Sette target su ventitré dell’Accordo Kunming-Montreal per la tutela della biodiversità globale chiamano in causa i popoli indigeni. Il 30% degli obiettivi di conservazione riconosce infatti a chiare lettere i diritti delle popolazioni che vivono da sempre nei territori da tutelare. E non è poco, dato che negli accordi precedenti di diritti degli indigeni non c’era pressoché traccia.
Ammonta al 30%, caso vuole, anche la porzione del Pianeta che i Paesi firmatari dell’Accordo si sono impegnati a trasformare in area protetta entro il 2030, con il target 30×30. Un target molto dibattuto, dato che in passato i diritti dei popoli indigeni sono stati brutalmente calpestati in nome della “conservazione fortezza”. Se la tutela integrale di un’area naturale è encomiabile nelle intenzioni, infatti, questo approccio ha spesso portato ad azioni deprecabili, come l’estromissione forzata delle comunità locali dalle loro terre.
Riconoscere in modo esplicito i diritti dei popoli indigeni rappresenta quindi un traguardo storico per l’Accordo siglato lo scorso 19 dicembre, dopo due settimane di intense negoziazioni, alla Conferenza delle Nazioni unite sulla biodiversità (COP15).
Il nuovo Accordo riconosce i popoli indigeni ma non ne tutela appieno i diritti
“Il Forum internazionale indigeno sulla biodiversità (International Indigenous Forum on Biodiversity, IIFB) celebra il riconoscimento, nell’Accordo Kunming-Montreal, del contributo e del ruolo, dei diritti e delle responsabilità dei popoli e delle comunità indigene nei confronti della Madre Terra”, ha affermato Lakpa Nuri Sherpa, appartenente al popolo indigeno Sherpa del Nepal e co-presidente dell’IIFB, al termine delle negoziazioni.
Ma se molti rappresentanti delle comunità indigene si sono detti soddisfatti del risultato ottenuto, ci sono state anche critiche e perplessità. Secondo il movimento mondiale per i diritti degli indigeni Survival International, ad esempio, l’Accordo non riconosce due punti fondamentali, ossia “che i popoli indigeni sono i migliori conservazionisti e che il modo migliore per proteggere la biodiversità è quello di proteggere i loro diritti territoriali.”
Su note simili si sono espresse anche altre due organizzazioni per la difesa dei diritti umani: Amnesty International e Minority Rights Group International. Per entrambe, la COP15 è stata un’occasione mancata per proteggere appieno i diritti degli indigeni.
In particolare, l’Accordo non ha previsto una categoria di tutela a sé stante per i territori indigeni, distinta dallo status di area protetta. Questo, secondo le due organizzazioni, rende le comunità indigene più vulnerabili di fronte al “land grabbing” nel nome della conservazione.
E non ne riconosce il contributo fondamentale alla tutela della biodiversità: gli indigeni sono infatti appena il 5% della popolazione mondiale, ma i territori di cui si prendono cura da sempre ospitano l’80% della biodiversità globale.
Sovranità territoriale e identità culturale sono cruciali per i diritti degli indigeni
Queste osservazioni puntano il dito su alcune criticità e mettono in guardia dai facili entusiasmi. Ma l’Accordo Kunming-Montreal resta una pietra miliare per il riconoscimento del ruolo e dei diritti degli indigeni, almeno sulla carta. In che modo, però, le “buone intenzioni” espresse nel documento possono diventare realtà nei territori indigeni?
Un primo passo è il riconoscimento della sovranità dei popoli indigeni sulle aree in cui quelle civiltà vivono da sempre. Ogni comunità indigena dovrebbe infatti avere libertà di normare e gestire il territorio in cui vive.
“Quando parliamo di ruolo e diritti degli indigeni – afferma ad Agenda17 Anita Gramigna, titolare della cattedra di Epistemologia della formazione e professore ordinario di Pedagogia generale e sociale presso il Dipartimento di studi umanistici dell’Università di Ferrara – la situazione varia molto a seconda della giurisdizione di riferimento. Esistono già buoni esempi di comunità che gestiscono con una propria giurisprudenza i territori ancestrali, i villaggi, i campi, il deserto e la selva.
Ho potuto visitare diverse comunità in Messico, in Brasile, in Ecuador, in Perù, dove i confini giurisdizionali indigeni, insieme alla “geografia poetica del territorio” di matrice culturale, sono rispettati e dove le comunità esprimono la loro autodeterminazione culturale e anche economica.”
Ecco allora che emergono alcuni punti cruciali: preservare e tramandare l’identità culturale indigena, dare spazio al sapere tradizionale nel dialogo con i politici, le organizzazioni e tutti i portatori di interesse, prendere atto delle competenze che i popoli indigeni possiedono da sempre nell’interazione con la natura.
“La cosiddetta civiltà bianca – evidenzia l’esperta di educazione e diritti dei popoli indigeni e co-direttrice del Laboratorio di epistemologia della formazione Euresis – dovrebbe porsi in ascolto e imparare dai popoli indigeni, per poi contribuire a riconoscerne e divulgarne l’alto valore culturale e scientifico nel rapporto con l’ambiente. Dalle comunità indigene, noi potremmo imparare ad arginare la crisi ecologica secondo nuovi paradigmi di pensiero.”
Diritto di autorappresentanza per coinvolgere gli indigeni nei processi decisionali
Se scorriamo ancora una volta l’Accordo Kunming-Montreal, vediamo che tutti questi concetti fanno finalmente capolino in un testo ufficiale di valenza planetaria. Un buon inizio, dicevamo. Ma con molta strada da fare per quanto riguarda il coinvolgimento dei popoli indigeni nei processi decisionali. Basta dare un’occhiata allo scenario in cui si sono svolte le negoziazioni.
“Dei popoli indigeni e dei loro diritti si parla molto nel nuovo Accordo – afferma ad Agenda17 Frank Deer, docente di Indigenous Education presso l’Università del Manitoba in Canada – e di ciò non possiamo che essere soddisfatti. Ma le Nazioni indigene, in carne e ossa per così dire, sono davvero presenti? Chiediamoci quanto siano state interpellate per la stesura del documento, quanto del loro sapere tradizionale sia stato incorporato nel testo.”
Il professor Deer, oltre a essere un profondo conoscitore e difensore dei diritti e del sapere indigeno, è un Nativo Kanienkeha’ka (Mohawk) del Canada. Le sue riflessioni sul coinvolgimento delle comunità native diventano così ancora più pregnanti e accorate.
“Lo Stato del Canada ha partecipato alle discussioni – prosegue Deer – e ha parlato, come sempre, anche per conto delle Nazioni indigene. Bisogna che i delegati dei popoli indigeni siano inclusi nel processo decisionale, riconoscendo il loro diritto di autorappresentanza. E, in ultima analisi, bisogna riconoscere ai popoli indigeni lo status formale di Nazione.”
Quest’ultima riflessione rimanda a una critica, già citata, che Amnesty International e Minority Rights Group International hanno fatto all’Accordo. Ovvero, il mancato riconoscimento dei territori indigeni come categoria di protezione a sé stante.
Deer riporta la sua esperienza personale a riguardo. I territori ancestrali del suo popolo, i Kanienkeha’ka (Mohawk), si estendevano dall’attuale Stato di New York, alla gran parte del Quebec meridionale e fino alla porzione orientale dell’Ontario. Con l’avvento dei colonizzatori, questa enorme distesa si è ridotta a un lembo di terra, oggi gestito con il sistema delle Riserve.
Secondo Deer, per istituire questa nuova categoria di protezione, il “territorio indigeno” appunto, bisogna prima di tutto che i Paesi in cui tali territori si trovano ne riconoscano formalmente l’esistenza. Cosa che non avviene, ad esempio, nel caso delle Riserve indiane.
L’Accordo Kunming-Montreal, insomma, è una buona dichiarazione di intenti, ma anche un’occasione mancata per dare vita e sostanza a quanto affermato sulla carta. Quale sarebbe, dunque, la soluzione auspicabile?
Svestire i panni colonialisti e lasciare che i popoli indigeni prendano pieno possesso dei territori ancestrali e, con i loro rappresentanti, entrino nei processi decisionali. Facilitandone semplicemente il percorso verso la piena espressione del loro sapere tradizionale e culturale, della loro posizione e dei loro diritti.