Secondo il rapporto Eurobarometer 2021, nei Paesi europei il 29% della popolazione si tiene informata su scienza e tecnologia attraverso nuovi media digitali tra cui i social network.
In questo contesto, i social media si propongono a scienziati e accademici come mezzo per sviluppare sia il proprio profilo professionale che le proprie attività di comunicazione pubblica, con la promessa di amplificare i contenuti delle loro ricerche e di estendere il bacino di utenti coinvolti nelle conversazioni su scienza e tecnologia.
Mentre aumenta il numero di ricercatori che fanno un uso sempre più frequente di questi strumenti digitali, la loro accettazione su grande scala nella comunità accademica rimane limitata. Per ottenere un impatto significativo, le piattaforme social richiedono coinvolgimento attivo e interazione continuativa con il pubblico, ma molti scienziati faticano ancora ad adottare strategie autenticamente dialogiche alla comunicazione online.
Twitter e Facebook, canali social più amati dagli scienziati
Secondo un sondaggio condotto su oltre 500 ricercatori di tutto il Mondo guidato da Kimberley Collins, ricercatrice presso il Centre for Science Communication dell’Università di Otago in Nuova Zelanda, e pubblicato sulla rivista PLoS ONE nel 2016, i canali social più gettonati all’interno della comunità scientifica internazionale sono Twitter e Facebook, usati rispettivamente dall’88% e dall’82% del campione interpellato.
Lo studio – un primo tentativo di mappare su grande scala abitudini e comportamenti degli scienziati sui social media – mostra come su Twitter la maggioranza degli intervistati segue (o interagisce con) altri scienziati su argomenti di ricerca del proprio campo; c’è anche chi lo usa per divulgare la scienza al pubblico o ai giornalisti, oppure per il live tweeting di congressi scientifici.
Per quanto riguarda Facebook, invece, tre quarti degli intervistati dichiarano di seguire pagine di argomento scientifico e un terzo di esserne amministratore; la maggioranza però non ritiene questa piattaforma adatta alla comunicazione scientifica con il grande pubblico, e ne limita l’uso a scopi di carattere personale – tra cui la comunicazione su argomenti scientifici con amici e parenti.
Paolo Zamboni: li uso sia con i colleghi sia con i pazienti
Si riconosce piuttosto bene in questa caratterizzazione Paolo Zamboni, medico chirurgo e docente presso il Dipartimento di Medicina traslazionale e per la Romagna dell’Università di Ferrara. “Principalmente uso Twitter come strumento professionale – racconta ad Agenda17 il docente, attivo sulla piattaforma di microblogging più diffusa al mondo da circa dieci anni. – Mi piaceva essenzialmente perché nella maggior parte dei casi potevo avere rapidamente contatti con i miei colleghi che conoscevo già nel Mondo, oppure altri che si potevano unire. L’altra cosa che mi piaceva molto era la possibilità di usare un paragrafo con parole chiave, non avendo tanto tempo durante la giornata, e poi la possibilità di approfondimento con un link.”
“Ci sono molti gruppi – prosegue Zamboni – specialmente nordamericani, dove avevo lavorato a suo tempo o con cui avevo contatto, che utilizzano questo strumento anche per la vita di tutti i giorni del reparto (anche cose semplici come una torta di compleanno). Vedendo l’impatto mi sembra di capire che piaccia questa forma di umanizzazione della scienza, anche se io non lo uso per questo.”
Negli anni questa attività, nata inizialmente come scambio con altri scienziati, diventa un’occasione educativa per il chirurgo dopo aver notato di essere seguito da diverse centinaia di pazienti. Inizia così a scegliere messaggi più incisivi e grafici semplici, dal forte impatto visivo, a uso non solo di colleghi ma anche di quei malati che si tengono informati, sono attenti alle novità in campo medico e apprezzano la possibilità di porre domande a un esperto e ricevere risposte nei tempi rapidi della comunicazione social.
“Con la pandemia da Covid-19 ho utilizzato anche Facebook – aggiunge Zamboni – perché potevo raggiungere le persone molto più rapidamente, potendo dare dei messaggi educativi ma anche rassicuranti, o meglio chiarificatori, nella confusione creata dall’informazione sulla pandemia, che era un tamburo di notizie forse anche dilatato nel tempo in modo eccessivo, molte difficilmente interpretabili da parte delle persone.”
La comunicazione scientifica attraverso Facebook, piattaforma sulla quale il docente Unife ha parlato di norme igieniche e prevenzione ma anche della propria ricerca legata ai vaccini, con l’aiuto di un vignettista per smorzare il tono “tombale” con illustrazioni divertenti, ha superato di gran lunga le sue aspettative, con post condivisi da molte centinaia di utenti.
“Non pensavo che avrei potuto raggiungere così tante persone in così poco tempo – commenta –. Penso che se utilizzato bene dalla scienza sia un’opportunità importante.”
Scienziati nell’arena digitale: servono competenze e regole di etica della comunicazione scientifica
La sfera pubblica digitale offre molteplici opportunità di comunicazione agli scienziati, ma allo stesso tempo pone sfide a cui molti possono essere impreparati: ad esempio, dover vestire un ruolo che non appartiene al proprio “repertorio”.
Uno studio recente, coordinato da Tessa Roedema, dottoranda in comunicazione della scienza presso la Vrije Universiteit Amsterdam, nei Paesi Bassi, e pubblicato lo scorso maggio sulla rivista Journal of Science Communication, esplora la differenza tra le aspettative e le esperienze di ventisei scienziati attivi sui social media in diversi Paesi europei, scelti tra esperti di tre argomenti ritenuti particolarmente controversi: i cambiamenti climatici, la nutrizione e l’intelligenza artificiale.
Tutti gli intervistati coinvolti in questo studio sono spinti da forte motivazione personale e scelgono di parlare di scienza su piattaforme online dove ritengono che la loro disciplina scientifica sia travisata o fraintesa. In molti casi, purtroppo, l’entusiasmo iniziale si scontra con la risposta emotiva di molti membri del pubblico, generando frustrazione e alienazione, complici anche la mancata preparazione a una comunicazione di tipo dialogico, l’assenza di mediatori e la realtà ostile di molti ambienti digitali. Simili episodi contribuiscono a creare la percezione, condivisa da molti degli intervistati, che il discorso scientifico online sia altamente superficiale.
È diversa l’esperienza di Zamboni, che nel suo confronto con il pubblico di non esperti su Facebook ha riscontrato un gradimento altissimo e commenti negativi solo in pochi casi isolati, pur essendosi affacciato su questa piattaforma nel bel mezzo della controversa gestione della pandemia da Covid-19. “Questo mi ha dato molta convinzione a continuare a farlo quando c’erano argomentazioni molto terrorizzanti, che creavano esitazioni o paure – nota il docente –. Mi ha convinto che non era tempo perso dedicarmi anche a questo.”
“Certo ci sono anche usi impropri – aggiunge –. Ho visto persone con conflitti di interesse molto alti, che in una rivista scientifica vengono segnalati, per cui devi prendere con le pinze i risultati delle loro sperimentazioni, presentarsi su Facebook dove non c’è l’obbligo di mostrare il conflitto di interesse come una specie di vate che promuove un farmaco.
Naturalmente chi ne ha bisogno è molto debole ed è portato a crederti. Sono strumenti importanti ma penso anche che possano fare del danno. Ci vorrebbe un’etica della comunicazione scientifica sui social, specialmente per certi argomenti: puoi esprimere il tuo parere, la tua posizione, però devi anche mostrare se hai conflitti d’interesse in calce ed essere perseguibile se non lo fai. Questa potrebbe essere un’evoluzione successiva, specialmente per uno strumento come Facebook. Su Twitter è possibile ma molto più difficile perché devi sintetizzare un concetto.”
Una pratica ancora poco diffusa
La comunità scientifica si sta adattando gradualmente all’uso dei social media, anche sotto le crescenti pressioni verso un nuovo approccio alla comunicazione pubblica. Si tratta però di una transizione lenta, che interviene sugli equilibri interni alla comunità stessa, nella quale i ricercatori si trovano a dover negoziare, rivalutare e riformulare la propria identità accademica. In particolare, è ancora presente un certo stigma sull’uso dei social media da parte degli scienziati, percepito da molti come una perdita di tempo.
In un altro studio pubblicato su Journal of Science Communication nel 2016 e guidato da Ann Grand, ricercatrice in comunicazione della scienza presso la University of Western Australia, si analizza il valore del tempo speso nella creazione di contenuti digitali come post su un blog o su altre piattaforme social.
Lo studio, basato su interviste a quindici ricercatori in diverse fasi di carriera presso la Open University del Regno Unito, ritrae un ecosistema accademico popolato da ricercatori variegati nel loro approccio agli strumenti di comunicazione digitale – dagli entusiasti early adopters, molto attivi nel mondo online, fino ai diffidenti, che in altri tempi avrebbero vissuto volentieri nella proverbiale torre d’avorio – all’interno del quale tendono tuttavia a svilupparsi pratiche di sostegno reciproco.
Conferma questo trend anche Zamboni. “I colleghi della mia età lo vedono abbastanza male, poiché non usano questi strumenti, li considerano molto scadenti, ma è un giudizio preconcetto – afferma. – Anche se c’è chi non accetta queste attività, ritengo che sbaglino perché è possibile fare delle gran belle cose, specialmente su Twitter.”
Tra i vantaggi offerti dalla piattaforma di microblogging, il docente annovera anche la possibilità di comunicare su argomenti che nella prassi scientifica tradizionale non avevano un luogo definito: piccoli scambi che non trovano spazio nelle pubblicazioni o nei congressi scientifici, conversazioni tra colleghi con visioni anche molto diverse che a volte portano addirittura a una sorta di review conclusiva dopo qualche mese di discussione.
“È molto utile mostrare per esempio un singolo intervento chirurgico su Twitter – spiega Zamboni –. In una pubblicazione si includono tanti interventi su un certo argomento, difficilmente si fa vedere un singolo intervento, ma a volte un singolo intervento nasconde un messaggio importante. Molti colleghi postano su questi aspetti, io non lo faccio ma lo trovo interessante. Un altro esempio sono le radiografie con reperti non convenzionali in cui si mostra il prima e il dopo: è un tipo di comunicazione molto interessante perché molte volte salta fuori una sintesi, anche rapidamente. È fantastico, specialmente adesso che con la pandemia gli incontri in presenza sono rarissimi.”
Data la natura dinamica dell’ecosistema mediale digitale, l’esitazione nei confronti di un nuovo strumento professionale è comprensibile, d’altro canto sono evidenti i benefici di una comunicazione social efficace, sia all’interno della comunità scientifica che nel coinvolgimento del pubblico. Gli autori degli studi qui discussi sostengono la necessità di una riflessione collettiva, accompagnata da supporto istituzionale e occasioni di formazione professionale, affinché un numero sempre crescente di scienziati possa avvicinarsi a questi canali con consapevolezza e serenità, esplorando le nuove opportunità offerte alla ricerca e stimolando proficuamente il rapporto tra scienza e società.