Il vaiolo delle scimmie è una malattia con cui l’uomo convive ormai da decenni, ma della cui esistenza abbiamo preso coscienza solo da poco in Occidente. Al momento questo virus è stato rilevato in 107 Paesi nel mondo e, oltre a causare febbre e fastidiose lesioni cutanee, sta iniziando ad avere anche un forte impatto sociale: il rischio di un’epidemia di stigma e discriminazione. “Sto avendo un déjà vu rispetto alle prime diagnosi di HIV“ dichiara ad Agenda17 Sandro Mattioli, presidente dell’associazione Plus, persone LGBT+ Sieropositive.
Il campanello d’allarme per il vaiolo delle scimmie- in inglese monkeypox– è suonato a maggio 2022, quando diversi Paesi in cui la malattia non era endemica hanno iniziato a registrare un numero crescente di casi. Il 23 luglio è stato dichiarato emergenza di salute pubblica di rilevanza internazionale.“Una decisione che ha preso il direttore dell’Oms in persona – ricorda Carlo Contini, professore Ordinario di Malattie Infettive e Tropicali e Direttore della Unità Operativa Complessa di Malattie Infettive dell’Università di Ferrara –. Inizialmente la commissione di valutazione era divisa sul fatto che fosse effettivamente un’emergenza globale, ma visto che l’epidemia si è diffusa rapidamente in tutto il mondo, e soprattutto si stava diffondendo attraverso modalità di trasmissione non completamente identificate, la divisione è stata superata rapidamente.”
Comunità di uomini che hanno rapporti con uomini e presenza di portatori asintomatici potrebbero spiegarne la diffusione
Le cause dell’improvvisa diffusione del monkeypox oltre il continente africano non sono ancora del tutto certe. Studi di alcuni ricercatori in passato hanno suggerito che l’aumento della trasmissione da persona a persona di questo virus potesse essere dovuta alla cessazione delle vaccinazioni contro il vaiolo negli anni ’Ottanta- vaccino che in parte era in grado di proteggere contro altri patogeni della stessa famiglia- chiamati Orthopoxvirus. Tuttavia questo non spiega il boom di casi registrati quest’anno in tutto il mondo.
Un’ipotesi avanzata dagli scienziati è che il virus abbia trovato una nicchia di persone interconnesse con contatti stretti per comportamenti sessuali che ne ha favorito la diffusione: il modello epidemiologico pubblicato a fine settembre sulla rivista Science da gruppo di ricercatori della London School of Hygiene & Tropical Medicine supporta questa idea.
Dei quasi 69.300 casi registrati fino ad oggi nel mondo, la maggior parte delle persone che hanno riscontrato il vaiolo delle scimmie sono uomini: in Italia dei 851 casi confermati, 840 (l’98,7 %) sono uomini.
I dati epidemiologici ottenuti fino ad oggi indicano inoltre che la maggioranza di essi sono uomini che hanno rapporti con altri uomini (Men who have sex with men- MSM), con un alto numero di partner. Questa rete di relazioni potrebbe aver facilitato la diffusione del virus al di fuori dell’Africa e tra questo sottogruppo, suggeriscono i ricercatori inglesi.
Identificare i gruppi di persone che al momento sono bersaglio dell’infezione è un elemento fondamentale per la gestione dell’epidemia; tuttavia, questa informazione deve essere ulteriormente verificata e, soprattutto, maneggiata e comunicata in maniera appropriata per evitare fenomeni di discriminazione.
Contini: considerare il ruolo delle infezioni asintomatiche
Contini ricorda inoltre che, come per altre malattie infettive, anche in questo caso le infezioni asintomatiche potrebbero aver giocato un ruolo nel promuovere la diffusione del virus da dietro le quinte.
Nel mese di agosto due studi europei hanno riportano diversi casi di pazienti asintomatici: all’ospedale Bichat-Claude Bernard di Parigi, durante uno screening per malattie sessualmente trasmissibili sono state identificate 13 persone positive per il virus del vaiolo su 200 persone asintomatiche testate. In Belgio, tre su quattro pazienti positivi per il virus del vaiolo identificati in uno studio retrospettivo erano asintomatici.
“Questo è un fenomeno abbastanza noto nelle malattie infettive – dice Contini – ma rappresenterebbe un ulteriore ostacolo al controllo delle infezioni”. Non è ancora noto però se e in quale misura chi non ha sintomi sia in grado di trasmettere il virus.
La comunicazione sbagliata porta a stigma e discriminazione
Ad agosto, il Ministero della salute ha dato il via al piano di distribuzione del vaccino Imvanex (commercializzato dagli Stati Uniti come Jynneos) già approvato dall’Agenzia europea per i medicinali (EMA European Medicines Agency), contenente una forma attenuata del Vaccinia virus Ankara. Questo è un virus simile a quelli del vaiolo e del vaiolo delle scimmie, ed è stato modificato in modo da stimolare la risposta immunitaria, ma senza causare la malattia ed essere in grado di replicarsi e diffondersi nell’organismo o ad altre persone.
Le dosi disponibili sono state distribuite alle quattro Regioni Italiane più colpite: la Lombardia (348 casi), il Lazio (150 casi), l’Emilia Romagna (85 casi) e il Veneto (63 casi). Visto l’attuale scenario epidemico e la mancanza di disponibilità dei vaccini su larga scala, non è stata raccomandata la vaccinazione di massa.
È stata data la priorità alcuni gruppi di persone, tra i quali il personale di laboratorio che può essere esposto a Orthopoxvirus e gli MSM che hanno relazioni sessuali con più partner e/o hanno una storia recente di malattie infettive sessualmente trasmissibili- gruppo di persone che ora sembra più colpito secondo i dati epidemiologici. Nel caso di futuri cambiamenti nell’andamento dei contagi, queste indicazioni saranno modificate di conseguenza.
Nella circolare ministeriale del 5 agosto che contiene queste indicazioni sulla strategia vaccinale, viene però utilizzato il termine “categorie a rischio” per indicare gli MSM, un’etichetta che ha sollevato parecchie red flags nella comunità LGBTQI+.
“È un termine privo di qualunque valore scientifico e invece è molto impegnativo dal punto di vista sociale” sottolinea Mattioli. “Ma è veramente stata una svista” continua Mattioli, che successivamente ha parlato di persona con alcuni funzionari, i quali hanno ammesso di non essersi accorti di aver inserito un elemento potenzialmente discriminatorio nella circolare.
Questa svista si è però rapidamente propagata in tutte le Regioni d’Italia, attraverso i ventuno comunicati stampa che hanno fatto seguito. Inoltre, in alcuni di questi comunicati è stata riportata solo parzialmente l’indicazione del ministero indicando solamente “persone gay, transgender, bisessuali e uomini che hanno rapporti sessuali con uomini” senza specificare i comportamenti a rischio (storia recente con più partner/recenti infezioni sessualmente trasmesse/partecipazione ad incontri con più partner).
Questo è un dettaglio fondamentale, perché sono proprio i fattori comportamentali ad aumentare il rischio di infezione, non il genere o l’orientamento sessuale; come conferma Contini, per le informazioni che abbiamo finora, dal punto di vista biologico il virus non ha preferenze di genere.
Preoccupazione per gli aspetti di stigma e per quelli sanitari
Nei centri per il controllo delle malattie sessualmente trasmissibili (MST) dell’Ospedale sant’Orsola di Bologna e presso l’associazione Plus di cui Mattioli è presidente, arrivano diverse chiamate: “vedo che le persone stanno chiamando molto preoccupate”. Come è successo per l’AIDS, visto il binomio che si sta creando “malattia-gay” si teme che la diagnosi della malattia spinga le persone a un coming-out forzato rispetto all’orientamento sessuale. Un ragionamento che Mattioli definisce “un po’ anni’ Ottanta” e che si sperava superato, ma che “è difficilissimo rimuovere, perché ormai è un’impostazione culturale”.
La preoccupazione è data anche dalla malattia per sé, aggiunge Mattioli. Sebbene la mortalità registrata finora rimanga contenuta, con 26 morti su 69.244 casi totali (dati Center for Disease Control and Prevention), la malattia può risultare molto fastidiosa. Oltre a febbre e malessere tipiche delle infezioni virali, possono presentarsi manifestazioni cutanee sotto forma di vescicole e pustole in diverse parti del corpo: palmi delle mani, dei piedi, ma anche cavo orale e zone genitali, rendendo doloroso svolgere normali bisogni fisiologici come nutrirsi o andare in bagno. “E poi pazienti che hanno già delle patologie croniche possono andare incontro a problemi gastrointestinali, a gravi problemi respiratori, che possono portare alla morte, o allo sviluppo di encefaliti o di setticemia” aggiunge Contini.
Più informazione e vaccini sono la “cura”
Cosa si può fare per contenere i danni e arginare i pregiudizi? L’associazione Plus utilizza come strumento la corretta informazione “Noi abbiamo cercato immediatamente di ridurre alcune voci che stavano girando – dice Mattioli- e abbiamo lavorato assieme all’Azienda sanitaria per dare informazioni”. Inizialmente c’era un po’ di confusione sulla modalità di trasmissione del virus, che ad oggi sembra si trasmetta principalmente per contatto stretto “in particolar modo attraverso il contenuto delle vescicole infette – spiega Contini -. È verosimile che ci possa essere anche un contatto attraverso asciugamani, fomiti – le goccioline di saliva- e tutto ciò che ha avuto contatto a sua volta con le lesioni cutanee di una persona infetta”. Vari studi in Europa, hanno identificato la presenza del virus anche nel liquido seminale, ma sono necessarie ulteriori indagini per definire l’infettività del virus in questo contesto.
“A Bologna, ad agosto sono arrivate dosi di vaccino per 140 persone” dice Mattioli. La campagna vaccinale nelle quattro Regioni in cui sono stati distribuiti, procede con l’importante aiuto delle associazioni, già in contatto con i gruppi di persone che hanno la priorità alla vaccinazione. “All’inizio abbiamo cercato di vaccinare, d’accordo con il dottor Badia del Sant’Orsola, le persone che ci venivano in mente, che sapevamo essere un po’ più attive” dice Mattioli, che in prima persona ha passato parte delle sue vacanze estive a telefonare alle persone già seguite dalla sua associazione che potevano aver bisogno del vaccino. “Le dosi sono finite molto rapidamente – aggiunge -. Adesso va un po’ meglio, perché con l’iniezione intradermica si possono fare fino a cinque dosi con una fiala”. (1.Continua)