Secondo Fondazione Cima, la situazione della neve è in peggioramento in Italia: a febbraio, il deficit dello snow water equivalent, cioè l’acqua contenuta nella neve, è di -64% a livello nazionale, con la situazione peggiore sugli Appennini. Nonostante questi dati allarmanti, la poca concretezza riscontrata in tutto il Piano nazionale di adattamento al cambiamento climatico (Pnacc) si conferma anche nelle misure per il settore alpino.
“Soprattutto nella parte in cui si parla di montagna, appare chiaro che questo Pnacc non è stato concepito con l’intenzione di mettere la natura al centro. Al centro, invece, rimangono le esigenze umane, soprattutto quelle di tipo turistico e commerciale: sono anni che si parla di riconversione del turismo montano e di costruire nuovi modelli, ma il piano spinge a mettere di nuovo la testa sotto la sabbia in spregio anche delle indicazioni europee” afferma ad Agenda17 Marco Merola, giornalista scientifico e ideatore del progetto multimediale “Adaptation”.
In particolare sono le misure 330 e 332 del Piano ad apparire, ancora una volta, come focalizzate esclusivamente sulla monocultura dello sci e il mantenimento dell’industria del turismo invernale.
Gestione del turismo: innevamento artificiale e protezione delle piste
La prima misura è definita “snow farming” e prevede manutenzione accurata e ombreggiamento delle piste da sci, la costruzione di barriere anti-deposito, la piantumazione di alberi per proteggere le piste, l’innevamento naturale o artificiale, l’allestimento di depositi di neve che sarà poi coperta con teli o segatura per conservarla intatta.
La seconda riguarda invece “l’utilizzo dei soli impianti di innevamento artificiale esistenti e la loro progressiva dismissione a favore di pratiche di mantenimento dell’innevamento più sostenibili”: prevede però ancora il ricorso all’innevamento artificiale, pur riconoscendone gli alti costi, l’elevato impatto ambientale e sul paesaggio, nonché la “possibile” insufficienza in caso di temperature elevate.
“Le misure 330 e 332 – prosegue Merola – raccomandano di conservare la poca neve ormai presente attraverso tecniche di snow farming e ombreggiamento delle piste proprio per poterla usare a scopo turistico nella stagione successiva. Queste misure non solo sono vaghe nei loro aspetti pratici, ma anche surreali e miopi perché contrastano con il principio dell’adattamento e della conservazione degli habitat.
Inoltre, non tengono nel giusto conto la totale eco-insostenibilità del ricorso alla neve artificiale. La situazione delle Alpi italiane è critica ormai da anni e insieme al mio team di lavoro ne abbiamo recentemente parlato nella puntata di Adaptation dedicata al Friuli Venezia Giulia.”
Riconvertire l’industria dello sci per fermare l’accanimento terapeutico
Il turismo invernale vale circa 10 miliardi all’anno ed è una risorsa economica centrale per molte zone. Tuttavia, secondo il Comitato italiano della Commissione internazionale per la protezione delle Alpi (Cipra), l’industria dello sci ha bisogno di cambiare pelle: “ci troviamo di fronte a una montagna che cambia a vista d’occhio, dove sarà sempre più difficile identificare la stagione invernale con lo sci alpino e per questo avrà bisogno di riconfigurarsi in un’idea di sostenibilità più ampia. Bisogna riconoscere la necessità di convertire quei modelli di sviluppo che espongono i territori alla continua incertezza stagionale.
Ciononostante il Pnacc affronta solo marginalmente questa situazione dai risvolti economici, sociali e ambientali non trascurabili.” Tra i suggerimenti avanzati rientrano il riconoscimento delle zone montane come soggette a crescente siccità, la pianificazione di infrastrutture che abbia come riferimento la ricerca scientifica (“la paura di ritrovarci con una montagna abbandonata non diventi l’alibi per le istituzioni per negare il problema continuando a finanziare acriticamente la filiera dello sci alpino”), ma anche sostenere progetti di diversificazione dell’offerta turistica, non assegnare contributi per lo sci alpino al di sotto dei 1500-2000 metri di quota e limitare il potenziamento degli impianti di alta quota.
Non solo: sarà fondamentale riequilibrare gli investimenti “tra la montagna delle grandi stazioni sciistiche e la montagna più povera” e finanziare le attività che promuovono un turismo soft e che coinvolgono le risorse locali.
Infine, “la misura riguardante lo snow farming andrebbe ridimensionata per quel che effettivamente può contribuire al mantenimento della copertura nevosa, evitando gli eccessi che si possono tradurre in dispendiose forme di accanimento terapeutico.”
Il Piano della Svizzera: diversificazione del turismo e tutela della biodiversità
Eppure, c’è chi si interroga su uno sviluppo alternativo più consapevole di dover fare i conti con cambiamenti repentini. Come suggerisce Merola, il Piano d’azione svizzero ben sottolinea che l’innalzamento del limite delle nevicate accorcia la stagione degli sport invernali e fa aumentare i costi dell’innevamento, oltre ad avere pesanti conseguenze su habitat locali e mantenimento della biodiversità.
Per questo, si legge, le misure devono “favorire la diversificazione dell’offerta con una promozione del turismo e basi conoscitive mirate” e “si devono concentrare su aree già ben collegate per ridurre i danni a livello di paesaggio”, mentre per la biodiversità “sono prioritarie le misure volte a migliorare l’interconnessione verticale degli habitat a diverse altitudini. Occorre evitare il deterioramento della biodiversità con misure di adattamento in altri settori.”
Da qui lo sviluppo e la diversificazione dell’offerta, con progetti volti a incentivare il turismo nell’arco dell’intero anno, incentivi economici per le imprese e mezzi di promozione per gli investimenti nell’adattamento ai cambiamenti climatici. Ma non solo: per le misure di adattamento nel turismo “è necessario considerare i servizi ecosistemici multifunzionali e salvaguardare il più possibile l’integrità dei paesaggi alpini sinora poco o non ancora deturpati.” (1_Continua)