L’art. 41 bis comma 2 previsto dalla legge sull’ordinamento penitenziario contempla un regime detentivo speciale di cui, in corrispondenza con l’arresto di Matteo Messina Denaro e la vicenda di Alfredo Cospito (sulla quale, peraltro, si è recentemente pronunciato l’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, chiedendo di assicurare il rispetto della dignità e dell’umanità del detenuto), si è tornati a discutere, pur esso rimanendo un tabù e o un totem. Pare dunque utile inquadrare i casi di cui si parla in questi giorni, accennando a due aspetti centrali di tale disposizione normativa, nell’ottica di una sua profonda riforma: i contenuti e gli scopi.
I contenuti del 41 bis
L’art. 41 bis comma 2 dell’ordinamento penitenziario afferma che, quando ricorrono gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, il Ministro della Giustizia ha la facoltà di sospendere in tutto o in parte le normali regole di trattamento e gli istituti penitenziari che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza, nei confronti dei detenuti per i reati elencati al relativo art. 4 bis (tra gli altri, in materia di mafia, terrorismo ed eversione), in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con l’associazione delittuosa di provenienza.
La disciplina del regime detentivo speciale non prevede un termine massimo di durata. La prima applicazione ha un limite di quattro anni, cui eventualmente seguono proroghe di due anni ciascuna, in corrispondenza delle quali deve essere rinnovato il giudizio sulla pericolosità del destinatario. Ciò significa che si può trascorrere (e ciò non è infrequente) l’intero periodo di restrizione carceraria, se non il resto della vita qualora si sia un ergastolano,al 41 bis.
Agli antipodi del dettato costituzionale sull’umanità e rieducazione della pena
La legge e le circolari ministeriali disegnano un regime detentivo speciale notevolmente riduttivo dei diritti del detenuto, tanto da costituire una tipologia di isolamento, quantomeno relativo, foriero di gravi ripercussioni sulla vita e la salute personale e familiare e agli antipodi rispetto al dettato dell’art. 27 comma 3 della Costituzione sulla umanità e la funzione rieducativa delle pene.
Tra le altre limitazioni, si evidenziano quelle che seguono. Innanzitutto, i colloqui con i familiari stretti possono tenersi solamente per non più di un’ora una volta al mese, dietro un vetro a tutta altezza e attraverso un interfono, e sono suscettibili di registrazione (quelli telefonici sono ammessi dopo sei mesi e sottostanno alle medesime condizioni). Inoltre, per quanto concerne i rapporti di socialità dentro al carcere, si possono trascorrere due ore d’aria una volta al giorno in gruppi composti da quattro persone selezionate all’Amministrazione penitenziaria secondo criteri stringenti(nelle cosiddette “aree riservate” del 41 bis, destinate alle figure apicali, da due). Oltre a tali previsioni, se ne aggiungono molteplici. Ad esempio, si può appendere solo una fotografia nella propria cella e avere in lettura massimo quattro libri contemporaneamente.
Imposizioni incoerenti. Alcune ingiustificate e solamente afflittive
Ciò rappresenta icasticamente come vi sia una notevolissima differenza intercorrente tra i detenuti al 41 bis e quelli in regimi detentivi ordinari (sul tema delle condizioni di vita negli istituti di pena Agenda 17 ha pubblicato l’intervista alla prof.ssa Carnevale). Soprattutto, l’insieme di tali imposizioni appare incoerente. Mentre alcune si comprendono, benché esasperate, come precipuamente protese a recidere i legami con l’organizzazione criminale di appartenenza (quali le limitazioni ai colloqui e ai rapporti di socialità), altre sembrano avere connotati squisitamente afflittivi (come le previsioni sulle fotografie e sui libri), risultando del tutto ingiustificate.
Per quanto riguarda i contenuti del 41 bis, sarebbe pertanto auspicabile ampliare il numero e facilitare i presupposti degli incontri con i familiari e dei rapporti coni detenuti, così da alleviare la situazione di isolamento. Inoltre, è necessario almeno eliminare quei tratti del regime detentivo speciale che non hanno alcun nesso finalistico con la prevenzione delle relazioni extra- e intra- carcerarie.
Gli scopi del 41 bis
Per capire gli scopi, espliciti e non, del 41 bis è significativo riepilogarne la storia, soffermandosi in specie nella sua introduzione e sulla riforma del 2002.
Il decreto legge che ha inserito il regime detentivo speciale è stato adottato in seguito alla strage di Capaci e i primi decreti 41 bis sono stati emessi la notte stessa di quella di via d’Amelio. Nei mesi successivi, numerosi detenuti (a centinaia)sono stati trasferiti presso le carceri sulle isole di Pianosa e dell’Asinara, che sono state teatro, secondo alcune ricostruzioni, di violenze e maltrattamenti nei loro confronti. Si noti come per non aver adeguatamente indagato in proposito l’Italia è stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (v. C.EDU, grande camera, sent. 6 aprile 2000, Labita c. Italia e C.EDU, sez. II, sent. 18 ottobre 2001, Indelicato c. Italia). Pertanto, in questa prima fase di applicazione, può dirsi che il regime detentivo speciale abbia svolto una funzione meramente repressiva e retributiva, simboleggiando la risposta dello Stato all’aggressione subita a mezzo delle due stragi.
Da risposta dello Stato alla mafia alla spinta alla collaborazione
Solamente con la riforma attuata nel 2002 il 41 bis ha cessato di avere natura temporanea ed è stato stabilmente inserito nella legge sull’ordinamento penitenziario. A dieci anni dalla sua entrata in vigore, il regime detentivo speciale si è visto finalmente attribuito uno scopo “ufficiale”, quello di prevenire contatti pericolosi interni ed esterni al carcere da parte di soggetti indagati o condannati per reati afferenti alla sfera della criminalità organizzata. L’evidenza empirica tratta dalle risultanze di più processi, infatti, lasciava intendere che specialmente personaggi di spicco di associazioni di stampo mafioso esercitassero il loro ruolo gerarchico anche se privati della libertà, utilizzando gli spazi di interazione concessi normalmente ai detenuti, e svuotando, così, la misura cautelare e la pena della capacità di prevenire la commissione di reati.
Assieme a questa funzione, però, ve ne sono di ulteriori, certamente molto meno lodevoli. Una prima è quella secondo la quale il 41 bis ha lo scopo di forzare chi vi è sottoposto, pur di vedere cessare lo stillicidio di divieti, a collaborare con la giustizia. A sostegno di questa interpretazione, si porta che il regime detentivo speciale viene revocato nei confronti di coloro i quali scelgano di divenire cosiddetti “pentiti”, altrimenti non avendo accesso a determinati benefici penitenziari. Il secondo consiste nel terrorizzare gli associati rimasti in libertà, i quali, per paura di finirvi sottoposti, vengano spronati a orientarsi nel senso del rispetto della legge. La logica sottesa è quella del cosiddetto “diritto penale del nemico”, dove si mira a neutralizzare il destinatario della sanzione penale, trattandolo alla stregua di una non-persona.
Una “tortura democratica”?
Nello specifico, vi è chi, con riferimento alla prima delle due funzioni “nascoste” appena richiamate, ha colto nell’attuale formulazione del 41 bis addirittura una forma di “tortura democratica” o “di stato”. Ciò sarebbe ravvisabile proprio nella dicotomia “carcere duro”/collaborazione sopra riportata. In proposito, è significativo illustrare il caso della richiesta di estradizione di Rosario Gambino dagli Stati Uniti verso l’Italia del 2007. In questo procedimento, il giudice californiano Sitgraves ha respinto siffatta domanda (poi accolta in sede di impugnazione) sostenendo che il regime detentivo speciale servisse a costringere fisicamente e psicologicamente i criminali a rivelare informazioni sulla mafia siciliana e che tale strumento di coercizione non fosse legato ad alcuna sanzione o punizione legalmente imposta e perciò costituisse tortura.
In relazione agli scopi del 41 bis, occorre dunque intervenire sui canoni per la valutazione della pericolosità del destinatario del regime detentivo speciale (atteso che essa ne costituisce oggi la ratio formale), ad esempio conferendo maggior rilievo al dato del passaggio del tempo. Inoltre, il 41 bis deve perdere la veste di mezzo di indagine inquisitorio, attraverso l’offerta di una reale alternativa al “pentimento” quale condizione utile per la cessazione della sua applicazione.