Anche sul fronte della montagna, il Piano nazionale di adattamento al cambiamento climatico (Pnacc) rivela poca attenzione alla situazione concreta, che necessita invece di misure mirate per la tutela dei territori. Pur essendo “uno strumento indispensabile per affrontare l’acuirsi della crisi climatica, con una particolare attenzione alla montagna, dove gli effetti sono più evidenti che altrove”, in esso “non si riscontra alcun riferimento a quanto accaduto non solo nell’ultimo anno ma anche negli anni precedenti. I dati di riferimento risultano piuttosto datati: l’utilizzo di un quadro climatico nazionale che riporta l’analisi del clima sul periodo di riferimento 1981-2010 ci pare inadatto e si chiede di intervenire in tempi brevi con un aggiornamento che prenda in considerazione anche gli ultimi dodici anni” osserva il Comitato italiano della Commissione internazionale per la protezione delle Alpi (Cipra).
Solo per fare alcuni esempi, infatti, nel 2022 per la prima volta le località turistiche su ghiacciaio, dove in estate si poteva sciare, sono state costrette a chiudere le piste, le discese autunnali di Coppa del Mondo di sci alpino tra Zermatt e Cervinia sono state annullate e molte guide alpine hanno rinunciato agli accompagnamenti sul monte Bianco e sul monte Rosa.
I ghiacciai mutano velocemente, ma i dati del Piano sono vecchi
Dati che non sono aggiornati nemmeno sul fronte idrico: proprio negli ultimi anni i ghiacciai hanno subito una perdita di superficie e volume di gran lunga superiore a quanto descritto nel Piano. “Negli ultimi 150 anni – sottolinea il Cipra – abbiamo assistito a una riduzione areale dei ghiacciai del 60% nelle Alpi, con punte dell’82% nelle Alpi Giulie e 97% nelle Marittime. Per ricevere e decodificare i segnali di allarme dell’ambiente glaciale è necessario disporre di dati multi temporali aggiornati che permettono di verificarne le variazioni, a partire dal patrimonio documentale del Comitato glaciologico italiano.”
Vista quindi la natura dinamica degli ambienti glaciali bisogna non solo potenziare l’analisi degli eventi di instabilità, ma anche valutare come i servizi ecosistemici connessi agli ambienti glaciali mutano nel tempo in funzione dei cambiamenti climatici e acquisire nuovi dati sui bacini montani, per comprendere come cambierà la disponibilità idrica.
Attenzione al crescente rischio di dissesto idrogeologico
A interessare la montagna sono anche le misure (55-58) che riguardano il dissesto geologico, idrogeologico e idraulico e il monitoraggio dei crescenti fenomeni franosi e delle condizioni critiche di alta montagna. Anche qui, però, osserva il Cipra, le misure dovranno essere finalizzate a “pianificare e gestire le aree di alta quota in funzione dell’adattamento ai cambiamenti climatici con particolare attenzione ai bacini soggetti a rischi naturali legati alla trasformazione di neve, ghiaccio e permafrost, per modulare i loro possibili contributi alle inondazioni e aumentare la resistenza delle valli montane ai fenomeni metereologici estremi.”
Ancora una volta ritorna fondamentale l’aggiornamento: occorre rivedere la delimitazione delle zone a rischio secondo procedure costantemente aggiornate, adeguando i documenti urbanistici ai rischi di frane, valanghe, colate detritiche torrentizie, inondazioni, incendi e altri rischi connessi ai cambiamenti climatici.
Coinvolgimento delle comunità locali, a partire dalla centralità dei pascoli
Per farlo, diventerà indispensabile la sinergia tra scienza, politica e società e il coinvolgimento dei territori locali: nell’Osservatorio nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici in costruzione, infatti, secondo il Comitato mancano i corpi intermedi come le associazioni di tutela ambientale. È invece necessario investire su percorsi di partecipazione che coinvolgano le realtà locali e individuare opzioni di adattamento per i vari settori, a partire dall’esame delle buone pratiche già esistenti.
E tra questi settori, riveste particolare importanza l’agricoltura: “si deve rilevare – conclude il Cipra – come l’approccio al settore del pascolo sia fortemente superficiale, tanto da giudicare ‘i pascoli italiani localizzati prevalentemente in aree marginali’. Posto che i pascoli svolgono un ruolo primario nell’economia di montagna, costituiscono un ambiente di grande rilevanza per la biodiversità montana e come serbatoio di carbonio.”
I suggerimenti vanno dunque dalla valutazione degli impatti del clima sulla produttività dei sistemi pastorali, ad esempio gli eventi estremi, la diffusione di patogeni e la variazione del numero di generazione dei fitofagi, basti pensare alla proliferazione del bostrico, ma anche l’approfondimento del monitoraggio dei suoli, individuando pratiche agricole che favoriscono il sequestro e la conservazione del carbonio nel suolo, e la promozione di sistemi agroforestali per migliorare l’efficienza delle pratiche agricole e la loro resilienza a fattori climatici avversi.