Nel mese di maggio Amnesty International ha pubblicato il Rapporto sulla pena di morte e sulle esecuzioni eseguite nel Mondo nel 2023. Amnesty International ha registrato 1.153 esecuzioni, un aumento del 31% rispetto alle 883 esecuzioni eseguite nel 2022.
Il significativo aumento del totale globale è dovuto principalmente all’aumento delle esecuzioni in Iran e in Arabia Saudita che sono stati responsabili dell’89% del totale delle esecuzioni conosciute.
Le informazioni raccolte dall’organizzazione non governativa provengono da una varietà di fonti, tra cui dati ufficiali, sentenze, informazioni provenienti da individui condannati a morte e dalle loro famiglie e rappresentanti, resoconti dei media e altre organizzazioni della società civile. In molti Paesi i governi non pubblicano informazioni sull’uso della pena di morte come la Cina, la Corea del Nord e il Vietnam dove i dati sull’uso della pena di morte sono classificati come segreto di stato. Nel caso della Cina il Rapporto di Amnesty International riporta che i dati pubblicati sono significativamente inferiori alla realtà, a causa delle restrizioni di accesso alle informazioni.
Come si legge nel documento anche Paesi come gli USA restringono l’accesso alle informazioni sulle condanne di morte eseguite. Infatti, le autorità di alcuni Stati americani hanno chiesto di secretare la contabilità relativa alle forniture di attrezzature o di sostanze utilizzate nelle esecuzioni capitali come ad esempio l’Alabama dove il nuovo protocollo prevede esecuzioni mediante asfissia di azoto.
In Iran aumentano le esecuzioni per reati di droga e il Paese è il più grande giustiziere di donne al Mondo
L’aumento delle esecuzioni registrate in Iran (+48%) è in gran parte attribuibile a un allarmante picco di esecuzioni per reati di droga, nonostante le leggi internazionali impediscano l’uso della pena di morte per questi reati. Inoltre, si registra un impatto sproporzionato nelle comunità emarginate dell’Iran, in particolare uomini e donne della minoranza etnica Baluchi.
Il Centro di statistica e documentazione dell’organizzazione per i diritti umani curda Hengaw Organisation for Human Rights riferisce che nel 2023 tra i prigionieri giustiziati, oltre 151 erano curdi e 179 della minoranza etnica Baluchi mentre 31 persone sono state condannate a morte con accuse relative ad attività politiche e religiose, partecipazione a proteste e coinvolgimento nei movimenti di Jin, Jiyan, Azadi (Donna, Vita, Libertà). Un numero significativo di condanne a morte, 468 pari al 57% del totale, sono state eseguite per reati legati al traffico di stupefacenti mentre 284 persone sono state giustiziate con accuse di omicidio.
Il dato preoccupante è che nel 2023 almeno 22 donne e 5 bambini, che avevano meno di 18 anni al momento del crimine, sono stati giustiziati nelle carceri iraniane. Nella maggior parte dei casi, le donne ricevono una condanna alla pena capitale per aver ucciso il marito e come per tutte le esecuzioni, quelle delle donne vengono eseguite in segreto.
Come riportato da Iran Human Rights, l’ultima donna condannata a morte il 20 dicembre scorso è stata Samira Sabzian, impiccata nel carcere di Ghezelhesar. Samira è stata arrestata dieci anni fa e condannata alla qisas (punizione in natura) per l’omicidio di suo marito. Samira era una sposa bambina sposata a 15 anni e vittima di violenza domestica. C’è da sottolineare che all’interno del matrimonio, la donna non ha il diritto al divorzio, anche nei casi di violenza e abuso domestico, che sono nascosti nei codici culturali e nel linguaggio. Quando Samira è stata arrestata aveva due bambini piccoli, di cui il piccolo appena nato, ma questo non ha impedito l’esecuzione della pena capitale.
Secondo il codice penale islamico, la qisas o punizione in natura è un diritto della famiglia della vittima di omicidio. Lo Stato mette la responsabilità delle esecuzioni per omicidio nelle mani della famiglia della vittima, che decide se vuole la punizione, la diya (prezzo del sangue) o il perdono. Le condanne a morte di qisas vengono imposte anche per i minorenni poiché, secondo la Sharia, l’età della responsabilità penale per le ragazze è di 9 anni e per i ragazzi di 15 anni lunari (8,7 anni per le ragazze e 14,6 anni per i ragazzi).
Le accuse alla sicurezza che prevedono la pena di morte includono moharebeh (inimicizia contro Dio), efsad-fil-arz (corruzione sulla terra), baghy (ribellione armata) e spionaggio. Le vaghe accuse sotto la giurisdizione dei tribunali rivoluzionari vengono spesso usate contro i prigionieri politici.
In Arabia Saudita le condanne avvengono anche per solo per pacifiche attività sui social network
Nel 2023 le autorità saudite hanno giustiziato 172 persone mentre l’anno precedente ha registrato il numero più alto di esecuzioni annuali nel Paese negli ultimi 30 anni con un totale di 196 persone.
Molti sono i casi documentati in cui le autorità saudite hanno condannato a morte persone per motivi vari da pochi tweet a reati di droga, a seguito di processi che Amnesty International definisce iniqui e molto al di sotto degli standard internazionali sui diritti umani.
Come riportato da Human Rights Watch, lo scorso luglio è stato condannato Muhammad al-Ghamdi, un insegnante saudita di 54 anni, per diversi reati legati esclusivamente alla sua attività pacifica online. La corte lo ha condannato alla pena capitale utilizzando i suoi tweet, retweet e l’attività su YouTube come prova contro di lui.
Il pubblico ministero ha chiesto il massimo delle pene per tutte le accuse contro al-Ghamdi. I documenti affermano che la corte ha emesso la sentenza sulla base del fatto che i crimini “hanno preso di mira lo status del re e del principe ereditario” e che “la portata delle sue azioni è amplificata dal fatto che sono avvenute attraverso una piattaforma mediatica globale, rendendo necessario una punizione severa”.
Nell’agosto 2022, una corte d’appello saudita ha aumentato drasticamente la pena detentiva di una dottoranda saudita, Salma al Shehab, da 6 a 34 anni, basandosi esclusivamente sulla sua attività sulla piattaforma X. La pena è stata poi ridotta in appello a 27 anni. Lo stesso giorno, un tribunale ha condannato un’altra donna, Nourah bin Saeed al-Qahtani, a 45 anni di carcere per “aver utilizzato Internet per lacerare il tessuto sociale del Paese”.
La pena di morte è stata abolita in 112 Paesi
Ad oggi, 112 paesi hanno abolito la pena di morte per tutti i reati e più di due terzi in totale sono abolizionisti nella legge o nella pratica. Lo scorso luglio in Pakistan è stata abrogata la pena di morte per reati legati alla droga e in Malesia è entrata in vigore l’abolizione della pena di morte mentre il Parlamento del Ghana ha votato a favore di due progetti di legge per la sua eliminazione.