Secondo il recente rapporto delle Nazioni Unite nel 2040 i livelli di ozono torneranno a quelli del 1980. Il successo delle misure contro il “buco” dell’ozono è dovuto alla scoperta scientifica di una causa specifica, a molecole responsabili del danno tecnologicamente sostituibili e a un’azione politica globale. Proprio questo concorso di fattori , però, rende difficile applicare questo modello al cambiamento climatico causato dall’immissione in atmosfera di CO2.
“Quello che chiamiamo ‘buco’ – specifica ad Agenda17 Stefano Caramori, docente presso il Dipartimento di Scienze chimiche, farmaceutiche ed agrarie dell’Università di Ferrara – è in realtà un assottigliamento dello strato di ozono, una diminuzione della sua concentrazione. L’ozono è un protettore fondamentale per la sopravvivenza di noi organismi perché assorbe parte della luce ultravioletta proveniente dal sole, filtrandola. L’assottigliamento della fascia di ozono preoccupa da tempo gli scienziati perché le radiazioni ultraviolette sono ionizzanti e, se arrivassero inalterate a noi, avrebbero energia sufficiente a rompere i legami chimici e a causare danni alla struttura molecolare dei nostri corpi.”
La comunità internazionale ha agito compatta dopo la scoperta dei CFC
Nel 1974 i chimici Mario Molina e Frank Sherwood Rowland pubblicarono su Nature un articolo che puntava il dito contro alcune sostanze di sintesi, chiamate Clorofluorocarburi (CFC), capaci di accumularsi nella stratosfera e lì rilasciare atomi di cloro in quantità sufficiente da attaccare il prezioso strato di ozono.
Questa evidenza scientifica, con le successive verifiche, venne accolta nel giro di un decennio dai decisori politici e portò nel 1987 alla firma del Protocollo di Montreal, una legge delle Nazioni Unite che sanciva la messa al bando, per la prima volta nella storia, di un’intera classe di composti chimici di sintesi, i CFC appunto. L’eccezionalità del protocollo è dovuta anche al fatto che, ad oggi, è stato ratificato dalla totalità degli stati membri dell’Onu.
“I CFC erano molecole interessanti dal punto di vista tecnologico – sottolinea Caramori – perché sono composti chimici inerti, non sono infiammabili e hanno una notevole capacità termica, per cui venivano usati come propellenti e refrigeranti. Il fatto di essere molecole stabili significa però anche che tendono a sopravvivere per tempi molto lunghi nell’atmosfera, in particolare si accumulano nei mesi invernali, per effetto delle correnti, nelle fasce polari.”
I Clorofluorocarburi, avendo applicazioni industriali specifiche, sono stati sostituiti da altri composti chimici con un’efficacia produttiva simile, ma con minor impatto. Questo ha reso efficace l’azione globale che, in tempi non troppo lunghi, ha portato all’azzeramento della produzione di queste sostanze. In questo modo la natura ha avuto il tempo di ristabilire l’equilibrio e di ricostituire lo strato di ozono.
…Ma l’impatto dei combustibili fossili sul clima è tutta un’altra storia
CFC e anidride carbonica sono nemici diversi con caratteristiche chimiche diverse.
Se l’impatto dei clorofluorocarburi nello strato di ozono è concentrato e quindi può essere visto e misurato, come specifica Caramori “i gas climalteranti sono invece molto più ubiquitari, sono molecole che entrano in altri cicli. L’anidride carbonica non è una molecola inerte: viene assorbita dalle piante, si scioglie negli oceani, penetra nei suoli.”
Non solo, i clorofluorocarburi sono nocivi in maniera univoca, mentre sappiamo che l’effetto serra non è cattivo di per sé. Questo complica la comunicazione del problema e quindi il suo recepimento da parte dell’opinione pubblica, ma ostacola anche la ricerca di soluzioni lineari.
“È grazie all’effetto serra – commenta Caramori – che il nostro Pianeta è abitabile, altrimenti sarebbe a meno venti, meno trenta gradi, l’acqua non sarebbe liquida, non ci sarebbero gli oceani e quindi la vita. Il problema è l’aggiunta dell’anidride carbonica in atmosfera per mano umana che modifica l’effetto serra naturale e questa è una conoscenza scientifica che abbiamo acquisito già alla fine dell’Ottocento.”
Fu, infatti, il fisico svedese Svante Arrhenius che per primo propose l’ipotesi che l’industrializzazione avrebbe immesso nell’atmosfera un surplus di CO2 da far innalzare le temperature. Dopo più di un secolo e la convergenza dell’intera comunità scientifica siamo ancora lontani dalla risoluzione del problema.
L’evidenza scientifica da sola non basta
Il “buco” nell’ozono e i cambiamenti climatici hanno in comune l’origine antropica, certificata da tempo dalla comunità scientifica, ma la similitudine tra i due fenomeni e quindi tra le possibili strategie risolutive si ferma qui.
“I combustibili fossili – sottolinea Caramori – sono il 70% della forma di energia che utilizziamo nel nostro Pianeta e sappiamo che non possono essere facilmente sostituiti da altre fonti, perché le fonti rinnovabili sono fonti discontinue e non sono sfruttabili in tutto il Mondo allo stesso modo. Ma soprattutto la nostra infrastruttura energetica non si è evoluta a tal punto da recepire queste nuove fonti energetiche. Attualmente non c’è un Paese che non sia dipendente dalle fonti fossili.”
È molto più complesso cambiare il sistema di approvvigionamento energetico di tutto il Pianeta che mettere al bando alcuni composti, circoscritti a specifiche filiere produttive.
“L’attuale reattività di riscaldamento – conclude Caramori – non ha precedenti nella storia geologica ed è questa velocità di riscaldamento, nell’arco di pochi decenni, a preoccupare fortemente, ma nel caso della Co2 e degli altri gas climalteranti non è sufficiente un’implementazione di soluzioni tecnologiche o l’eliminazione di alcune molecole dalle filiere produttive. Occorre un cambiamento sociale radicale, un ripensamento del nostro modello economico che punta ancora alla crescita infinita, avendo a disposizione risorse naturali finite.”
Gli scienziati stanno lavorando su questo importante problema, vedi il sole l’eolico ed altro come le batterie al sale … purtroppo gli stati (politici) non sono tutti concordi e non stanziano denaro sufficiente per la ricerca.