In Italia, la cooperazione internazionale per lo sviluppo sostenibile è disciplinata dalla legge 125/2014, che ha adeguato la normativa all’orientamento della comunità internazionale. In particolare, all’articolo 1 la cooperazione internazionale diventa “parte integrante e qualificante della politica estera dell’Italia” e, in questa prospettiva, la legge ha sancito l’attuale denominazione del Ministero in Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale.
Inoltre, ha istituito l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), con l’obiettivo di allineare l’Italia ai partner europei e internazionali in tema di aiuto allo sviluppo attraverso la gestione e il monitoraggio delle iniziative di cooperazione internazionale.
Il nostro Paese è membro del Development Assistance Committee (DAC) dal 1961. L’ultima peer review dell’ECDC sulla cooperazione italiana allo sviluppo è stata pubblicata nel 2019 e dal rapporto emerge che, dopo un netto aumento dell’Aps italiano dal 2012 al 2017, è iniziato un trend negativo che ci allontana ulteriormente dal rispetto dell’impegno di destinare lo 0,7% del reddito nazionale lordo (Rnl) all’Aps totale e lo 0.15% ai Paesi meno sviluppati.
Circa la metà dell’aumento registrato fino al 2017 corrisponde all’espansione del bilancio per la cooperazione allo sviluppo, mentre l’altra metà è riconducibile soprattutto ai maggiori costi per l’accoglienza dei rifugiati sostenuti dal Ministero dell’interno.
Il calo successivo è imputato soprattutto alla diminuzione del numero di richiedenti asilo e rifugiati in Italia, con conseguente calo dei relativi costi. Anche escludendo le spese per i rifugiati nel Paese donatore, comunque, l’Aps italiano nel 2018 è calato del 12,3% a causa della riduzione delle spese per i Paesi a reddito medio-alto. Nella legge di bilancio 2018, inoltre, per il triennio 2019-2021 era previsto un ulteriore calo dovuto nuovamente all’abbassamento dei costi per i rifugiati.
Il pretesto dei “rifugiati nel Paese donatore”
Una voce che negli anni ha acquistato rilievo è quella relativa ai “rifugiati nel Paese donatore”. Si tratta di fondi che non vanno direttamente ai Paesi in via di sviluppo, ma vengono impiegati per l’accoglienza dei rifugiati. L’associazione Concord li definisce “aiuti gonfiati” (inflated air), cioè flussi finanziari formalmente segnalati come Aps ma che, in realtà, non contribuiscono allo sviluppo dei Paesi più poveri.
Nel 2020, secondo il report AidWatch, sono sei i Paesi europei che hanno livelli di aiuto gonfiato superiore al 15% del totale di Aps, con Malta che raggiunge il 74% soprattutto proprio grazie alle spese per i rifugiati. Anche Francia e Germania si attestano al 19% e 17% del totale, con alti livelli di aiuto indirizzato ai rifugiati, in particolare per gli studenti.
In Italia, che ha destinato lo 0,22% del Rnl all’Aps, la quota per i rifugiati è stata pari al 5,47%, ma nel 2017, anno di maggiore crescita dell’Aps totale, rappresentava il 30,76%. A seguito dell’ultima legge di bilancio 2021/2023, probabilmente non ci sarà un aumento significativo nella quota di Aps dell’Italia, se non nell’annuncio del governo relativo allo stanziamento di 300 milioni di euro in più per i vaccini nei Paesi poveri e altri 200 milioni per clima e salute.
“È un problema di definizioni – specifica Federico Frattini, docente di Storia economica presso l’Università di Ferrara – e riguarda le relazioni politiche internazionali. Si tratta di definire il trattamento del rifugiato, immaginandolo come una sorta di appendice del Paese ricevente sul territorio del Paese donatore.
Da un punto di vista economico e di rendicontazione, queste risorse non possono essere paragonate a quelle spese per i cittadini e non sarebbe corretto rendicontare le spese per l’accoglienza alla pari di altre. Poi ognuno può fare le sue riflessioni sul fatto che, dal punto di vista sostanziale, possa non apparire come un aiuto effettivo al Paese di provenienza dei rifugiati.”
“La voce ‘rifugiati nel Paese donatore’ – concorda Pier Giorgio Ardeni, docente di Economia politica e dello sviluppo presso l’Università di Bologna – è una contraddizione accettata a livello internazionale, ma è sempre stato così. Oltre la finzione di facciata c’è però da considerare anche il semplice problema contabile: se come governo decido di occuparmi dell’assistenza ai rifugiati, sotto quale voce la contabilizzo?
Negli ultimi anni, inoltre, la stessa opinione pubblica ha iniziato a contestare l’Aps perché servono soldi per la disoccupazione e la povertà interne. I governi, che devono mantenere gli impegni internazionali, registrano quindi queste risorse come tali ma di fatto ne usano una parte, ad esempio, per l’assistenza ai rifugiati, pur trattandosi di un uso interno.
Di fatto tutta la politica degli aiuti andrebbe rivista profondamente, come dimostra la stessa vicenda dei vaccini: è chiaro che dovremmo aiutare soprattutto i Paesi più in difficoltà, mentre è proprio qui che la vaccinazione arranca.”
Infine, va considerato il tema del consenso pubblico. Indipendentemente dagli orientamenti politici, infatti, un ente governativo deve fornire riscontro e giustificazione delle scelte di bilancio all’opinione pubblica, anche quando si tratta di percentuali irrisorie.
“Dal punto di vista economico – conclude Frattini – è un problema di allocazione di risorse economiche scarse, che genera trade off ai quali vanno applicati precisi criteri. Altrimenti si tratterebbe di fare una scelta puramente di giustizia, ma allora il problema diventa definire cosa sia giusto e anche all’interno della sola Europa, culturalmente non omogenea ma comunque abbastanza compatta, lo stesso problema di giustizia produce soluzioni molto diverse.
Pensiamo al caso dell’Egitto: per tutta una serie di motivi, dall’interesse economico, alla prossimità geografica alla buona volontà di cooperare, è sempre stato un partner della cooperazione italiana. Quando però capitano casi come quelli di Giulio Regeni e Patrick Zaki il nodo politico viene al pettine ed è molto difficile da gestire.
E qui si apre un altro fronte: per rendere accettabile un programma di cooperazione alla propria comunità di riferimento, occorre capire qual è la capacità istituzionale dei Paesi con cui si coopera, quindi i livelli di democrazia, di tutela dei diritti, di corruzione e di criminalità organizzata. Tutte cose che possono drenare le risorse, ma soprattutto amplificare i problemi: se tutto quello che abbiamo detto sul consenso e l’interesse economico spinge a scegliere di cooperare comunque con l’Egitto, le limitate capacità istituzionali di questo Paese rendono la situazione difficile da gestire.”