A quarant’anni dall’approvazione della legge 194, molte voci si sollevano per richiedere l’applicazione effettiva e un adeguamento delle norme che legalizzano nel nostro Paese l’interruzione volontaria di gravidanza (ivg), oltre che il necessario rinforzo della sanità territoriale indirizzata alle donne e alle coppie.
Benché la legge sia in vigore dal 1978, infatti, la sua attuazione resta ancora, in molte parti d’Italia, largamente incompiuta per ragioni, oltre che ideologiche, anche strutturali e organizzative.
In Italia non esiste alcuna strategia nazionale in merito alla salute e ai diritti in campo sessuale e riproduttivo. Le Regioni sono responsabili per l’attuazione delle politiche sanitarie in questo ambito, che comprende l’offerta di counselling individualizzato e di servizi di qualità, prestazioni che dovrebbero essere garantite dai consultori familiari, istituiti con la legge 405/1975 anche e proprio con questo compito, al fine di supportare la “procreazione responsabile” attraverso l’informazione sulla contraccezione e la tutela della salute delle donne e dei loro figli.
A seguito della legge 194/1978 che ha depenalizzato e disciplinato l’aborto, i consultori sono stati inoltre incaricati di supportare e assistere le donne che scelgono di esercitare il proprio diritto a interrompere una gravidanza. In Regioni come l’Emilia-Romagna, i servizi erogati sul territorio sono adeguati al dettato della legge, per quanto riguarda sia la capillarità dei consultori sia la qualità dei percorsi riservati alle donne, come conferma ad Agenda17 Pantaleo Greco, direttore della Scuola di specializzazione in ostetricia e ginecologia di Unife e del reparto ostetricia e ginecologia dell’Azienda ospedaliero-universitaria di Ferrara.
“Nella nostra Regione non si registrano criticità di sorta – afferma Greco –. La tutela della salute delle donne è garantita gratuitamente sia che richiedano informazioni sui metodi contraccettivi o che decidano in piena libertà di intraprendere una interruzione di gravidanza.”
Purtroppo le differenze regionali in termini di sanità territoriale sono note, e anche Regioni come Lombardia e Lazio registrano una crisi di personale e strumenti, oltre che l’incapacità di garantire servizi quali l’applicazione della legge 194, l’accesso alla contraccezione, l’assistenza durante la gravidanza e nel post parto, secondo quanto denunciato da Cgil Lombardia sulle pagine del quotidiano la Repubblica a febbraio.
“A Roma – afferma ad Agenda17 la ginecologa Veronica Sabelli -, ci sono pochissime realtà che sopravvivono solamente sull’impegno stoico di quelle poche colleghe, in maggioranza donne, che resistono con grandi difficoltà. Ritengo ci siano dietro ragioni economiche ma anche ragioni di opportunità, con una obiezione di coscienza che si attesta a più del 95%.”
Pochi servizi e scarsa informazione, secondo l’Istituto superiore di sanità
La proporzione raccomandata dalla legge 34/1996 tra il numero di consultori e quello di cittadini in Italia è di uno ogni 20mila. A oggi, secondo l’ultima indagine effettuata dall’Istituto superiore di sanità (Iss) tra il 2018 e il 2019, i numeri effettivi ne certificano uno ogni 35mila.
Troppo pochi insomma: quasi la metà di quelli dovuti rispetto alla popolazione. Ne conseguono servizi spesso non abbastanza individualizzati, quindi inadeguati a particolari tipi di utenza come ad esempio quella rappresentata dalle donne straniere. Ma la richiesta degli utenti sarebbe alta.
La quasi totalità delle strutture incluse nell’indagine (1535 su 1800: 622 al Nord, 382 al Centro e 531 al Sud) opera nell’ambito della salute della donna: più del 75% si occupa di sessualità, contraccezione, ivg, salute preconcezionale, percorso nascita, malattie sessualmente trasmissibili, screening oncologici, menopausa e postmenopausa. Per quanto riguarda invece l’area coppia, famiglia e giovani, le strutture che svolgono attività in questo ambito sono 1.226 (Nord 504, Centro 224, Sud 498).
Un nuovo decreto ministeriale per la riorganizzazione sul territorio
“È in arrivo il Decreto ministeriale n. 71 sulla riforma della sanità territoriale – dichiara ad Agenda17 la senatrice Paola Boldrini, vicepresidente della Commissione igiene e sanità –. Il decreto detta nuovi modelli e standard per l’assistenza sanitaria sul territorio, che passerà soprattutto dalle Case di comunità, luogo fisico di prossimità e di facile individuazione, dove le donne, e l’intera comunità, potranno accedere per ricevere assistenza sanitaria e sociosanitaria.”
Lo standard previsto è di almeno un consultorio ogni 20mila abitanti con la possibilità di uno ogni 10mila nelle aree interne e rurali.
“Questi nuovi spazi intendono prima di tutto promuovere un modello di intervento integrato e multidisciplinare – continua la senatrice -, attraverso azioni d’équipe. L’obiettivo è garantire in modo coordinato diversi servizi e azioni, tra cui proprio le attività consultoriali, possibilmente privilegiando soluzioni logistiche che tutelino la riservatezza degli utenti.
In queste attività diventa fondamentale la qualità dell’accoglimento psicologico, dell’ascolto e della comunicazione. Le Case di comunità devono diventare, oltre che luogo di assistenza, spazi di promozione della salute, volti anche all’empowerment delle persone, in particolare dei giovani, per quanto concerne la sessualità.”
Nelle Case di comunità dovranno quindi essere portate avanti azioni riguardanti la salute riproduttiva e preconcezionale della donna e della coppia e la procreazione responsabile, la tutela della salute della donna, la prevenzione, il supporto, oltre che l’assistenza in situazioni di disagio, maltrattamenti e violenza. È previsto il coinvolgimento di ostetriche, ginecologici, psicologici, ma anche di assistenti sociali, mediatori culturali e familiari, e avvocati.
La telemedicina come servizio di prossimità
Secondo la senatrice Boldrini, anche la telemedicina è un ottimo potenziale strumento per assistere le donne con prossimità. “Durante la pandemia – conferma Boldrini – è stata per esempio emessa una determina che consente l’aborto farmacologico con somministrazione del farmaco RU486 anche al di fuori dei presidi ospedalieri.
Diverse Regioni si sono però rifiutate di applicarla: sostenevano che le donne, senza assistenza ospedaliera, sarebbero state lasciate sole, con conseguenti gravi pericoli per la salute. In questi contesti la telemedicina avrebbe certamente rappresentato un valido supporto per monitorare le condizioni di salute delle assistite. I mezzi insomma esistono. Bisogna investire in questo senso e applicarli.”
Francesco Mingiardi, avvocato responsabile dell’azione popolare portata avanti dalla campagna #LiberaDiAbortire conferma ad Agenda17 che la telemedicina si presta molto in ambito di primo colloquio con il medico in caso di ivg e di aborto farmacologico, sia perché rende più accessibile il primo consulto con un medico, come dimostrano i Paesi europei, ad esempio la Germania, che hanno standardizzato la prassi, “sia perché in telemedicina potrebbero anche essere somministrati i farmaci, che nella donna comportano conseguenze anche di dolore fisico.
Essere seguita a distanza – continua Mingiardi – potrebbe tranquillizzare la donna. In questo senso la telemedicina è una procedura che responsabilizza le parti in gioco: il medico, se a distanza valuta che qualcosa non sta andando come dovrebbe, può intervenire tempestivamente.
In Italia chi ha approcciato al sistema del primo colloquio in telemedicina lo ha valutato molto efficace. È ancora una procedura sperimentale, ma dal momento che la medicina sta andando in quella direzione, perché non ampliare la sperimentazione, con tutta la garanzia dell’efficacia e della sicurezza dell’intervento?”
Speriamo che le Case di comunità e la telemedicina vengano realizzate in modo soddisfacente .