L’abitare è una modalità̀ con cui si edifica la società. […]
(Marrone, L’abitare come pratica sociale)
L’abitare è contemporaneamente il modo in cui
il sistema sociale e culturale dominante ordina
le relazioni sociali intersoggettive
ed il modo in cui i soggetti
costruiscono questa ideologia.
L’espressione “diritto all’abitare” è composta da concetti che rinviano a universi teorici e semantici diversi, afferenti, da un lato, ai diritti fondamentali – colti alla luce della storia della loro progressiva affermazione in chiave universale – e, dall’altro, all’urbanistica e all’architettura.
Nonostante la sua vaghezza, questa espressione ha il pregio di sottolineare, anche in assenza di un vero e proprio referente normativo – piuttosto, all’interno delle fonti multilivello è riconosciuto il diritto all’abitazione: si pensi, ad esempio, all’art. 25 della Dichiarazione Universale dei diritti umani del 1948 e all’art. 11 del Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966 – la relazione fondamentale tra diritto e spazio. Anche se la dottrina giuridica per molto tempo non si è interrogata sul punto, tale relazione può essere considerata genetica: il diritto, infatti, ha necessariamente bisogno di un dove applicativo, sia esso un luogo concreto o uno spazio “dematerializzato”.
La noncuranza per quella che oggi si rivela nei termini di una verità autoevidente – ossia la relazione necessaria tra il diritto e il suo dove – fa del “diritto all’abitare” una vera e propria sfida nell’ambito degli studi giuridici. Questi ultimi sono sempre più chiamati a riflettere sugli spazi “nuovi” del diritto (da quelli virtuali a quelli post-domestici), nonché a interrogare in modo più radicale la centrale (quanto problematica) distinzione tra sfera pubblica e sfera privata. Esse, assunte come dicotomiche, appaiono oggi compenetrate e interdipendenti, sia alla luce dei diritti (che abitano entrambe le sfere), sia in relazione alle trasformazioni imposte dalla globalizzazione neoliberale, con l’emersione dello spazio globale e, di converso, della città.
Non a caso, oggi il diritto è più interessato in modo rilevante dalle questioni che guardano agli spazi urbani come uno dei contesti in cui collocare le dinamiche che prima afferivano al territorio dello Stato, con particolare riferimento alle garanzie dei diritti (la sanità, la scuola, la mobilità e così via).
La città e l’abitare come sintesi dei problemi dell’accesso universale ai diritti
Proprio l’avvento della città quale nuovo luogo da indagare nella prospettiva giuridica ha indotto a interrogarsi sull’abitare, inteso quale sintesi di una serie di questioni rapportabili all’accesso universale ai diritti.
Abitare la città senza subire processi di discriminazione, marginalizzazione, incapacitazione o esclusione impone, infatti, di pensare i diritti in relazione ai soggetti che li rivendicano e al loro spazio di azione, in un continuum tra spazio domestico e spazio urbano. Relazione, questa, che presuppone la creazione, ad opera dei diversi attori istituzionali – chiamati ad essere responsive –, delle condizioni atte a promuovere e garantire le capacità delle persone e la loro inclusione, soprattutto ove versino in condizioni di vulnerabilità, discriminazione, diseguaglianza.
A riprova del fatto che lo spazio domestico e quello urbano devono essere considerati secondo una soluzione di continuità, si può ricordare l’attuale tendenza a trasformare le politiche della casa nelle più articolate politiche per l’abitare, al fine di offrire una risposta adeguata alla pluralità di esigenze alla cui soddisfazione l’abitazione, immersa nel tessuto urbano, è funzionale. Il diritto alla casa, inteso quale punto d’intersezione tra molteplici strade, spazi, politiche e diritti, diviene allora parte del più ampio diritto ad una città più giusta.
Tutto ciò conduce inevitabilmente a muovere una critica serrata anche alla falsa neutralità del diritto. Interrogarsi sul “dove” del diritto e dei diritti consente infatti in primo luogo di accorgersi del fatto che la sfera pubblica e quella privata sono separate da “confini morali” (come segnalava Joan Tronto ne “I confini morali. Un argomento politico per l’etica della cura”, nel 2016), ossia da linee politiche che nel corso del tempo sono state tracciate per sancire la rilevanza di alcune questioni e di certi soggetti e l’irrilevanza di altri, come avevamo già indicato in “Le teorie critiche del diritto” e in “Abitare i diritti”.
La svolta relativa alla giustizia spaziale ha permesso infatti di osservare gli effetti della territorializzazione delle differenze: il modo in cui gli spazi urbani e architettonici sono configurati o suddivisi cela sovente, dietro un’apparente neutralità, schemi ideologici che sono in grado di perpetrare sia l’occultamento di determinate soggettività (e la conseguente violazione di specifici diritti), sia forme di violenza (tanto materiale, quanto simbolica, come aveva avvertito Pierre Bourdieu nel 1970 in “Pour une sociologie des formes symboliques”), rivelando i codici culturali che sono a fondamento della società stessa.
La condizione delle persone private della libertà personale (siano esse in stato di detenzione, o quelle con disabilità o anziane non autosufficienti, ospitate all’interno delle strutture residenziali a carattere segregante) sono forse l’esempio più lampante di questi processi: si tratta di vite “di scarto”, da cui la società deve foucaultianamente difendersi, anche attraverso una rimozione delle soggettività che prende le forme di un vero e proprio confinamento all’interno di strutture e campi che, il più delle volte, si trovano ai margini della città.
Abitare città e case compatibili con le differenze-specificità di tutte le persone
Eppure, la relazione tra diritto e spazio urbano può anche seguire un processo inverso, diretto a “liberare” le soggettività escluse, discriminate, oppresse. È quanto accade laddove si provveda a tutelare i diritti e a restituire quelli violati, fino a spingersi verso “nuove fondazioni”, come accade proprio nell’attuale processo di costruzione delle varie “libertà di”, tra le quali figurano quelle di abitare in città e case che siano compatibili con le esigenze delle persone – tutte –, riconosciute nelle loro differenze-specificità.
Anche nella città, dunque, universale e particolare si coniugano nella tutela dei diritti di tutti e ciascuno. Emerge proprio a questo riguardo il concetto di “soglia”, che trova maggiore impiego negli studi critici urbani e nella riflessione sui beni comuni. Il “posto” dei diritti, infatti, sta nel frangente che si colloca tra le diverse dimensioni: i diritti non sono circoscritti all’interno di un unico ambito, rafforzano e rendono evidente l’interdipendenza tra gli spazi, permettono alle persone, tutte, di varcare quella soglia che distingue le sfere (pubblico/privato, universale/particolare, globale/locale) ogni qualvolta sia necessario per attivare processi – in primo luogo politici– di emancipazione e liberazione.
(Contro la città autoritaria è il manifesto con cui il sociologo Alfredo Alietti e l’architetto Romeo Farinella hanno lanciato l’idea di un confronto interdisciplinare sui luoghi dell’abitare)
(We acknowledge financial support under the National Recovery and Resilience Plan (NRRP), Mission 4, Component 2, Investment 1.1, Call for tender No. 1409 published on 14.9.2022 by the Italian Ministry of University and Research (MUR), funded by the European Union – NextGenerationEU– Project Title “The right to independent living as a new frontier of justice: older people, urban spaces and the law” – CUP F53D23011960001 – Grant Assignment Decree No. 1375 adopted on 01/09/2023 by the Italian Ministry of Ministry of University and Research (MUR)).