La cooperazione allo sviluppo è un tema complesso, fatto di scelte economiche ma soprattutto di motivazioni politiche. Ogni anno la Confederazione delle organizzazioni non governative in Europa per lo sviluppo e l’emergenza (associazione Concord) monitora la quantità e la qualità dell’aiuto pubblico allo sviluppo (Aps, Official development assistance ODA) dell’Unione europea tramite il report AidWatch, quest’anno intitolato “A geopolitical commission: building partnership or playing politics?”.
La cooperazione allo sviluppo promuove iniziative finalizzate a migliorare la condizione socio-economica dei Paesi meno sviluppati e comprende risorse private e pubbliche. Queste ultime costituiscono l’Aps, che può essere somministrato in due modi: bilateralmente, cioè da governo a governo, o in modo multilaterale, quando le risorse dei Paesi donatori confluiscono in organizzazioni internazionali specializzate nella cooperazione, come la Banca mondiale o l’Organizzazione mondiale della salute, che poi intervengono nei Paesi destinatari.
A coordinare le politiche pubbliche di cooperazione è il Development Assistance Committee (DAC), il Comitato di aiuto pubblico allo sviluppo dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Organization for Economic Cooperation and Development, OECD). Attraverso un lavoro quinquennale di peer review, il DAC verifica le politiche di sviluppo dei trenta Paesi che ne fanno parte, tra cui l’Italia e l’Unione Europea.
Dal 2019 il DAC ha introdotto un nuovo metodo di misurazione degli aiuti, chiamato Grand equivalent, per non equiparare più donazioni e prestiti ma, al contrario, riflettere meglio lo sforzo effettivo dei Paesi donatori: più è generoso il prestito (con tassi più bassi e periodi di rimborso più lunghi) e più è alto il valore attribuito all’Aps.
“In generale capisco lo spirito del report AidWatch, che restituisce un’idea dell’impegno internazionale nella cooperazione – afferma ad Agenda17 Federico Frattini, docente di Storia economica presso l’Università di Ferrara –, però è difficile generalizzare su scala globale. Si tratta infatti di un fenomeno geograficamente molto diversificato: un conto è cooperare con i Paesi dell’Africa, un altro con quelli dell’America latina, un altro ancora con il Sud-Est asiatico. Le scelte sono politiche e bisogna considerare da un lato volontà, criticità e interessi dei Paesi donatori e di quelli riceventi e, dall’altro, le regole di contesto al cui interno si realizza la cooperazione stessa.”
Come funziona l’erogazione dell’aiuto pubblico allo sviluppo
“Intanto – dichiara ad Agenda17 Pier Giorgio Ardeni, docente di Economia politica e dello sviluppo presso l’Università di Bologna – bisogna circoscrivere il discorso. In tutti i bilanci pubblici c’è la voce che riguarda gli aiuti allo sviluppo, che sono separati sia dagli interventi umanitari e di emergenza (ad esempio quando si verifica un terremoto) sia dall’assistenza militare. Inoltre, a prendere buona parte dell’Aps è oggi il canale multilaterale, con percentuali diverse a seconda del periodo storico e dei Paesi coinvolti ma che ruotano solitamente attorno al 50-70% del totale.
Vale anche per l’Europa: la maggior parte dei finanziamenti converge negli aiuti che l’Unione europea fornisce ai Paesi in via di sviluppo. Lo stesso bilaterale dell’Italia è piuttosto esiguo rispetto al multilaterale.”
Nella relazione annuale 2021 in materia di aiuti allo sviluppo dell’Unione europea, il Consiglio ha ribadito l’impegno europeo verso l’obiettivo dell’Agenda 2030 di destinare lo 0,7% del Reddito nazionale lordo (Rnl) all’Aps (attualmente è lo 0,50%) e lo 0,15-0,20% dell’Aps ai Paesi meno sviluppati (fermo a 0,10% nel 2019).
Complessivamente, nel 2020 l’aiuto pubblico dell’Unione europea ha raggiunto i 66,8 miliardi di euro, con un aumento del 15% rispetto al 2019 grazie al sostegno dato ai Paesi in via di sviluppo per fronteggiare il Covid-19 con l’iniziativa Team Europa.
Il meccanismo economico alla base della cooperazione è la redistribuzione delle risorse. Quando infatti la distribuzione iniziale non è equa, subentra il tentativo di correggerla trasferendo ricchezza dai Paesi ricchi a quelli poveri, cioè tra il cosiddetto Nord e il Sud del Mondo.
Gli aiuti dipendono dalla politica interna degli Stati, e da soli non bastano a uscire dal sottosviluppo
“Tutte le volte che si trasferiscono queste risorse – spiega Frattini – c’è in linea di principio una valenza positiva: si valuta cioè opportuno intervenire per modificare la situazione esistente attraverso una loro migliore allocazione.
Poi però subentrano da un lato la disponibilità a trasferire le risorse stesse da parte dei Paesi donatori e dall’altro il consenso interno rispetto a tali progetti: subentra cioè la questione politica, che finisce per prevalere sulla parte economica.”
“Tuttavia – aggiunge Ardeni – dobbiamo fare una riflessione: quanto serve l’Aps allo sviluppo dei Paesi riceventi? Se guardiamo al totale erogato a livello mondiale siamo tra i 150 e i 180 miliardi di dollari l’anno, circa tre o quattro manovre finanziarie annuali di un Paese ricco.
Non c’è dubbio che sia importante intervenire nei Paesi con un reddito medio-basso, però pensare che l’Aps contribuisca significativamente al loro sviluppo economico è un’illusione perché si tratta di cifre troppo esigue per poter incidere in tal senso. Piuttosto può fare la differenza in settori come la sanità, poiché in alcuni Paesi garantire anche solo un minimo di strutture ospedaliere è già molto, o con l’aiuto fornito dalle campagne di alfabetizzazione.”
Interessi e opinione pubblica dei Paesi ricchi determinano i prestiti ma anche le donazioni
Quando si parla di cooperazione internazionale si parla quindi di avviare progetti a medio-lungo termine grazie ai quali migliorare la realtà dei Paesi coinvolti. “Da un lato – continua Frattini – l’aspetto economico punta a raggiungere una più efficiente distribuzione finale, dall’altro però, quando ragioniamo in termini filantropici e umanitari, subentrano categorie e principi che sono invece propri della politica, dell’etica, della filosofia e del diritto.
L’Aps è certamente indice di una volontà di cooperare, ma è difficile immaginare una cooperazione che sia davvero neutra, cioè senza un ritorno per chi dona. Per questo si privilegiano rapporti di cooperazione con certi Paesi: perché più interessanti per far lavorare le proprie aziende o per un maggiore ritorno in termini di immagine. Nel dibattito politico degli ultimi anni nel Sud Europa, ad esempio, ha funzionato raccontare i rapporti di cooperazione come volti alla riduzione dei flussi migratori in ingresso.”
A ciò si aggiunge il fatto che, se nella cooperazione bilaterale il Paese donatore ha maggiore controllo sui fondi stanziati e può quindi perseguire in modo più incisivo le proprie strategie politiche, tuttavia anche nella cooperazione multilaterale non mancano gli interessi strategici.
“Gli aiuti allo sviluppo – specifica Ardeni – possono essere donazioni, da sempre la percentuale minore, o prestiti. Non dobbiamo però pensare che le donazioni siano necessariamente buone e i prestiti necessariamente cattivi, perché dipende dalle condizioni applicate. Anche la donazione infatti può essere vincolata a un determinato utilizzo da parte del ricevente.
Negli ultimi decenni è cresciuta la tendenza a legare gli aiuti ai programmi dei governi. Il caso più noto è quello dei cosiddetti programmi di riduzione della povertà: la Banca mondiale elargisce gli aiuti se il Paese ricevente mette in piedi un programma per la riduzione della povertà che deve avere certe caratteristiche, come la liberalizzazione dei prezzi e dei mercati o la privatizzazione di aziende pubbliche. Le condizioni sono quasi sempre molto stringenti, indipendentemente dal fatto che si tratti di donazioni o prestiti.
Oppure pensiamo all’Afghanistan: da decenni è tra i Paesi più poveri del Mondo, soprattutto dopo l’istituzione della repubblica negli anni Settanta. Tuttavia gli aiuti internazionali sono arrivati in maniera consistente solo dopo l’intervento americano e dei Paesi del Patto atlantico (North Atlantic Treaty Organization, NATO). A un certo punto, l’Afghanistan era tra maggiori destinatari degli aiuti allo sviluppo perché occorreva dimostrare che l’intervento della NATO era stato utile a migliorare la situazione del Paese.”
I compromessi internazionali limitano i poteri degli Stati e tutelano i più deboli
L’istituzionalizzazione dell’attività di cooperazione può però garantire maggiore tutela nel trasferimento delle risorse. Alcune regole della cooperazione sono state infatti concordate come inevitabile compromesso tra le diverse realtà sovrane che costituiscono il contesto globale.
Questo, di fatto, favorisce compromessi che portano ad esempio a determinate definizioni di rifugiato, a certi modi di rendicontare le spese, a un certo orientamento delle risorse o al privilegiare determinati obiettivi rispetto ad altri.
Il compromesso non è necessariamente un male, perché tutela chi riceve: quando infatti chi dona non deve confrontarsi con altre realtà può essere più incisivo.
“L’importanza del compromesso è evidente – spiega Frattini – se analizziamo i singoli casi. Ad esempio la Cina, spingendo per l’istituzione dell’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), nella cooperazione con l’Africa subsahariana si è svincolata dal contesto di compromessi internazionali. Ciò di fatto obbliga i Paesi africani a fare scelte che devono essere condivise con il governo di Pechino.”
L’AIIB è una banca multilaterale di sviluppo istituita nel 2014, in contrapposizione soprattutto al Fondo monetario internazionale, alla Banca mondiale e all’Asian Development Bank, in cui è forte il peso degli Stati Uniti. Vi partecipano anche diversi Paesi africani (che rappresentano oltre il 46% della popolazione africana e il 60% del Prodotto interno lordo del continente), ai quali offre capitali a prezzi accessibili e competenze infrastrutturali per colmare le esigenze economiche del continente, come il recente prestito di 100 milioni di dollari al Ruanda a favore delle imprese colpite dalla crisi pandemica.
“Quando diciamo che la cooperazione dovrebbe essere basata sulla volontà di costruire un Mondo migliore – conclude Frattini – ci aspettiamo che i Paesi donatori siano sempre mossi da questo spirito. Però dobbiamo avere la capacità, nella realtà a volte cinica dei risultati a cui conduce, di osservarne tutti i risvolti e di cogliere la prospettiva di lungo termine.
Quando si parla di sviluppo e di cooperazione, è impossibile predeterminare gli esiti. Il problema e il fascino dello sviluppo economico è che a volte le cose semplicemente capitano, per cui si possono investire le risorse in una direzione e poi gli esiti vanno in tutt’altra. Ciò non significa rinunciare alla cooperazione: forse, semplicemente, alcuni suoi strumenti tendono a essere troppo rigidi, per cui a volte ci si focalizza su certi obiettivi quando invece, se si fosse lasciato cedere un po’ l’argine sugli eventi in corso, si sarebbero potuti raggiungere risultati migliori.” (1.Continua)