul rapporto città e salute affrontato da Carlo Zanotti. Se valutiamo le determinanti della salute, la casa e l’abitare giocano un ruolo sostanziale, quindi la forte sottolineatura delle conseguenze dell’urbanizzazione neoliberista ci pare opportuna e non eludibile nel comporre il mosaico della città autoritaria che nega il diritto alla salute non solo riducendo e privatizzando l’accesso ai servizi sanitari ma anche mediante l’aumento all’esposizione ai rischi ambientali e climatici.
Il problema della democrazia e della partecipazione
Riteniamo decisivo, in piena sintonia con alcuni interventi, il problema della democrazia e della partecipazione quale, parafrasando una celebre canzone, centro di gravità permanente su cui è intervenuta Francesca Cigala Fulgosi.
Sulla crisi della democrazia si è scritto e si è discusso tanto negli ultimi vent’anni. L’emergere dei xeno-populismi, l’avvento della cosiddetta post-democrazia in cui la politica si offre come qualsiasi prodotto di consumo, la limitatezza se non la scomparsa degli spazi di confronto politico sostituiti progressivamente dal monologo dei social, l’emergere di figure più o meno carismatiche che ridefinisce i confini dei partiti e della rappresentanza.
Le società urbane, in particolare le grandi aree metropolitane, riflettono queste tendenze in cui si prefigurano temi quali la sicurezza, la micro criminalità, i quartieri multietnici considerati nella loro anomalia e non spie del collasso della capacità democratica di inclusione e uguaglianza. A ciò si aggiunge una sorta di corto circuito per cui le decisioni di crescita delle città si configurano dentro a una supposta razionalità priva di consenso se non quello esclusivo della rendita e della finanziarizzazione.
In questo quadro, i cittadini e la loro possibile mobilitazione sono considerati come un fastidio che pregiudica lo sviluppo e non come componente ineludibile di un progetto condiviso di urbanità alla ricerca dell’equilibrio tra le esigenze economiche e le esigenze sociali.
Inoltre, sarebbe opportuno valutare anche le competenze della cittadinanza ad agire e a organizzarsi per far fronte alle scelte univoche e unilaterali dei governi e delle amministrazioni locali.
Questo è un punto di discussione fondamentale sul quale sarà necessario confrontarsi nell’immediato futuro al fine di creare le basi per una reale partecipazione e innovare le pratiche democratiche. Contrastare le politiche urbane autoritarie non può prescindere da tale dimensione “politica” e, come giustamente è stato ricordato, appare “urgente definire con precisione gli strumenti che permettano un reale esercizio di partecipazione”.
Nondimeno, come ci ricorda in maniera esemplare Carlo Galli in un suo piccolo grande testo (“Il disagio della democrazia”) l’epoca del neoliberismo è segnata dal prevalere della dimensione privata e privatistica rispetto alla dimensione collettiva e pubblica nel suo significato più ampio. Ed è proprio all’interno di questa cultura e di questa coltura che la città autoritaria, spesso, non trova ostacoli né sufficienti anticorpi.
Non bastano esperienze di partecipazione e coinvolgimento, Serve una politica strutturale
Le esperienze diffuse di partecipazione e di coinvolgimento diretto sono significative nelle nostre città, grandi e piccole, e raffigurano un orizzonte di senso che può essere tradotto in pratiche quotidiane di riappropriazione della città nel suo declinarsi in spazi pubblici, domestici e servizi alla cittadinanza.
Anche in questo specifico caso, tale ricchezza non assume i caratteri di una vera e propria politica strutturale in grado di costruire un’altra città. Come è stato ricordato da Michele Fabbri “a questa vitalità manca un solido coordinamento di rete capace di incidere politicamente”. per cui sarà sempre più urgente connettere le distinte progettualità e i loro risultati per rafforzare ed allargare l’azione di contrasto all’egemone modello autoritario.
A partire da questa potenzialità, il richiamo alla città delle donne, alla città femminista con la sua dialettica positiva con la città della cura, o “città che cura”, ci sembra altrettanto fondamentale. L’affermazione di Dalia Bighinati “la città che va bene alle donne è una città che va bene per tutti” è essenziale nella determinazione di politiche urbane incentrate sul benessere collettivo, sull’inclusività e sulla giustizia sociale ed ecologica.
La città autoritaria è essenzialmente maschilista e patriarcale
Non si può prescindere da questa dimensione poiché riteniamo che la natura della città autoritaria sia essenzialmente maschilista e patriarcale. Le diverse autrici citate, le sperimentazioni riportate, adottate in alcune città italiane, europee e del nord America testimoniano l’urgenza di ripensare l’urbanistica non soltanto nella sua tecnica ma anche e, soprattutto, nella sua dimensione sociale ed etica.
Sul lato prettamente sociologico, la sottolineatura di immaginare e riprogettare una città sicura per le donne rappresenta sicuramente un elemento decisivo a cui si deve associare, come più volte espresso, il ripensamento degli spazi pubblici che tenga conto, esprimendolo con un ossimoro, di questa “specificità universale” in grado di rompere il circolo vizioso della segregazione femminile nello spazio domestico, temi a cui rimandano gli interventi di Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro e di Michele Fabbri e Sandy Fiabane.
Siamo completamente d’accordo sul fatto che lo sguardo al femminile sia la necessaria angolatura per consolidare pratiche di cura non subordinate alla dinamica economicista.
Allargando lo spettro dei casi, taluni esempi dalle metropoli del Sud globale sono estremamente significativi poiché pur in contesti discriminanti e poveri l’associazionismo femminile rappresenta la chiave di volta per sopperire alla totale mancanza di welfare e di accesso ai servizi e, al contempo, la risorsa economica essenziale per la riproduzione sociale delle famiglie.
Le nostre analisi, grazie a questi suggerimenti e osservazioni, dovranno tenere in debita considerazione la prospettiva di genere nel definire le politiche urbane autoritarie e per delineare le possibili risposte ad esse.
La città autoritaria è anche un luogo di segregazioni. Ridefinire i diritti di cittadinanza
Un altro aspetto richiamato tra le righe riguarda la razzializzazione degli spazi, tema che riteniamo altresì fondamentale. La città autoritaria si distingue per essere un luogo di ulteriore segregazione delle componenti migranti e delle minoranze etniche.
Vi è tutto un immaginario collettivo legato ai quartieri multietnici visti nella loro anormalità e nel loro potenziale pericolo all’ordine socio-economico urbano, sul quale si costituisce una prassi istituzionale e politica segnata da discriminazione e razzismo. E qui, tornando al discorso sul genere è opportuno ricorrere al concetto di intersezionalità, ovvero la pluralità degli svantaggi che si accumulano in determinati spazi della città: donna, precaria, abitante in quartieri a rischio e con background migrante.
In questa cornice risulta appropriata la tematica dei diritti in relazione ai contesti urbani e al concetto più generale del diritto all’abitare affrontato da Maria Giulia Bernardini e Orsetta Giolo.
È del tutto evidente che la scala urbana sia ridiventata nella contemporaneità uno spazio conflittuale sempre più determinante per definire e ridefinire i diritti di cittadinanza nella loro pluralità e nella loro articolazione sociale.
Non è certo un caso che la città autoritaria si coniughi con la restrizione dei diritti attraverso la finta neutralità dei meccanismi di mercato. Del resto il ritorno prepotente del diritto alla città di Lefebvre, il cui testo è del 1968, è un segnale significativo che va nella direzione di una volontà di “emancipazione e liberazione” dall’autoritarismo che connota la politica urbana.
Qui ritroviamo l’idea della gratuità degli spazi pubblici, di una riappropriazione della città nel suo immanente carattere di socialità e di incontro tra le diverse appartenenze che contrasta con la progressiva privatizzazione di essi di cui ha scritto Elena Granata. Siamo pienamente d’accordo sul fatto che attualmente i governi della città tradiscono l’immanente carattere dell’urbanità inteso come incontro, socializzazione, conflitto e pluralità delle appartenenze. Tale tradimento rappresenta assai significativamente la cornice entro cui si dipana l’autoritarismo con cui ci confrontiamo e che produce immobilità, deficit di democrazia, soggettività escluse e passive.
Infine, una breve nota sulla rivisitazione del ciclo di seminari “Pietre senza popolo”. Le tematiche discusse sono parte integrante dei caratteri che esprime la città autoritaria, gentrificazione e turistificazione. Vi è ben poco da aggiungere al resoconto poiché oramai questi processi sono decisivi nel rafforzamento dei processi di espulsione dei ceti meno abbienti dalla città e dalla graduale e accanita dinamica di esclusione fondata sulla rendita e sulla finanziarizzazione immobiliare.
L’affermarsi di AirB&B è solo uno delle punte dell’iceberg che enfatizzano il mercato e il paradigma economico quale esclusivo regolatore dei rapporti sociali il quale alimenta e rafforza le disuguaglianze sociali e spaziali. In altre parole, è del tutto evidente che la città sia divenuta “pietre per pochi” in piena sintonia l’obiettivo implicito di tale logica fondiaria e autoritaria.
Non resta che chiudere le nostre contro osservazioni sul piano della prospettiva delle possibili alternative.
Contro la città autoritaria: lotta per i diritti, politiche urbane e dibattito pubblico
Il modello autoritario per quanto sia forte e pervasivo offre delle chance di conflitto e di pratiche politiche e sociali potenzialmente capaci di aprire fratture significative.
Innanzitutto, la crescita di movimenti e gruppi organizzati per il diritto all’abitare e alla città che raffigurano spazi non solo di resistenza ma anche di proposte serie e articolate per opporsi un destino apparentemente già segnato dai processi sopra menzionati. Il passaggio a una piattaforma nazionale che riunisca queste esperienze di lotta è un fatto che sta maturando come si evince dal recente Social Forum dell’abitare svoltosi a Bologna in aprile che ha riunito decine di associazioni locali, sindacati e una parte importante del terzo settore.
In seconda battuta, vi sono esempi di città europee, alcuni citati negli articoli, in cui le amministrazioni hanno avviato una revisione importante delle politiche urbane e abitative assumendosi la responsabilità di introdurre limiti al monologo neoliberista. Vi è ancora molto da immaginare, creare e fare.
Il nostro contributo di ricerca e la discussione che ne è derivata su Agenda17 è un altro piccolo tassello diretto a leggere la realtà urbana e le sue distorsioni per fornire successivamente quelle basi di conoscenza utili per cercare, trovare, adottare e diffondere strategie efficaci contro la città autoritaria.