La prima foto che Simon Mundy, reporter del Financial Times, mostra sullo schermo al pubblico del Salone del libro di Torino è quella di Gombo, un pastore della provincia di Zavkhan, in Mongolia. Se il muso del suo yak è coperto di neve, che si estende fitta a perdita d’occhio, il volto del pastore, raggiunto dalla forte luce del sole, esprime preoccupazione.
Mundy spiega che l’inverno in quella zona è diventato molto duro, con estreme fluttuazioni nelle temperature: lo sciogliersi e il ghiacciarsi ripetuto della neve ha impedito agli animali di raggiungere l’erba sottostante. Il fenomeno è collegato alle accelerazioni dello scioglimento del ghiaccio dei Poli ed è un esempio di quanto sia complicato il sistema che collega tutti gli equilibri climatici e quanto sia pericoloso il rompersi di questo equilibrio.
La storia dell’allevatore è solo una delle tante raccolte da Mundy per il suo libro “Sfida al futuro, viaggio attraverso un mondo in lotta con la crisi climatica” edito da Harper Collins, frutto di due anni di interviste in ventisei Paesi che danno voce a chi subisce gli effetti del cambiamento climatico e a chi tenta di contrastarlo.
Le immagini e le storie per superare la rimozione di una realtà che è troppo triste
“Alcune persone – afferma il reporter – considerano questa questione enorme e per loro sentirne parlare può essere sovrastante, può sembrare una storia troppo grande, troppo pesante, troppo triste, troppo politicizzata. Quindi ho deciso di affrontare il problema nel modo in cui sono capace come reporter: andando per strada, parlando con la gente, ascoltando la loro storia e narrandola”
Sono storie che riguardano quello che ormai sta accadendo in tutto il Mondo, come quella di Ali Mohamed in Etiopia, estremamente colpito dalla siccità e di Gandly Galoghasa nelle isole Salomone, minacciate dall’innalzamento del livello del mare così come il Bangladesh.
Di Gandly Galoghasa e del luogo in cui vive sappiamo di impianti sportivi, sale riunioni e abitazioni sommerse dalle acque e che l’oceano si alza di quasi un centimetro all’anno, circa il triplo del ritmo medio globale, probabilmente a causa dei cambiamenti negli schemi dei venti, secondo le informazioni contenute nelle riviste peer-reviewed Environmental Research Letters e Geophysical Research Letters e citate nel libro di Mundy; sappiamo di vite, famiglie sparpagliate per scappare dall’acqua che fa cedere le case e che secondo i dati della Banca mondiale il prodotto interno lordo del Paese è di appena 14 miliardi di dollari, poco più di duemila dollari per abitante. Secondo il censimento nazionale del 2009, a Malaita le case con l’allaccio alla rete elettrica erano il 3%.
“Tutte queste persone in queste diverse parti del mondo – afferma Mundy a Torino – hanno solo due cose in comune: sono tutte persone tra le più colpite dal cambiamento climatico e tutte loro hanno fatto pochissimo per contribuire a questo cambiamento. E qui arriviamo a due parole: giustizia climatica.”
Giustizia climatica
“Climate justice” è la scritta sul cartello che Joanna Sustento, fotografata dal reporter del Financial Times, innalza sul capo. La donna filippina ha perso quasi tutta la sua famiglia per il tifone Haiyan del 2013, che ha causato oltre 6.000 vittime.
“Joanna ha scelto di protestare davanti al quartier generale di Shell a Manila – spiega Mundy – perché l’anno prima Shell aveva pagato dividendi agli azionisti per oltre 20 miliardi di dollari, una cifra enorme, la più alta del mondo. Il suo ceo guadagna 62.000 dollari al giorno. L’unico motivo per cui questo è possibile è perché i costi che vengono generati dalla produzione dei prodotti Shell non vengono pagati dall’amministratore delegato o dagli azionisti, i costi sono pagati dalle persone come Joanna e la sua famiglia. Questo è un problema che riguarda tutto il nostro sistema economico a livello globale, un sistema che cambierà e che dovrà essere cambiato e l’unica domanda è quanto velocemente cambierà.”
Il problema è come spiegare l’incredulità di alcune fasce di popolazione rispetto ai rischi del cambiamento climatico e al nesso di causalità con le azioni dell’uomo.
“Quasi tutti sanno della connessione tra fumo e cancro ai polmoni e se si chiedesse loro il perché direbbero che la scienza lo ha dimostrato – afferma Mundy rispondendo alle domande di Ferdinando Pezzopane e Irene Elsa Piacenza, attivisti di Fridays For Future –. Per quanto riguarda il cambiamento climatico, invece, è stato fatto uno sforzo per molto tempo per creare la convinzione che non ci siano molte certezze. Invece la scienza anche su questo è assolutamente chiara e siamo davvero fortunati perché oggi sappiamo cose che ci consentono di agire.”
Come gli ‘iperoggetti’ di Morton: il pericolo è così grande che la mente lo rifiuta
Esemplare è la storia di Furdiki, una donna di 76 anni che abita a Na Guan, un villaggio in Nepal a 4180 metri sul livello del mare, minacciato dall’espandersi continuo del lago Tsho Rolpa, a causa dello scioglimento dei ghiacciai.
“Per arrivare lì abbiamo dovuto camminare cinque giorni per un sentiero molto ripido – racconta Mundy – . La donna ha vissuto lì per tutta la sua vita e durante quel periodo il lago che si trova al di sopra della sua casa è cresciuto tantissimo al punto che ormai è questione di tempo, in qualunque momento potrebbe inondare e spazzare via il villaggio. Gli scienziati si sono recati in questi luoghi e hanno avvisato gli abitanti del pericolo che stanno correndo. Ma lei mi ha detto che andrà tutto bene, così come è andata bene in passato.
Questa conversazione mi ha ricordato la ‘teoria degli iperoggetti’: l’impatto del riscaldamento globale è così grande che la mente umana non è costruita per comprenderla fino in fondo, come afferma il filosofo Timothy Morton che l’ha elaborata. E all’improvviso mi sono reso conto che è quello che facciamo tutti a livello globale, tutti noi viviamo questo mito: sappiamo che ci sono pericoli globali ma ce ne accorgeremo quando ce li troveremo davanti. Invece di agire, di trovare misure collettive per fare qualcosa, ci sembra così tanto grande che alla fine continuiamo a fare esattamente la stessa vita che facevamo prima. Ma noi abbiamo il potere di agire e questo mi dà speranza.”
Sul tema della perdita dei posti di lavora paventata da chi ha dubbi sulla transizione ecologica, Mundy, riferendosi al caso citato da Pezzopane del collettivo di fabbrica della Gkn, che, dopo i licenziamenti della multinazionale automobilistica, ha ideato un progetto di reindustrializzazione di prodotti a ridotto impatto ecologico, racconta una delle storie vissuta in Australia.
“L’Australia è uno di quei Paesi in cui l’argomento è molto controverso, perché il settore minerario è molto grande, soprattutto l’estrazione del carbone: è un Paese reso estremamente vulnerabile dal cambiamento climatico. Quello che ho trovato interessante è che lì la gente accetta quello che la scienza dice sul cambiamento climatico e quindi c’era anche molta tristezza riguardo a quello che stava succedendo alla loro comunità e alla loro economia.
Per molti anni avere una miniera nella zona in cui tu abiti significava lavoro sicuro per le generazioni a venire. La prospettiva che ho avuto dai miei colloqui, però, non è stata che non ci deve essere una transizione verde. L’atteggiamento è piuttosto: ‘se ci dovesse essere la transizione ecologica bisogna essere sicuri che il Governo faccia in modo che non si rimanga senza lavoro’. Questa è la sfida, c’è molto sospetto a livello globale sull’impatto dei cambiamenti sia sul lavoro che sul costo della vita.
Chiaramente questo è comprensibile perché se guardiamo i trend degli ultimi anni è sicuramente stato a favore dei molto ricchi e a discapito dei poveri o della classe media. Però se gestita correttamente la transizione ecologica può portare tantissimi lavori e ridurre il costo della vita. E questo è veramente il punto, la tesi che tutti noi dobbiamo cercare di trasmettere.”