Sviluppo è innanzitutto e intrinsecamente cambiamento; è economico quando ci si riferisce ai modi di provvedere e impiegare mezzi e risorse. Tale cambiamento si è sostanziato in un percorso millenario lungo il quale si riconoscono due grandi svolte o “rivoluzioni”: il passaggio dal nomadismo alla sedentarietà intorno al 7000 a.C. e l’avvio dell’industrializzazione nella seconda metà del XVIII secolo. A partire da quest’ultima svolta, in particolare, ciò che prima accadeva nel trascorrere dei millenni sarebbe accaduto nel giro di poche generazioni (Carlo Maria Cipolla, Before the Industrial Revolution: European Society and Economy 1000–1700). Non meno importante, ciò avrebbe alimentato ulteriore e più rapido cambiamento (David S. Landes, Prometeo liberato, tr. it. di Valerio Grisoli e Franco Salvatorelli). Da qui il bisogno di riflettere sullo sviluppo.
Secondo, l’evoluzione dei modi di provvedere e impiegare mezzi e risorse ha intrinsecamente a che fare con la convivenza umana, la cui storia è per Yuval Noah Harari (Sapiens: A Brief History of Humankind) quella di una crescente complessità dello stare insieme. Per Adam Smith (An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations), proprio questa crescente complessità (un aumento della “divisione del lavoro” che permette la specializzazione del saper fare) genera essa stessa occasioni di progresso, di un avanzamento sociale di cui Thomas Robert Malthus (An Essay on the Principle of Population) faceva una vera e propria questione di “perfettibilità”.
Terzo, se si escludono disegni ideologici a priori, non è dato prevedere chiaramente la traiettoria del cambiamento al punto che Gunnar Myrdal, due secoli dopo Malthus, definiva ancora lo sviluppo come un generale “movimento verso l’alto di un intero sistema sociale” (What is Development? Journal of Economic Issues). Ma proprio in quanto movimento sociale, lo sviluppo non accade inspiegabilmente: lo sviluppo è agito, cioè il risultato di un’azione o reazione all’ostacolo, al vincolo, all’impedimento al cambiamento stesso, quella che Joseph A. Schumpeter chiamava “risposta” (The Creative Response in Economic History. The Journal of Economic History).
Poiché agito, lo sviluppo è causato e, di conseguenza—non troppo diversamente da quanto affermava Martin Heidegger a proposito di tecnologia (The Question Concerning Technology, and Other Essays, tr. ingl. di William Lovitt)—intrinsecamente, sebbene indeterminatamente, una responsabilità. Si arriva così a uno dei nodi fondamentali delle scienze sociali, ovvero la discrasia del cambiamento: responsabilità e accidentalità; pochi, molti, o un intero sistema sociale; azione e inerzia; protagonismo e marginalità; aspirazione e diffidenza; ostacoli e ambizioni; responsabilità e inconsapevolezza; tutti ingredienti (non esaustivi) di un conflitto intrinseco che, secondo Simon Kuznets (Modern Economic Growth: Findings and Reflections. The American Economic Review), il cambiamento stesso dovrebbe saper risolvere, o quantomeno accomodare, per potersi definire sviluppo.
La frattura originaria e la prospettiva deterministica
“Il nostro mondo moderno è per molti versi il prodotto dell’industrializzazione [che ha diviso] l’economia mondiale in paesi ricchi e paesi poveri” (Dani Rodrik, Premature deindustrialization. Journal of Economic Growth). I paesi ricchi sono quelli entrati per primi nella cosiddetta “crescita economica moderna” (Kuznets, ibidem), una vera e propria epoca in cui l’intensità e la rapidità del progresso tecnico, se sostenuto da opportuni aggiustamenti istituzionali e ideologici, ha permesso di creare—o dis-velare, se si preferisce proseguire nella prospettiva heideggeriana e, in un certo senso, malthusiana—nuove e migliori condizioni di convivenza.
In un percorso di cui si scopre il tragitto solo passo dopo passo la storia si fa riferimento tanto indispensabile quanto potente, al punto che “[i]I paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del suo avvenire” (Karl Marx, Il Capitale, a cura di Eugenio Sbardella). Con questa convinzione, si è a lungo inteso lo sviluppo come un processo essenzialmente deterministico. Non si trattava solo di sperimentare una crescita esponenziale della produttività del lavoro, quanto piuttosto di accompagnarla con una trasformazione profonda della società, delle sue relazioni e organizzazione, che ha indotto Walt Whitman Rostow a scandire l’esperienza delle economie industrializzate o “avanzate” in stadi distinti da rilevanti discontinuità (The Stages of Economic Growth. The Economic History Review). Ne sono esempi il rapporto con le materie prime e l’ambiente, le fonti di energia impiegate, i modi di lavorare, la quantità e varietà di beni e servizi che il lavoro riesce a produrre, l’atteggiamento verso il futuro e l’incerto, l’approccio al risparmio e all’investimento, le tendenze demografiche, la gestione dei conflitti sociali e, quindi, le regole stesse dello stare insieme.
Al contempo le economie in ritardo sperimentavano quella che Alexander Gerschenkron (Economic backwardness in historical perspective: a book of essays) definiva una “tensione” tra la realtà della propria arretratezza e il desiderio di modernità. Il rimedio a tale inquietudine si intravedeva nella possibilità di sfruttare il sedimentato di tecniche e di regole messo a disposizione dalle economie moderne e l’opportunità, quindi, di “rimontare” (Moses Abramovitz, Catching Up, Forging Ahead, and Falling Behind. The Journal of Economic History) ricomponendo la frattura con la modernità. D’altro canto, per le economie moderne ciò avrebbe significato scongiurare minacce imprevedibili alla stabilità necessaria al proprio primato, come nella ricostruzione dell’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Il fallimento della rimonta e la prospettiva possibilista
Se negli anni successivi la rimonta si è dimostrata fattibile, lo ha fatto solo in pochi casi circoscritti all’Europa, alle sue ex-colonie e a un gruppo ristretto di economie asiatiche come Giappone e Corea del Sud (Rodrik, ibidem): tutte economie che si ritiene possedessero già le capacità indispensabili alla trasformazione (Abramovitz, ibidem). Man mano che i divari si ampliavano, inoltre, si è consolidato l’uso di riferirsi all’esperienza delle economie avanzate con il termine “crescita economica” e di riservare alle economie ritardatarie la questione dello “sviluppo economico” inteso soprattutto come creazione delle condizioni, o “prerequisiti” (Rostow, ibidem), necessarie a rendere possibile il cambiamento.
Proprio l’enfasi sulle possibilità ha però portato il discorso sullo sviluppo ad affrancarsi dal determinismo tra gli anni ‘70 e ‘80 del XX secolo. La discontinuità del cambiamento, infatti, presuppone un esercizio di creatività (Schumpeter, ibidem) che non permette di presupporne i prerequisiti. Secondo Albert O. Hirschman (Il principio della mano che nasconde, in Come complicare l’economia, a cura di Luca Meldolesi), tali precondizioni si possono formare (o non formare) solamente nell’esperienza stessa del cambiamento e spesso inintenzionalmente, rivelando cioè capacità che non si pensava nemmeno di possedere. Di qui l’impraticabilità generale di “replicare” un modello e il problema di ripensare cos’è “sviluppo”.
La proposta di Amartya K. Sen (Development: Which Way Now? The Economic Journal) è di ragionare non più in termini di capacità di offrire una crescente varietà di beni come proponeva Kuznets (ibidem), quanto piuttosto di crescenti possibilità (che implicano capacità e libertà) di scegliere all’interno di tale varietà, rimettendo al centro dello sviluppo le persone e i loro progetti di vita (UNDP, Human Development Report 1990: Concept and Measurement of Human Development). In questa nuova prospettiva, ad esempio, quelle che prima erano “disparità” diventano “disuguaglianze” e non possono più essere esaustivamente rappresentate dalle sole statistiche. Lo sviluppo smette così di concentrarsi prioritariamente sul “quanto”, lasciando sempre più spazio al “come”.
Alternative e nuove fratture
Il “come” ha significato per alcuni perseverare nel tentativo di riprodurre pedissequamente nelle economie ritardatarie i modi di provvedere e impiegare mezzi e risorse delle economie avanzate. Ciò ha prodotto insuccessi, talvolta disastri, come quelli del cosiddetto “Washington Consensus” a cavallo degli anni ‘80 e ‘90 che la stessa World Bank non ha evitato di riconoscere (Economic Growth in the 1990s: Learning from a Decade of Reform). Il fallimento della “ricetta” fino ad allora meglio riuscita ha spalancato definitivamente la porta alla “progettazione” delle alternative e, se il confronto non poteva spingersi fino alla negazione dei modi di produrre del capitalismo—tale era stata l’ambizione del marxismo-leninismo, ma gli imminenti esiti della Guerra Fredda si stavano già facendo evidenti—, in alcune economie si è sperimentato di dare priorità al laboratorio delle istituzioni o, in altre parole, delle regole stesse dello stare insieme.
Quando si identifica la cifra del cambiamento nelle possibilità di scelta, si parla in sostanza di democrazia e, non a caso, l’esperienza delle economie avanzate è stata sostenuta dall’affermazione della democrazia liberale. Diversamente, come hanno notato Sharun W. Mukand e Dani Rodrik (The Political Economy of Liberal Democracy. The Economic Journal), un numero crescente di significative esperienze di trasformazione economica (Cina, Turchia, India, ad esempio) oggi sembra non preoccuparsi troppo delle limitazioni di alcune libertà, diverse a seconda del contesto, che “uniformano” il percorso nell’ipotesi di accelerarne il passo. Ciò sta assumendo i caratteri di una negazione aprioristica del conflitto che marca una nuova frattura tra quelle che sembrano ormai due epoche distinte dello sviluppo: una frattura che ha iniziato a mostrare la sua profondità e paradosso in una molteplicità di situazioni, non ultimo il conflitto in Ucraina.
Attraverso le fratture
Lo sviluppo non è un approdo, non è cioè l’affermazione di una qualche posizione e della prerogativa di avvantaggiarsene come hanno saputo fare gli stati nazionali europei prima e, più in generale, le economie avanzate poi. La storia è lì non solo a ispirarci di fronte a un futuro ignoto, ma anche a testimoniare i nostri fallimenti e, più a monte, quanto abbiamo saputo convincerci di poter sacrificare in nome del cambiamento, senza risparmiare neppure la dignità umana. Le conseguenze di tali convincimenti, tuttavia, si spingono talvolta oltre le aspettative formulate a partire dalla nostra presunta capacità di dominare il presente, perché “[n]on è affatto possibile determinare tutto ciò che sarà un giorno storia. Forse il passato continua ad essere essenzialmente non ancora scoperto!” (Friedrich Nietzsche, La Gaia Scienza, tr. It. Di Ferruccio Masini).
Lo sviluppo è piuttosto un percorso lungo cui tentare di migliorare la nostra convivenza, facendo i conti pure con limiti pratici e soprattutto intellettuali. Per dirlo con Landes (ibidem,), “[a]nche ammettendo che l’ingegnosità degli scienziati e dei tecnici continuerà a sfornare nuove idee, capaci di sostituire quelle ormai superate, […] nulla garantisce che gli uomini cui spetterà utilizzare queste idee lo faranno in modo intelligente”. Di fatto il cambiamento, ogni volta che fallisce quantomeno di accomodare il conflitto potenziale che genera, non fa altro che creare un nuovo vincolo o impedimento. Ed è proprio questo uno dei due concetti chiave nella definizione di “sviluppo sostenibile”, letteralmente “limitazione imposta dallo stato dell’arte della tecnologia e degli ordinamenti sociali” (United Nations, Our Common Future: Report of the World Commission on Environment and Development).
L’altro concetto chiave nella definizione è quello di “bisogno”. In tal senso, si potrebbe rappresentare quanta parte del percorso è stata compiuta con la distanza tra un ideale stato di natura e il presente costruito su una crescente complessità dell’inter-agire in cui i singoli, nella ricerca di soddisfare i propri bisogni o, come affermava Smith (ibidem), nel perseguire il proprio interesse, sono attivamente e passivamente responsabili degli impedimenti per sé e per gli altri. In questa prospettiva, l’incertezza circa la possibilità di garantire alle future generazioni di proseguire il percorso non significa altro che mettere in discussione la possibilità di coniugare la soddisfazione dei bisogni affermati allontanandosi dallo stato di natura con quella del bisogno ancestrale di auto-conservazione da esso ereditato (sul tema si vedano, ad esempio: Malthus, ibidem; Harari, ibidem).
Una nuova svolta
Se il conflitto può raggiungere il profondo degli istinti, è chiaro che lo sviluppo non può mai essere dato per scontato. Inoltre, cercare la fonte di tale conflitto al di fuori della convivenza umana sarebbe inconcludente. L’evidenza suggerisce che il percorso intrapreso millenni fa e che ha accelerato negli ultimi tre secoli stia raggiungendo una nuova svolta. L’epoca industriale dello sviluppo si è alimentata di “un flusso continuo di investimenti e di innovazioni tecnologiche [che] alzava oltre i limiti del visibile il tetto dei freni positivi di Malthus” (Landes, ibidem), ispirandosi a una concezione della convivenza umana che, nell’interpretazione di Isaiah Berlin (Two Concepts of Liberty, in Four Essays on Liberty), ha distinto tra libertà negative (da impedimenti) e positive (di agire). Come afferma Agostino Cera (A Philosophical Journey into the Anthropocene), una fede incondizionata nella tecnologia e nelle capacità progressive di manipolare la realtà che ci circonda non basta. Sarà inevitabile rielaborare anche le regole della convivenza, promuovendo forme di esercizio delle libertà che non si accontentino del compromesso di posporre gli impedimenti lasciando irrisolto il conflitto latente nel cambiamento. È dalla consapevolezza di quanto ancora non conosciamo delle nostre capacità e dei nostri limiti che, in fondo, nasce lo sviluppo. Senza tale consapevolezza la convivenza umana rischia di risolversi in un’esperienza effimera, ma solo assumersene la responsabilità renderà possibile dis-velare le sorti che sapremo costruire.