Abbiamo già pubblicato su Agenda17 riflessioni su parole come sostenibilità” e “resilienza” che sono “evocative ma di significato ambiguo” fino a diventare “slabbrate e consunte” e che, allontanate dai significati a cui riferivano nei contesti originali, hanno finito per perdere la carica di analisi critica o addirittura per camuffare interventi incongruenti e antitetici a quella carica. È stato così per “green”, che è diventato il pass par tout per ingenti operazioni di “greenwashing” in cui sono in gioco enormi interessi.
E ingenti sono anche gli interessi in gioco quando si interviene sulle città. Interessi economici, da un lato, ma anche interessi e diritti dei cittadini che quelle città vivono.
A cosa ci sta portando la parola “rigenerazione” nelle città?
Il geografo francese Marcel Roncayolo sosteneva che vi sono delle categorie, come ad esempio quello di “spazio pubblico”, che sono per loro natura dei concetti valise nel senso che trascinano con sé una quantità di significati e declinazioni non sempre coerenti tra loro, anzi spesso in conflitto.
Diviene pertanto necessario precisarne l’uso in relazione a contesto, tempo, economia, cultura e visione. La valise della “rigenerazione urbana” in questi anni si è sempre più allargata, al punto che oggi ogni discorso pubblico sulla città è “rigenerativo”: cerchiamo di vedere come. I temi posti dalla rigenerazione urbana da un lato nascono dalla considerazione, forse ovvia, che le città fin dalla loro formazione non hanno mai smesso di crescere; dall’altro dovrebbero fondarsi anche sulla consapevolezza che oggi il problema non è costruire nuove città (o espandere quelle esistenti) ma abitare diversamente quelle che già abbiamo.
Tra le innumerevoli chiavi di lettura associabili a tali categorie in questo testo ne sono state utilizzate tre, temporalmente conseguenti e comunque intrecciate. La prima riguarda la consapevolezza che la città può essere riprogettata su sé stessa per mantenere vivo il proprio corpo sociale e controllare la sua espansione; la seconda riguarda gli aspetti della competizione e della gentrificazione, tipici di un approccio neoliberista alla rigenerazione urbana; la riflessione finale ruota attorno ad una domanda e riguarda il ruolo dei processi di “decarbonizzazione” nella prefigurazione di un’idea di città che non sia eco-retoricamente selettiva ma che, al contrario, si fondi su pratiche di inclusività.
Ricostruire la città su stessa
Se un tempo l’urbanizzazione si identificava con le città, i paesi o i borghi oggi nel modo ha assunto delle configurazioni che fatichiamo a ricondurre al concetto di città che abbiamo metabolizzato nel corso del tempo.
Del resto, se pensiamo alle trasformazioni che hanno riguardato le nostre pianure e coste diventa difficile identificare il concetto di urbanizzazione con quello di città. I due termini pertanto non sono sinonimici. In realtà, fino alla rivoluzione industriale l’incidenza sul pianeta del fenomeno urbano appare relativa, ma con l’industrializzazione si avvia quel travolgente processo di crescita urbana che porta in pochi decenni alla formazione di metropoli e megalopoli, di città progettate e di aree urbane informali.
In Europa l’esodo dalle campagne verso le città è intenso, lungo tutto l’Ottocento e continua anche dopo la Seconda guerra mondiale. Se l’Ottocento vede l’entrata in scena della ferrovia con le sue locomotive (le caldaie erranti come le chiamava Chateaubriand) che, consumando carbone, riducono i tempi di spostamento tra città e territorio, nel Novecento, e in particolare dagli anni del boom economico, assistiamo all’entrata in scena dell’automobile e della motorizzazione privata alimentata dai derivati del petrolio.
Si consolida così quel processo di crescita, iniziato nell’Ottocento, identificabile con i gas serra direttamente immessi in atmosfera. Nei dibattiti (e nei sogni) dei decenni del boom economico la privatizzazione della mobilità, associata all’automobile, non è certo vista negativamente da politici e cittadini, anzi per molti rappresenta il riscatto dalla povertà, l’elevazione sociale e dunque i nostri territori si riempiono di strade e autostrade mentre il trasporto pubblico locale e ferroviario viene progressivamente ridimensionato, non essendo più conveniente economicamente.
In Italia e in Europa, l’avvio della “civilizzazione dell’automobile” ha un effetto nefasto sulla diffusione dell’urbanizzazione che negli anni Ottanta; invade sempre più i territori rurali posti tra le città, rendendo sempre più strutturale il tema del come contrastare (con quali politiche) il “consumo di suolo”, ovvero la trasformazione dei suoli rurali o naturali in suoli urbanizzati.
In quegli anni inizia a manifestarsi quella che potremmo definire la stagione della riqualificazione urbana, poi divenuta rigenerazione, che coinvolgerà numerose città occidentali, a seguito dei processi di deindustrializzazione e di dismissione urbana di molte infrastrutture portuali e ferroviarie.
Nel dibattito urbanistico italiano, negli anni della grande espansione urbana generata dal boom economico e caratterizzata da intensi processi di immigrazione dal sud e dalle campagne verso le città industriali, il tema del che fare dei centri storici degradati e in via di spopolamento, genera un interessante dibattito su di un tema antesignano di quello oggetto di questo testo. Si tratta del tema del “riuso”, ovvero del come riutilizzare quelle parti modeste della città storica, dove le moderne condizioni abitative mal si adattano agli spazi degli edifici storici minori.
Tra i primi decenni del Novecento e la fine della Seconda guerra mondiale, l’Europa è attraversata da consistenti ondate di espansione urbana. Se da un lato la crescita urbana alimenta fenomeni di speculazione e rendita fondiaria, in altre esperienze si dà vita a importanti politiche ed episodi di edilizia e urbanistica pubblica e sociale.
La lista di queste esperienze è lunga e la riscontriamo in tutta Europa, per l’Italia basti citare il Piano Ina-casa. Ma sempre di espansione si trattava, quindi di trasformazioni di parti di campagna in suolo urbano, del resto in quei decenni il problema della casa esplode in molte città in crescita. Il tema del “riuso”, posto da Pier Luigi Cervellati nella sua esperienza bolognese, al contrario assume in quegli anni per i centri storici un carattere di innovazione culturale, evidente nelle seguenti scelte: considerare l’edilizia minore storica un patrimonio di qualità; mantenere una mescolanza sociale e lavorativa necessaria per contrastare i processi di terziarizzazione dei centri storici, sperimentare nel recupero dell’edilizia minore storica le procedure per i piani di edilizia economica e popolare -PEEP- che erano normalmente intesi come aree di espansione urbana.
Alla base del percorso che ha condotto dal riuso alla rigenerazione odierna vi è dunque l’idea che una città possa essere ricostruita su sé stessa, rimettendo in gioco le aree produttive dismesse, i vuoti marginali, i terreni delle infrastrutture non più utilizzati, il proprio patrimonio edilizio.
Un’idea che nel corso di questi decenni è stata rideclinata in vari modi, a partire da esigenze, aspettative e politiche non sempre coerenti, anzi sovente in conflitto tra loro, come dimostrano le connotazioni sociali ed economico-finanziarie di queste politiche. Se nei cinque comparti del centro storico bolognese scelti nel 1973 per realizzare gli interventi PEEP, l’obiettivo era quello di evitare l’espulsione dalla città della popolazione di basso reddito mantenendo socialmente e commercialmente vitale il centro storico, trentacinque anni dopo nell’esperienza di recupero del quartiere milanese di “Isola-Garibaldi” emerge un’idea di rigenerazione “da consumo” dove le retoriche del “verde” e dell’ high-tech danno forma ad un’idea di gentrificazione urbana socialmente selettiva ed espulsiva.
L’avvio della rigenerazione urbana lo possiamo quindi associare alla dismissione di attività industriali un tempo inserite dentro le città e ai cambiamenti infrastrutturali nelle città portuali e delle grandi aree ferroviarie.
Tali processi hanno determinato l’abbandono dei porti storici, in molte città recuperati come spazi integrati alla città mentre la riorganizzazione e modernizzazione delle reti ferroviarie hanno consentito di recuperare a fini urbani e abitativi numerose aree interne alla città o di trasformare vecchie linee urbane abbandonate in giardini lineari come a Parigi e New York. Città come Londra, Parigi, Lione, Boston, New York, Genova, Milano costituiscono esempi interessanti e discutibili di rigenerazione urbana che evidenziano approcci diversi sia per gli aspetti inerenti al progetto morfologico e architettonico che per le politiche urbanistiche, economiche e immobiliari che li hanno contraddistinti.
Si potrebbe dire che una delle ragioni che rendono auspicabile il ricorso alla rigenerazione di settori urbani dismessi o sottoutilizzati riguarda l’opportunità di recupere aree già urbanizzate evitando così di urbanizzare nuove aree rurali, contrastando in tal modo la continua espansione delle nostre città. In realtà, i dati relativi al consumo di suolo (elaborati in Italia ogni anno da ISPRA) ci dicono il contrario, ovvero che nonostante molte città abbiano avviato operazioni di recupero di aree già urbanizzate, l’urbanizzazione dei suoli agricoli continua inarrestabile.
Se la dismissione costituisce un fattore chiave per l’avvio dei processi di rigenerazione urbana questo non è sufficiente per spiegare la dimensione che tale dinamica ha assunto. Innanzitutto, i processi di deindustrializzazione hanno generato la necessità per molte città di reinventarsi un ruolo e una “identità” in grado di innescare nuovi processi di crescita economica, in un mondo nel quale la competitività al livello internazionale, nazionale e locale è sempre più forte.
Competitività urbana o territoriale in fondo significa capacità di una città di far risaltare più di altre il capitale che può essere investito sul suo territorio, non casualmente competitività e attrattività costituiscono due categorie che indirizzano i programmi strategici di molte città. L’ambiguità dell’approccio rigenerativo sta nella finalizzazione di tali interventi e nel rapporto che stabilisce tra l’interesse pubblico e le pressioni immobiliari private che rendono necessaria una valutazione caso per caso, in particolare oggi che al termine “rigenerazione” si associano tutti gli aggettivi propri della retorica eco-sostenibile market oriented.
La rigenerazione competitiva
Per quanto riguarda gli spazi della città, la riflessione sulla rigenerazione ha fatto emergere una rinnovata attenzione alla qualità degli spazi pubblici, alla costruzione di trame verdi nelle periferie urbane unite ad una reinvenzione dei tessuti morfologici delle nuove parti urbane.
La rigenerazione delle aree centrali delle fasce di prima periferia ha avuto comunque come contraltare la diffusa spinta alla gentrificazione di interi settori urbani, un tempo noti per la loro forte identificazione sociale, popolare, etnica come dimostrano le trasformazioni milanesi del citato quartiere Isola-Garibaldi a Milano (ed oggi delle aree degli scali ferroviari) o le dinamiche innescate dalla boboïsation (da Bobo: Bohême-Bourgeoise, i nuovi residenti ad alto reddito che a Parigi hanno sostituito la popolazione a basso reddito nei quartieri “risanati”) di certi quartieri parigini o ancora i processi che hanno portato alle trasformazioni londinesi dei dock o di quartieri un tempo etnici come Brooklyn a New York City.
La crisi dell’abitare è politica, alimenta le problematiche poste dalle disuguaglianze e mette in discussione le relazioni sociali, rafforzando sovente le tendenze all’autoidentificazione: di luogo, di tradizione, di condizione economica o di segregazione, ecc., che differenziano una persona o un gruppo dall’altro creando miti di superiorità o consapevolezze di marginalità.
Sharon Zukin in suo libro dedicato alla gentrificazione newyorkese si chiede chi siano i beneficiari della rigenerazione della città, fornendo dei percorsi interpretativi attraverso Brooklyn, Harlem o l’East Village. Tali processi di rigenerazione urbana li possiamo associare ad alcune situazioni in grado di scatenare interessi immobiliari e di trovare risorse dove spesso l’intervento pubblico svolge un ruolo di assistenza ad operazioni di privatizzazione delle città.
Una città che intende posizionarsi in un mercato competitivo diviene attore di un processo di sviluppo. Nel 1976 Harvey Moloch approfondisce nell’ articolo The City as a Growth Machine i meccanismi che portano a identificare la città come attore sul mercato globale capace di accrescere la propria attrattività.
Gli attori e gli strumenti necessari per riposizionarsi da un lato sono pubblici, dall’altro riguardano gli operatori immobiliari, le imprese o le Company. L’esperienza londinese di recupero dei dock dell’East London, avviata agli inizi degli Ottanta del secolo scorso, ha messo in evidenza la rilevanza assunta dall’approccio neoliberale alla riqualificazione urbana incentrato su flagship project, come fu la costruzione di Canary Wharf nell’Isle of Dogs londinese.
Il percorso è chiaro e verrà riproposto in molte altre esperienze: si individua un grosso intervento (progetto-faro) in grado di innescare un processo più ampio di riqualificazione e di gentrificazione di un’area un tempo povera e derelitta. L’operazione londinese si iscrive a pieno titolo nel pensiero neoliberista secondo il quale la libertà dell’individuo è più importante della Stato e dunque, per concretizzare tale paradigma, è necessario costruire un ordine sociale pienamente espressivo della libertà individuale operando delle restrizioni nei confronti del potere allo Stato (salvo poi richiedere il suo aiuto in caso di difficoltà) e dando ampi diritti di proprietà privata, libertà d’iniziativa, libero mercato e libero scambio. Occorre anche supportare tali interventi con un apparato retorico-propagandistico che lo renda, agli occhi del grande pubblico, una opportunità che non si può perdere.
Se la rigenerazione urbana la possiamo considerare una pratica giusta, l’impressione è che stia emergendo un approccio tecnologico-prestazionale circoscritto, quindi al di fuori di strategie e visioni condivise, condizionato spesso da interessi immobiliari privati, come dimostrano numerose esperienze contestate, anche in piccole città, come il progetto Féris a Ferrara o come possiamo riscontrare nelle disillusioni che stanno emergendo a proposito del programma PINQUA (Programma innovativo nazionale per la qualità dell’abitare) al quale sono agganciati anche fondi del PNRR.
Se la valorizzazione immobiliare (associata alla speculazione finanziaria) diviene il motore della rigenerazione non si daranno mai risposte ai quartieri in difficoltà, come quelli di edilizia residenziale pubblica, i cui abitanti hanno anche problemi di povertà, lavoro, disuguaglianze, mancanza di servizi. In questa prospettiva un progetto di rigenerazione urbana non è solo un’operazione architettonico-urbanistica ma è anche un progetto sociale.
Non è difficile dimostrare come spesso i grandi progetti di rigenerazione urbana presentati come “ambientali”, “forestali”, “resilienti” spesso diventano strumenti per accelerare le speculazioni immobiliari, questo lo riscontriamo a Boston, a New York, a Milano e in molte altre città.
Molti progetti di questi anni più che generare benefici sociali e sanitari per i residenti storici ne favoriscono la sostituzione attraverso investimenti immobiliari di lusso, in grado di pagare gli interventi green. Recentemente hanno colpito le parole dell’Arcivescovo di Milano Mario Delpini quando a Sant’Ambrogio ha parlato di Milano come di una città che seduce i turisti e gli uomini d’affari ma demolisce gli alloggi popolari. Del resto, come sostiene Saskia Sassen il capitalismo globale (che ha certamente colto i vantaggi della rigenerazione urbana) non alimenta solo la crescita delle disuguaglianze ma favorisce anche le pratiche di “espulsione”.
Si può oggi rigenerare senza decarbonizzare?
Dai dati e dalle misurazioni di numerose autorità ed enti di ricerca internazionali appare evidente come la “transizione ecologica” sia più enunciata che praticata. Il recente COP 27 svoltosi a Charm El-Cheikh ha confermato che più che misure reali, piani sostenibili in via di attuazione, politiche condivise il dibattito è stato ancora contraddistinto da desideri, proposte e appelli.
Lo scarto tra obiettivi e pratiche concrete è forte, anche in realtà urbane e metropolitane molto più attive delle nostre città. Ad esempio, il Plan Climat francese del 2004 prevedeva la riduzione al 2050 del 50% dei gas ad effetto -GES- serra con un obiettivo intermedio del 25% nel 2020. In realtà i dati dimostrano che il percorso verso il 2050 è ancora lungo e le tappe programmate non sono state ancora raggiunte. Le città sono oggi responsabili dell’80% di emissione di GES.
La “città decarbonizzata” è dunque un obiettivo lungimirante, doveroso, che non richiede slogan ma politiche e pratiche intrecciate, multi-scalari e multi-attoriali. Si tratta di fare scelte precise sia sulle fonti energetiche (prevalentemente elettricità da fonti rinnovabili e idrogeno verde), di conseguenza diviene necessario ripensare i modelli della mobilità urbana e territoriale (privilegiando il più possibile il trasporto pubblico e su rotaia), va dunque rinnovato il patrimonio edilizio sia residenziale che terziario ripensando l’organizzazione delle nostre città, anche attraverso interventi di “decostruzione”. Non si può eludere infine il tema energetico abitativo e quindi una politica seria orientata verso la costituzione di comunità energetiche.
Potremmo pertanto affermare che per realizzarsi la “città decarbonizzata” richiede un totale cambio di politiche e pratiche (di paradigma potremmo dire) in termini urbanistici, sociali, tecnologici, economici. Si tratta di capire se siamo pronti a questo cambio di abitudini nei nostri comportamenti e nell’ uso delle nostre città.
E soprattutto è necessario capire in che misura questo cambio inciderà sulle spalle dei cittadini di differente condizione economica. Tale processo non può prescindere dal ruolo centrale dello Stato che, coordinato con regioni e città, deve essere in grado di fornire risposte alle urgenze climatiche garantendo la giustizia sociale, anche perché solo uno Stato può interagire con i processi planetari di governo (esempio, il ruolo delle COP) necessari per affrontare i processi innescati dai cambiamenti climatici, facendo tesoro delle indicazioni e segnalazioni regolarmente diffuse da un organismo internazionale come l’ Intergovernmental Panel on Climate Change -IPCC-.
Molte città dichiarano approcci orientati alla rigenerazione urbana, alla naturalizzazione della città, al miglioramento della mobilità, alla circolarità nei processi di produzione di rifiuti, al risparmio dell’acqua, ma l’impressione è che manchi una vera strategia nazionale e un approccio globale in grado di dirci come funzionerà in futuro una città “decarbonizzata”.
Tra le retoriche e le enfatizzazioni che emergono nei dibattiti sul come affrontare le sfide poste dai cambiamenti climatici va certamente annoverato il tema della “tecnologia”. È plausibile pensare che grazie all’apporto della tecnologia risolveremo i nostri problemi o forse dobbiamo interrogarci sul nostro modello di sviluppo e sulla necessità di ripensare anche a forme di sobrietà nei nostri comportamenti e abitudini?
Spesso nella comunicazione giornalistica e politica, ed anche in certi settori della ricerca, interessati più alle soluzioni (i “fatti” che auspicava Gradgrind, l’educatore della Cocktown dickensiana) che alle cause, viene data priorità alla ricerca di soluzioni tecnologiche in grado di affrontare i problemi ambientali che abbiamo di fronte, senza chiedersi quali sono le cause, anche politiche ed etiche, che li generano.
A volte si ha l’impressione che la comunicazione mediatica più che informare sui fatti, anche con approfondimenti e argomentazioni critiche, tenda a determinarli: creare il problema (o l’aspettativa) e poi offrire le soluzioni (sempre riconducibili a portatori di interessi in grado di condizionare la politica), come sovente sottolineato da Noam Chomsky.
Ragioniamo su quanti alberi piantare in città e di che tipo, per contrastare l’inquinamento dell’aria che misuriamo con dispostivi sempre più sofisticati ma non ci chiediamo quale è la causa dell’aumento dell’inquinamento. Non mettiamo in discussione il fatto che forse il problema è il modello di sviluppo e l’organizzazione delle nostre città, completamente dipendenti dalle automobili private e che quindi il problema deriva dall’uso dei combustibili fossili. Piantare alberi in città aiuta (contrasta le isole di calore e rende le periferie più gradevoli) ma non è risolutivo per l’inquinamento dell’aria, anzi questa retorica ci fa dimenticare che il nostro mondo vive di emissioni climalteranti.
I forestali ci insegnano che la capacità di riduzione della CO2 degli alberi piantati e di circa trent’anni; quindi, la soluzione delle emissioni inquinanti in ambito urbano è più complessa e riguarda il funzionamento della città e della mobilità. Per tale motivo la valutazione dei progetti di rigenerazione deve andare oltre l’apparenza e la retorica e deve interrogarsi sulle pratiche.
Se riportare la natura in città è certamente un obiettivo condivisibile non vi è dubbio che per come essa viene introdotta o proposta, crea nuove disuguaglianze sociali. Se interventi come City Life a Milano li possiamo pensare come una rigenerazione “per ricchi” città come Vienna hanno messo in atto strumenti di edilizia sociale e di miglioramento ambientale per fasce di popolazione più marginalizzate che sono riuscite a restare nei loro quartieri.
L’approccio tecnologico alla rigenerazione, che potremmo sbrigativamente associare all’approccio smart, sta facendo emergere una figura professionale, sia per la progettazione che per la gestione, plasmata sulla prestazione e sull’oggettività parametrica. Ma l’oggettività non dovrebbe coincidere con la “neutralità” perché il nostro lavoro ha conseguenze etiche, economiche e sociali.
L’idea della soluzione tecnica risolutrice è ormai un dato di fatto che si tende a non mettere in discussione. E di fronte ai segnali allarmanti della crisi ambientale i dispositivi comunicativi e retorici rafforzano le speranze che le tecnologie verdi e informatiche ci consentiranno di controllare le trasformazioni in corso.
Ma l’impatto di queste nuove tecnologie è stato valutato? Quali sono i costi economici, ambientali e sociali delle centinaia di “boschi” edificati su decine di piani sostenuti da solette in cemento armato che si stanno costruendo nel mondo, spesso in zone desertiche? Quanto materiale da costruzione sarà necessario per costruire queste nuove icone della rigenerazione urbana? E la loro gestione che impatti avrà in termini idrici ed energetici? Inoltre, quale è il costo in termini di risorse naturali rare, e di sfruttamento delle persone che le raccolgono, dei minerali necessari per alimentare elettricamente i nostri dispositivi e le nuove automobili? Forse, come sostiene Philippe Bihouix, sarebbe opportuno andare oltre i miraggi dell’high tech per sviluppare tecnologie a basso impatto, quindi, più sobrie e legate anche alla capacità di progettare con la natura.
Umberto Galimberti ci ricorda che la tecnica ormai ha sostituito l’etica e la politica, dandoci l’illusione che attraverso di essa potremo controllare i destini del mondo utilizzando marchingegni tecnologici che renderanno smart la nostra vita.
Vengono propagandate soluzioni che non trovano riscontro nella complessità della città e dei processi che le riguardano mentre le soluzioni dovrebbero essere improntate alla massima complessità di processo e di progetto, tenendo insieme tutti gli aspetti politici, etici, tecnici, gestionali, locali e globali, che questa comporta. Inoltre, in mondo urbano globale, che si sta sempre più polarizzando tra ricchi e poveri, gli scenari tecnologici e progettuali per i primi sono abbastanza chiari ma come rigeneriamo, con gli strumenti a nostra disposizione, le situazioni urbane in cui vivono i secondi? Come rigeneriamo l’informalità urbana che è una condizione urbana diffusa?
Linee guida per una rigenerazione sostenibile: quelle della Parigi di Napoleone III ?
In conclusione, cosa rende sostenibile e rigenerabile una città? Quale pratiche dobbiamo introdurre per sostanziare un concetto oggi più abusato che praticato?
In estrema sintesi potremmo definire sostenibile una città che: contrasta il consumo di suolo con la densificazione (ma non con i grattacieli o le torri); si organizza per potersi muovere a piedi, in bicicletta e con il trasporto pubblico; distribuisce le funzioni e i servizi in tutta la città (comprese le periferie) rafforzando la prossimità; è sufficientemente resiliente per potersi trasformarsi al proprio interno rimettendo in gioco aree già urbanizzate e sottoutilizzate; si organizza per favorire la salubrità derivante dalla presenza in città di verde e natura; favorisce l’illuminazione e l’aerazione naturale; si dota di edifici con buone performance termiche; favorisce la socialità attraverso la sua dotazione di spazi pubblici. Se molte nostre città rispondessero a tutti questi requisiti, assunti non nella loro settorialità, ma nella complessità delle loro interrelazioni, potremmo definirle “sostenibili”. Questi principi li ritroviamo realizzati nella Parigi trasformata dal Prefetto Georges Eugène Haussmann tra il 1852 e il 1870, su mandato dell’Imperatore Napoleone III.
Articolo davvero interessante che offre una razionale visione e previsione del condizionamento che le scelte politiche di gestione del territorio subiscono dalla pressione tecnico-imprenditoriale del mercato.E’ allarmante il fatto che lo Stato,o meglio, i governi che si succedono anche nel nostro paese non sappiano( nè vogliano) porsi il problema della rigenerazione urbana in termini scientificamente e antropologicamente seri. Basti vedere l’esempio osceno che vede Ferrara col progetto Feris citato nell’articolo, alla ribalta su fattori di evidente convenienza mercantile…altro che visione di migliore vivibilità di una parte della città e dei suoi abitanti! Credo che in questa aperta e ormai evidente contraddizione tra tecnica e politica si sia davvero perduta la visione etica del nostro essere e stare bene al mondo: mi chiedo anche ,con profonda tristezza,se la presa di coscienza di una necessaria responsabilità collettiva sia ancora possibile o quantomeno augurabile per fermare il degrado.