“Esiste un diritto al clima? Non ho una risposta certa, credo si debba anzitutto capire il perché di questa domanda. La giustizia climatica è una grande questione sociale e umanitaria, tocca molte discipline e a livello giuridico è un tema ampio. Dopo gli accordi di Parigi del 2015, è esploso quel fenomeno giudiziario nel quale lo Stato è convenuto in giudizio proprio sul tema climatico. Si trovano sentenze ovunque, molto diverse tra loro, ma la domanda da cui partire è: cosa fanno oggi gli Stati per abbattere le emissioni?”. Apre così il convegno sul diritto al clima, organizzato dall’Accademia delle scienze di Ferrara, Marco Magri, docente di Diritto ambientale presso l’Università di Ferrara.
Durante il dibattito, dal titolo “La scienza giuridica di fronte alle future generazioni: esiste un diritto al clima?”, Magri ha riassunto le principali questioni che la giurisprudenza deve affrontare oggi di fronte al cambiamento climatico e alle sue conseguenze, soprattutto nell’ottica del dovere di tutela dei diritti delle future generazioni, e ha affermato che esiste un diritto al clima, ma non risiede nelle sentenze contro gli Stati che hanno avuto grande eco mediatica in questi anni.
Dalla Dichiarazione di Stoccolma alle COP: come gli Stati stanno agendo per il clima
Cosa fa dunque lo Stato per abbattere le emissioni? “È una domanda cui fare attenzione – afferma Magri – perché non è vero che fa poco o nulla: si può certo discutere se lo Stato sia una risposta attendibile alla questione climatica, visto che nasce dall’idea di sovranità dei popoli anche in tema di sfruttamento delle risorse naturali.
Oggi però gli Stati stanno lentamente modificando il loro modo di essere sovrani, anche in una logica di sostenibilità. Sono ad esempio impegnati nel diritto internazionale pattizio, cioè trattati e convenzioni, e nelle dichiarazioni di principi, ad esempio in occasione delle conferenze dell’Organizzazione delle nazione unite (Conference of Parties, COP).”
La prima volta che si è parlato di diritti delle future generazioni fu con la Dichiarazione di Stoccolma del 1972, nella quale si sancì che “l’uomo è altamente responsabile della protezione e del miglioramento dell’ambiente davanti alle generazioni future”. Si tratta di una dichiarazione di intenti, che non ha valore legale tipico ma riveste comunque notevole importanza perché influisce sulle relazioni diplomatiche internazionali.
“Da lì si è aperta una stagione ricca – prosegue il giurista – anche se il clima rimane inizialmente una sottospecie del diritto all’ambiente e non fa parte delle questioni ambientali se non come una forma particolare di inquinamento, il cosiddetto inquinamento termico. Fino all’inizio degli anni Novanta, infatti, non era nemmeno certo che la questione climatica fosse veramente tale.
Dal 1992, invece, con la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici di Rio de Janeiro, parte un sistema di ‘globalismo ambientale’, cioè convenzioni ideate in modo che si abbia un riscontro periodico sulla conformità delle politiche degli Stati sottoscrittori. Le stesse COP, ad esempio, trovano come fondamento giuridico la Convenzione di Rio.
È però dopo gli accordi di Parigi che si verifica un’esplosione di ‘movimenti giuridici’, soprattutto a livello europeo perché ci sono stati il pacchetto energia del 2018, fortemente connesso alla questione climatica, e i regolamenti dal 2019 al 2022, che intervengono con la pretesa che l’Unione europea abbia una sorta di principio di supremazia sugli Stati sovrani.
È infatti fortemente intervenuta dopo il green deal con regolamenti che hanno preteso di arrivare addirittura a un’identificazione delle attività economiche sostenibili. Esiste quindi oggi un quadro normativo in materia di riduzione delle emissioni che ci dice esattamente quali sono i target di abbattimento.”
Il contenzioso climatico ha assunto una forma organizzata
In parallelo, dal 2015 è iniziato il contenzioso climatico, un fenomeno giudiziario particolare, nato da iniziative processuali di alcune associazioni che hanno iniziato a fare causa agli Stati in materia climatica.
Oltre al caso italiano “giudizio universale”, tra i più noti c’è la sentenza del Tribunale federale tedesco che nel 2021 ha annullato la legge tedesca “di protezione al clima” del 2019 in quanto spostava al 2030 i limiti per la riduzione dei gas serra: questo, secondo il giudice, entrava in contrasto con la norma costituzionale che tutela le future generazioni.
Altro esempio è l’Olanda, dove nel 2019 una sentenza ha condannato lo Stato ad abbattere le emissioni (del 25% rispetto al 1990 entro la fine del 2020), individuando quindi in capo ad esso un obbligo giuridico di protezione delle popolazioni.
“Un aspetto interessante da indagare – osserva Magri – è che questo tipo di contenzioso sembra spuntare un po’ ovunque senza un ordine preciso. In realtà, pur essendoci una certa casualità, ci sono organizzazioni più strutturate, come Greenpeace o ClientEarth, che operano già a un secondo livello: fare giustizia delle sentenze inevase, cioè in qualche modo inseguire l’inquinatore in tutto il Mondo.
Un caso emblematico è quello di Shell, condannata dalla corte olandese ad abbattere notevolmente le sue emissioni. La risposta di Shell è stata delocalizzare gli impianti e spostarsi nel Regno Unito e ClientEarth ha già dichiarato che farà causa anche presso le Corti britanniche per non aver ottemperato alla sentenza del giudice.
Ecco, questo indica un nuovo livello di organizzazione del contenzioso, che forse non è più del tutto casuale.”
Il ruolo della scienza nel diritto al clima
Le differenze tra le queste cause sono molte, ma in particolare Magri distingue due grandi categorie. “Da un lato – afferma – casi come la sentenza della Corte tedesca, che ha giudicato della legittimità costituzionale di una legge federale: sono ‘banali’ cause di natura impugnativa, conosciute da decenni, che rimettono nelle mani del potere politico il compito di rifare la legge, con il dovere di non ripristinare il vizio per cui è avvenuto l’annullamento.
Nel caso olandese e italiano, invece, si va alla caccia di un istituto chiamato ‘obbligazione climatica’: chi agisce in giudizio vuole che il giudice metta nero su bianco il dovere dello Stato di fare certe cose. C’è quindi l’accertamento di un presunto diritto al clima basato soprattutto sulla scienza, che assume valore normativo al pari delle altre regole giuridiche.”
Il diritto al clima esiste, a partire dalla protezione dei migranti climatici
Qual è dunque la direzione verso cui sta andando il diritto al clima? “In futuro – conclude Magri – credo che vedremo sempre più giudizi sulla legittimità degli atti del potere politico piuttosto che le grandi cause con condanne perlopiù simboliche.
Per me il diritto al clima esiste, il problema è che non è questo. Dobbiamo infatti distinguere il diritto dei pubblici poteri in materia climatica, cioè come si abbattono le emissioni e come si modulano i doveri pubblici verso le leggi climatiche, dal problema del diritto al clima.
Nel caso ad esempio di una richiesta di protezione per motivi climatici, la nostra Cassazione si è trovata a decidere se le norme sulla protezione internazionale tutelino anche il migrante climatico. È proprio questo il diritto al clima: la Cassazione, quando c’è un diritto innato come il diritto alla vita, interpreta le norme in maniera elastica per andare incontro alla pretesa di persone vittima non di guerre o catastrofi, ma del cambiamento climatico.
Ed è diritto al clima anche l’interpretazione delle leggi vigenti in senso coerente alla questione climatica. Ad esempio, ClientEarth ha ottenuto una condanna della Banca europea degli investimenti perché finanziava Stati che non rispettavano il diritto al clima: questa è una forma di contenzioso che credo possa portare a risultati tangibili.”