Una domanda che spesso pongono i cittadini sui media nei dibattiti legati alla pandemia riguarda la liceità della richiesta, da parte dello Stato, di un presunto sacrificio della propria libertà individuale a fronte di regole ritenute arbitrarie e usurpative per il contenimento del contagio. Una violenta reazione si scaglia contro frasi quali: “la vaccinazione è un dovere, morale e civico” (queste, ad esempio, le parole del Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, pronunciate il 28 luglio 2021 nell’ambito di una conferenza stampa), che vengono citate per riferirsi a una presunta e ingiustificata ingerenza dello Stato nella vita e nell’azione individuale.
Lo scopo di queste poche righe è quello di schizzare brevemente e per esempi alcuni tentativi filosofici di definire il bene individuale, ma soprattutto la libertà individuale, all’interno di e in relazione alla vita comunitaria. Spetterà poi a chi legge “pensare oltre”, ossia mettere alla prova argomentazioni degli attuali dibattiti contro una supposta limitazione delle libertà individuali, servendosi dei (pochi) strumenti cui qui di seguito si accenna: la lettura di alcuni classici del pensiero filosofico. L’invito è quello di aprire uno dei volumi menzionati sotto e provare a iniziare un dialogo con gli autori del passato che, in quanto classici, come scriveva Italo Calvino, non hanno mai finito di dire quel che hanno da dire.
Aristotele: il bene dell’individuo è funzionale al bene dello Stato
La prima opera in questione è uno dei primi scritti della storia dell’etica occidentale, e certo uno dei più influenti: l’Etica Nicomachea di Aristotele.
L’Etica Nicomachea inizia, alla prima pagina del libro primo, con una definizione di bene, ossia di ciò cui correttamente può essere attribuito l’aggettivo buono: “solitamente, si ammette che ogni arte esercitata con metodo, ed ogni azione compiuta in base ad una scelta, miri ad un bene. Di conseguenza, si afferma correttamente che il bene sia ciò cui tende ogni cosa” (Arist. EN I 1, 1094a1-3).
Il bene non è, quindi, un dono che cade dal cielo: viene piuttosto prodotto attivamente, è lo scopo degli sforzi dell’agire in generale e, in particolare, dell’agire umano. Una certa attività trova il proprio esser buona in sé stessa, nella propria realizzazione, mentre una cert’altra attività tende a produrre un’opera che esiste indipendentemente da essa. Ecco alcuni esempi dal testo aristotelico: “poiché molte sono le azioni, le arti e le scienze, molti sono anche gli scopi: lo scopo della medicina è la salute, della costruzione di navi è una nave, della strategia in guerra la vittoria, dell’economia la ricchezza” (Arist. EN I 1, 1094a6-9).
Vi è, inoltre, un bene proprio dell’attività degli esseri umani in generale. Questo bene è, secondo Aristotele, la felicità (eudaimonia). La disciplina più importante, quella dedicata alla contemplazione e allo studio della vita buona, è quella che si occupa di studiare la felicità degli esseri umani in massimo grado.
Aristotele ritiene che questa scienza della vita buona sia la politica, dal momento che il bene per l’individuo e il bene per lo Stato si equivalgono, anche se diverso è il loro livello di realizzazione. La politica “si serve di tutte le altre scienze e stabilisce per legge che cosa si deve fare e da quali azioni ci si deve astenere” (Arist. EN I 1, 1094b5-6). Lo scopo della politica abbraccia i fini di tutte le altre scienze e corrisponde allo scopo di ogni singolo essere umano.
È importante sottolineare che, “se anche il bene è il medesimo per il singolo e per lo stato, è manifestamente qualcosa di più grande e perfetto perseguire e salvaguardare quello dello Stato” (Arist. EN I 1, 1094b7-9). E con Stato, qui, traduco il termine polis, con una forzatura a mio avviso giustificata dalla storia dei concetti.
L’individuo non è una entità altra o estranea alla polis, la città-Stato, appunto: gli individui si realizzano come individui solo nella polis e la polis è identificabile alla comunità degli individui tra loro organizzati in un certo modo: non vi è individuo senza polis e non vi è polis senza individuo.
Sulla base di ciò, sebbene Aristotele si concentri, nel caso di un’azione individuale, sul bene dell’individuo, in realtà sottolinea al contempo come lo stesso bene individuale è parte integrante e funzionale al bene della comunità, e aggiunge e sottolinea che il bene di popoli e stati “è più bello e divino” rispetto a quello individuale (Arist. EN I 1, 1094b10).
L’etica, in quanto disciplina dedicata al trattamento delle azioni individuali e della felicità del singolo, si iscrive così all’interno del più ampio discorso politico. L’azione individuale ha, nelle sue ripercussioni comunitarie, un’estrema importanza. Etica e politica sono due facce della stessa medaglia – di più: l’azione etica individuale ci aiuta a raggiungere il meglio nella vita di ciascuno e ciascuna di noi solo nella misura in cui la nostra azione individuale è intesa come parte integrante della vita collettiva della comunità di cui siamo parte, cosicché i nostri scopi nell’agire etico hanno sempre un risvolto politico.
Spostandoci con un lungo passo in avanti nel tempo, dal IV secolo a. C. al XVIII secolo, e quindi dalla saggezza degli antichi all’epoca dei Lumi, faremo conoscenza del modo in cui la stessa importanza e comunanza individuo-stato verrà asserita da Jean-Jacques Rousseau e poi da Immanuel Kant.
Rousseau: la libertà si realizza nel rispetto della legge
Nelle riflessioni teoriche di Rousseau – e qui mi riferisco ai suoi scritti politici e, in particolare al Discorso sulla diseguaglianza – rimane costante una continuità tra l’azione individuale e il destino comunitario.
Si sposta tuttavia, ora, in Rousseau, il centro dell’argomentazione, che passa dal concetto di buono a quello di libertà.
La concezione di libertà illustrata da Rousseau ha implicazioni radicali per la filosofia politica: è Rousseau il primo teorizzatore della sostanziale ed essenziale continuità tra libertà e legge. Come cittadino di una comunità politica, obbedisco alle leggi solo perché sono “co-legislatore”: così, nella misura in cui decido la legge per me stesso, quindi mi faccio una legge che dovrò rispettare, non sono un semplice sottoposto alla legge stessa ma sono anche la fonte della legge. In quanto co-legislatore, non sono un semplice suddito: divento altresì sovrano.
Percepir sé stessi come meri sudditi implicherebbe il diniego e la perdita della propria “umanità”, dell’appartenenza alla comunità degli esseri umani razionali. È, piuttosto, seguire la legge, che mi rende libero, perché la legge è il prodotto della formulazione della volonté générale, frutto della razionalità umana nella sua assolutezza e da non confondere con la volontà di una possibile e mera maggioranza numerica.
Una tale maggioranza rimane condannata a essere una volonté particulière, una volontà arbitraria del singolo, se questa volontà non corrisponde poi a una volontà razionale e non conduce l’azione sotto la direzione di una scelta razionale universalizzabile.
La volontà particolare è quella che si inganna, credendo che l’arbitrario e l’irrazionale volere di un gruppo particolare sia da prediligere rispetto alla volontà razionale espressa da una comunità politica che è eletta a rappresentare la volontà generale universale.
La volontà generale è quella che persegue la realizzazione della ragione (e, nota bene, la ragione non ha paura di essere messa alla prova da processi di verifica scientifici e argomentazioni logiche e fondate). Contro una scelta arbitraria di un gruppo discrezionale, scopo della legislazione è invece realizzare autentica libertà, non quella arbitraria del gruppo particolare in questione.
La partecipazione politica alla co-legislazione è la condizione di possibilità dell’autentica libertà individuale e l’espressione della libertà civile. Ciascuno e ciascuna di noi può e deve arrivare all’appartenenza attiva a una comunità civile, ossia all’auto-legislazione come autentica libertà.
L’ingresso nella società civile sancisce così il passaggio dalla mera libertà di natura alla libertà dell’essere umano sociale. Questo passaggio è necessario, in quanto l’essere umano, ancora una volta aristotelicamente, è un animale politico, ossia un essere che vive e si perfeziona, diventa più felice e si realizza, solo in una comunità con altri animali a sé simile, ossia con altri esseri umani. Questo passaggio indica il sentiero verso la libertà genuinamente realizzata.
Kant: la libertà individuale nasce dall’uso della ragione
Sulle orme di Rousseau, Kant arriva a definire in maniera ancora più precisa in che cosa consista la libertà autentica e genuinamente realizzata in quanto libertà dipendente da una legge.
La domanda da cui Kant parte è antica come l’esser umano: quid est homo? Che cosa siamo? Di che cosa abbiamo bisogno per realizzarci come esseri umani? Kant è convinto che, nel rispondere a tal domanda, non dobbiamo farci guidare dai bisogni e interessi materiali, poiché il nostro vero io è la ragione.
La ragione, secondo Kant, non solo dà la legge alla natura, permettendoci di interpretare e comprendere il mondo intorno a noi, ma costituisce la fonte della legge morale che riesce a determinare il nostro libero arbitrio. Lo scopo della legislazione razionale non è quello di distruggere, bensì quello di consentire la libertà e l’autodeterminazione individuale, in quanto essa è autonomia, ossia una legge che noi stessi diamo a noi stessi (per farsi un’idea dell’autonomia kantiana, sarà utile dare un’occhiata alla Critica della ragion pratica).
La dottrina kantiana che fa della ragione pura la fonte della legge morale esprime nient’altro che questo: che ciascun essere umano può essere ciò che è secondo i concetti razionali che possiede. Ciascuno e ciascuna di noi può realizzare ciò che più ci interessa: il nostro essere razionali e, in tal senso, parti di un mondo che va al di là della necessità meccanica, un mondo in cui viviamo sulla base di una legge che non dipende dalla natura al di fuori di noi ma dalla natura umana in noi, la nostra natura razionale, un mondo di libertà. Sapere aude! Qui è vivamente consigliata la lettura della risposta kantiana alla domanda: Che cos’è l’illuminismo?
Per capire che avere il coraggio di servirsi della propria ragione significa trovare il coraggio di pensare, di trovare argomenti condivisibili al di là della singolarità o di una arbitraria maggioranza. Significa avere il coraggio di essere intellettualmente onesti e non selezionare (dis-)informazioni per costruire argomentazioni mendaci. E significa soprattutto avere il coraggio di rispettare una legge, la legge morale, che è la ragione che ci richiama al nostro dovere di esseri umani razionali.
Il coraggio di rispettare una legge che sta alla base tanto dell’agire individuale quanto della comunità cui facciamo parte, e di darsi infine da fare affinché la nostra destinazione umana, la destinazione razionale, non venga minacciata dall’arbitrio casuale e superstizioso, dal sonno della ragione, e dalla veglia e l’avanzata della violenza arazionale. La realizzazione della libertà individuale non può passare dall’arbitrio che rinnega la ragione: libertà individuale è autonomia razionale.