La perdita di biodiversità su scala globale è una delle più gravi emergenze ambientali del nostro tempo. Per fronteggiare questa crisi non basta focalizzarsi sulle specie minacciate e a rischio di estinzione, bisogna agire anche sul territorio. E in modo piuttosto drastico: almeno il 44% delle terre emerse – ben 64,7 milioni di chilometri quadrati – va tutelato in varia misura per conservare la biodiversità terrestre. Lo afferma un recente studio condotto da un team di ricercatori europei, statunitensi e australiani e pubblicato sulla rivista Science.
Secondo gli scienziati, 1,3 milioni di chilometri quadrati del territorio da salvaguardare rischiano di essere convertiti a un uso intensivo del suolo entro il 2030. È quindi indispensabile mettere in atto da subito interventi capaci di contrastare il sovrasfruttamento e la degradazione degli habitat per frenare il rapido calo di biodiversità.
Dalla tutela integrale alla regolamentazione d’uso del suolo
“Il nostro obiettivo principale – spiega ad Agenda17 Moreno Di Marco, ricercatore dell’Università La Sapienza di Roma e coautore dello studio – era dimostrare la portata e la varietà delle azioni di conservazione necessarie a salvaguardare la biodiversità terrestre.”
La protezione delle specie e degli ecosistemi, infatti, non passa soltanto attraverso la creazione di aree protette, che oltretutto non possono essere concepite come semplici “isole di wilderness”, distribuite a macchia di leopardo sul Pianeta e circondate da vasti territori fortemente antropizzati. Per essere efficaci, le politiche di tutela ambientale devono essere di respiro molto più ampio e comprendere vari tipi di regolamentazione del territorio.
Ed è proprio questo che mostra lo studio: sottoporre a misure di conservazione metà della superficie terrestre non significa precludere, al suo interno, qualsiasi tipo di attività umana. Obiettivo che sarebbe irrealistico, dato che in questi territori vivono 1,87 miliardi di persone. Significa piuttosto mettere a punto un insieme di strategie, tra loro armonizzate, che vanno dalla tutela integrale ad altre forme di gestione integrata.
Le aree protette devono quindi essere affiancate da una più generale pianificazione sostenibile dell’uso del suolo, che tenga conto delle caratteristiche dei diversi territori, del loro grado di antropizzazione e anche di fattori sociopolitici, con un occhio di riguardo per le strategie e le pratiche adottate dalle popolazioni indigene e dalle comunità locali, a cui va riconosciuto un ruolo primario nella conservazione e gestione del territorio.
L’approccio integrato è fondamentale nel contesto nazionale ed europeo, come afferma ad Agenda17 Stefano Grignolio, zoologo dell’Università di Ferrara esperto in conservazione e gestione di grandi mammiferi: “in territori ad alta densità antropica come i nostri, non possiamo pensare di tutelare la biodiversità solo istituendo aree protette.
Dovremmo invece sviluppare strategie di conservazione su scala più ampia e regolamentare vaste porzioni del territorio, coinvolgendo anche la popolazione locale, in modo da ridurre gli impatti ambientali senza alimentare il conflitto sociale. Penso per esempio allo sviluppo di tecniche agricole e di gestione forestale che siano sostenibili sul lungo termine, capaci di ripristinare l’ecosistema e garantire la conservazione della biodiversità.”
Mappare il territorio per conservare la biodiversità
Le misure di conservazione vanno dunque sviluppate su vasta scala, ma stabilire quale e quanta parte del Pianeta debba essere protetta per frenare la perdita di biodiversità non è cosa facile.
Gli studiosi hanno preso come principale indicatore l’areale di distribuzione di 35.561 specie di mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e crostacei d’acqua dolce presenti nelle Liste rosse dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (International Union for Conservation of Nature, IUCN). Hanno poi calcolato con algoritmi di ottimizzazione geospaziale l’area minima da tutelare per la salvaguardia delle specie e degli ecosistemi considerati: il 44% delle terre emerse, appunto.
In questa porzione di superficie terrestre rientrano tutte le aree protette (20,5 milioni di chilometri quadrati), le aree ecologicamente intatte (35,1 milioni di chilometri quadrati) e le aree chiave per la biodiversità (11,6 milioni di chilometri quadrati) presenti su scala globale. Questi areali in parte si sovrappongono e arrivano a coprire, nel loro insieme, 52,3 milioni di chilometri quadrati.
Si arriva così a un dato molto chiaro: per conservare la biodiversità dobbiamo estendere le misure di tutela ad altri 12,4 milioni di chilometri quadrati di territorio reputati di interesse conservazionistico, ossia un ulteriore 8,4% della superficie terrestre.
Ottimisti o pessimisti? Gli scenari da qui al 2050
Fatti questi calcoli bisogna fare ancora un passo, ossia identificare i territori che richiedono azioni di salvaguardia più urgenti. Al momento attuale, il 70,1% (44,9 milioni di chilometri quadrati) delle nuove aree di interesse conservazionistico è intatto. Partendo da questo presupposto, gli scienziati hanno delineato tre scenari di cambiamento d’uso del suolo da qui al 2050.
Lo scenario più ottimista prevede una rapida transizione verso politiche sostenibili, quello più pessimista una regolamentazione assai carente, quello intermedio una situazione più o meno invariata rispetto all’attuale. I risultati sono in qualche modo incoraggianti: se ci muoviamo in fretta verso un uso sostenibile del territorio, possiamo ridurre di sette volte il rischio di distruzione degli habitat nelle aree di interesse.
“Il consumo di suolo, con conseguente perdita di habitat, è la principale causa di perdita di biodiversità secondo l’IUCN. Ed è per questo che dovremmo intervenire con un approccio olistico alla gestione del territorio – ribadisce Grignolio – focalizzandoci non solo sulle aree protette, ma anche sull’uso sostenibile delle altre aree, da quelle urbane a quelle agricole e industriali. Ragionando anche, ove possibile, su una loro parziale rinaturalizzazione, per esempio tramite corridoi ecologici o il ripristino degli ecosistemi.”
Il rischio di perdita di habitat varia molto da una regione all’altra del globo, e le previsioni sono particolarmente critiche nelle aree meno sviluppate. Secondo lo scenario più pessimista, infatti, nei Paesi in via di sviluppo il 12,7% del territorio da tutelare sarà convertito a un uso intensivo del suolo entro il 2050, soprattutto per soddisfare i bisogni delle economie sviluppate.
“La nostra mappa dà un’indicazione di dove si trovano le aree da conservare e di chi ne ha la competenza geografica – conclude Di Marco – ma la responsabilità politica della conservazione è internazionale e non solo nazionale. E non possiamo pretendere che i Paesi in via di sviluppo facciano enormi investimenti di conservazione nelle aree di loro competenza senza un forte supporto dei Paesi sviluppati, che da quelle aree ricavano molteplici risorse e benefici.”
Come sta accadendo per climate change e giustizia climatica, quindi, lo sviluppo di politiche di conservazione globali non può prescindere da riflessioni sui temi della giustizia ambientale e sociale.