“Le alluvioni sono sempre più frequenti ed estreme, passiamo dalla pioggia torrenziale alla siccità con una facilità incredibile. E il territorio del bacino del Po è estremamente vulnerabile: abbiamo creato una situazione che già in condizioni climatiche normali sarebbe molto pericolosa. Per questo bisogna intervenire subito.” È la denuncia lanciata ad Agenda 17 da Andrea Agapito, responsabile dell’Area acque e fiumi di WWF (World Wide Fund for Nature) Italia.
E alle parole questa volta potrebbero seguire i fatti, grazie proprio a un progetto dell’associazione ambientalista che tocca molti nodi cruciali delle disastrosa gestione del Grande fiume che è stata fatta negli ultimi decenni.
Europa, Cina e nord Italia sott’acqua a causa dei cambiamenti climatici
Mai come quest’anno l’allarme è sentito e pressante: con ancora negli occhi le immagini delle alluvioni e delle frane che hanno colpito il nord Europa, la Cina e anche il nord Italia, ci ritroviamo ora immersi nel caldo torrido e negli incendi di agosto, con temperature record in tutto il Mediterraneo.
In particolare, dopo le oltre duecento vittime provocate dall’ultima alluvione avvenuta in Germania e Belgio, a far discutere è il tema delle esondazioni e della gestione fluviale.
Per fare chiarezza, in questo articolo abbiamo ricostruito i tratti del rischio idrogeologico nel nostro Paese e provato ad analizzare gli interventi in questo senso contenuti nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). È proprio sulla rinaturazione e sulla messa in sicurezza del fiume Po che si concentra infatti l’azione in campo ambientale più importante dell’intero Piano.
“I cambiamenti climatici ci sono sempre stati – spiega Dario Camuffo dell’Istituto di Scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Isac-Cnr) di Padova – la domanda che ci dovremmo porre dovrebbe essere se andiamo verso il meglio o verso il peggio.”
In uno studio pubblicato su Nature nel 2020 di cui Camuffo è stato uno degli autori, viene evidenziato come nell’Europa centrale e occidentale il periodo dal 1990 al 2016 sia stato caratterizzato da eventi alluvionali più forti e frequenti rispetto agli ultimi 500 anni. Questi fenomeni sono avvenuti prevalentemente nei periodi caldi: nell’ultimo periodo il 55% si è verificato durante l’estate, mentre in passato solo il 41-42% avveniva nella stagione estiva.
Il dato deve essere letto tenendo in considerazione il fatto che i fenomeni meteorologici in Europa hanno una loro tipicità: “nell’Europa continentale – afferma Dario Camuffo – i rovesci sono tipicamente estivi, mentre in Italia le precipitazioni più intense appartengono alla stagione fredda, quindi iniziano in autunno e proseguono per tutto l’inverno; e questi eventi con i cambiamenti climatici possono essere più o meno intensi, con un peggioramento più probabile alle alte latitudini del nord Europa.”
Questo dato emerge anche da una pubblicazione internazionale del 2019 a cui ha partecipato anche Attilio Castellarin (afferente all’Università di Bologna), sempre sulla rivista Nature, in cui è stato evidenziato per la prima volta che il riscaldamento globale determina l’incremento dell’incidenza dei fenomeni alluvionali nei paesi dell’Europa nord-occidentale e una diminuzione in quelli dell’Europa meridionale e orientale; come vedremo più avanti, questo non mette l’area mediterranea al sicuro dalle alluvioni, ma genera al contrario contrasti sempre più evidenti tra i periodi secchi e quelli di pioggia intensa.
Rischio frane e alluvioni nel nostro Paese
Che per l’Italia la situazione sia particolarmente complicata e legata a doppio filo al dissesto idrogeologico viene ben evidenziato dal Rapporto di Greenpeace “Quanto costa all’Italia la crisi climatica? Focus su eventi estremi come alluvioni e frane” dell’agosto 2021. Secondo il Rapporto, il 91% dei comuni è a rischio frane o alluvioni. Questo significa che 1,3 milioni di italiani sono esposti al rischio frane e 6,2 milioni a rischio alluvioni, in totale più del 12% della popolazione.
L’elevato rischio di fenomeni alluvionali e franosi è una conseguenza della peculiarità morfologica del territorio italiano (per il 75% caratterizzato da montagne e colline), ma anche e soprattutto dell’attività dell’uomo, che nel corso dei secoli ha completamente trasformato il paesaggio.
Come fa notare Camuffo: “una volta era normale che i fiumi esondassero e i terreni a fianco venissero lasciati liberi per l’esondazione, dove crescevano arbusti, stoppie, etc. e pascolavano gli animali. Certamente non c’erano costruzioni.”
“Oltre alla cementificazione, al consumo del suolo per l’urbanizzazione in senso molto largo (strade, ferrovie, autostrade, costruzioni vere e proprie), il problema principale – secondo Elisa Anna Fano del Dipartimento di scienze della vita e biotecnologie dell’Università di Ferrara – riguarda l’impermeabilizzazione del suolo.
Più rendiamo impermeabile il suolo e lo rendiamo compatto con l’agricoltura di sfruttamento più sarà grande il pericolo di inondazioni, perché su questo materiale compatto l’acqua scorre veloce. Infatti, quello che abbiamo visto in Germania è lo scorrere dell’acqua in città: una valanga d’acqua che viene giù tutta insieme in un tempo brevissimo, e che trova solo sistemi impermeabili, quindi la gente muore.”
La gente muore, si contano i danni e si chiedono risarcimenti in seguito alla dichiarazione dello stato di emergenza. Quindi, gli interventi di prevenzione sarebbero fondamentali.
Ma in Italia, secondo il rapporto Greenpeace, nel periodo 2013-2019 sono stati investiti solo 2,1 miliardi in tali interventi, meno di quanto è stato risarcito per alluvioni e frane (2,4 miliardi).
La regione Emilia Romagna, da questa prospettiva, appare un osservato speciale, infatti se si considerando i danni subiti è stata la più colpita: con un impatto economico di circa 2,4 miliardi di euro contro i 20,3 miliardi totali.
Cambiare la gestione del territorio rinaturalizzando i corsi d’acqua
Cosa si potrebbe fare in termini di prevenzione e di rinaturazione lo descrive la professoressa Fano: “gli ingegneri hanno l’idea fissa che i fiumi sono dei sistemi di scorrimento di acqua come se fossero dei tubi, ma il sistema fluviale non è di questo tipo. La sezione del fiume e il livello dell’acqua dipende dal grado di penetrazione e di penetrabilità del terreno circostante. Quanto più l’acqua può penetrare nel territorio circostante tanto più è basso il livello dell’acqua.
Si tratta del principio della spugna: nel caso di una piena il territorio circostante al fiume si satura di più e quindi l’acqua viene mantenuta a un livello relativamente basso e comunque accettabile, mentre se la spugna è satura di acqua, l’acqua esonda”.
Secondo tale principio, la cementificazione degli alvei dei fiumi non paga a lungo andare, “bisognerebbe invece rinaturare le rive – afferma Fano – , così il sistema diventa più spugnoso.”
La Pianura padana una volta era caratterizzata dalla presenza di pioppi, di ontani, di salici, piante che hanno grandissima richiesta d’acqua, quindi stando vicino ai fiumi svolgevano una funzione importantissima, mentre il cavallo di battaglia degli ingegneri idraulici è che gli alvei devono essere completamente puliti, addirittura in alcuni fiumi del nord Italia e nei canali si pratica la pulizia delle sponde e del fondo. Nei canali del ferrarese e del bolognese si escavano i detriti e si tagliano le piante acquatiche. Tutto questo rende ancora più fragile il sistema fluviale.”
Per quanto riguarda la provincia di Ferrara, il rischio è legato al fiume Po, la cui esondazione avrebbe esito catastrofico. “La nostra rete – afferma Mauro Monti, direttore generale del Consorzio di bonifica Pianura di Ferrara – è stata tutta costruita dall’uomo. Come Consorzio abbiamo la competenza sul canale e sulla fascia a fianco che permette l’accesso con i mezzi, non abbiamo invece delle zone agricole dove poter piantare degli alberi.”
Il Consorzio di bonifica nella provincia ferrarese svolge un ruolo importante essendo tutto il territorio sotto il livello dei fiumi (Reno e Po) e anche per gran parte sotto al livello del mare. “Ferrara, Bologna e Modena – afferma Monti – sono territori vicini, ma sono molto diversi. Il territorio ferrarese è molto più artificiale dal punto di vista della realizzazione del reticolo idrografico, è unico.
Abbiamo 165 impianti idrovori, che pompano acqua quasi in continuazione anche quando non piove, perché comunque l’acqua della falda potrebbe salire e mettere in discussione il franco di coltivazione”, ovvero lo spessore minimo di terreno agricolo, tra la superficie del suolo e il livello dell’acqua di falda, che permette lo sviluppo delle piante.”
Nei canali della bonifica viene riversata tutta l’acqua piovana delle città e degli impianti di depurazione. “Lasciare il sistema fluviale con le rive vegetate, vegetazione acquatica o parzialmente acquatica, renderebbe più compatte le rive, permettendo un maggiore assorbimento di acqua – afferma Fano -. Inoltre, queste piante garantirebbero un altro grande beneficio: l’assorbimento di nutrienti.
La canna palustre, infatti cresce sottraendo nutrimento all’acqua per produrre la propria biomassa. Quindi, questa componente vegetale non ha solo il ruolo di essere trainante e strutturante le rive, ma di sottrarre nutrienti al sistema naturale e di rendere l’acqua migliore per gli altri organismi.
I canali senza vegetazione sono canali di scorrimento di acqua, sono dei tubi. Quello che dovrebbe fare l’uomo non è asservire il mondo naturale a se stesso, ma utilizzare i servizi ecosistemici, ovvero deve utilizzare in modo razionale e scientificamente corretto quello che gratuitamente ci offre la natura.”
Un grande compromesso per il Po fra ambientalisti ed estrattori di inerti
È in questa direzione indicata da Fano che interverrà l’azione congiunta sul bacino del Po proposta da WWF e Anepla (Associazione nazionale estrattori produttori lapidei e affini) all’interno del Pnrr, nella speranza di costituire per il futuro un modello di gestione e rinaturazione dei bacini fluviali italiani che risponda alle sfide del cambiamento climatico.
“Le Regioni dell’area del Po dal 1999 in poi hanno iniziato a destrutturare la legge 183, che in Italia istituisce l’Autorità di bacino e sottolinea la centralità della difesa del suolo e della salvaguardia delle acque – spiega ad Agenda 17 Agapito – Il risultato è che oggi la difesa del suolo non è più coordinata a livello di bacino idrografico. È suddivisa tra le Regioni. Per questo è importante riuscire a cambiare i modelli di gestione, agendo in maniera lungimirante e non solo sulle emergenze
Come WWF abbiamo buoni rapporti con alcuni soggetti, come ad esempio Anepla, il gruppo dei cavatori di Confindustria il cui presidente è Claudio Bassanetti, che aveva collaborato con noi quando faceva parte dei Giovani di Confindustria.”
Il ministro Cingolani ha fatto proprie le istanze di Anepla e WWF e inserito il progetto nel Piano nazionale. “Ringrazio Andrea Agapito e la sua associazione per aver ragionato senza pregiudizi riguardo la necessità di coniugare economia e ambiente – ha dichiarato lo stesso Claudio Bassanetti -. Per le nostre imprese, il progetto è un riconoscimento del lavoro fatto, la dimostrazione che siamo capaci di realizzare interventi per la biodiversità.”
Il progetto di WWF e Anepla si propone di rendere il bacino del Po in grado di rispondere al cambiamento climatico, individuando trentasette interventi di rinaturazione e recupero dei rami laterali del fiume.
Soprattutto nella zona di Ferrara, e in generale dell’Emilia Romagna, il Po si presentava un tempo infatti come un corso d’acqua complesso, ricco di rami laterali. Oggi questo ecosistema è saltato e il Po è diventato un fiume “monocursale”, ossia caratterizzato da un singolo corso, peraltro sempre più profondo.
Per questo WWF e Anepla interverranno con piantumazioni, azioni a favore delle specie autoctone e soprattutto con l’abbassamento dei pennelli per la navigazione, attualmente troppo alti per essere sormontati dalle portate ordinarie del Po.
Ripristinare le zone umide e i corridoi ecologici del Grande fiume
Far degradare il terreno e scavare nelle aree che circondano il letto del fiume permetterà di far rivivere le antiche zone umide e mitigare il rischio idrogeologico. L’insieme degli interventi finanziati dal Pnrr contribuirà inoltre a ripristinare il naturale corridoio ecologico segnato dall’area fluviale, collegando tra loro diverse aree protette e hotspot di biodiversità.
L’azione sul Po dovrà costituire un esempio per interventi in altre zone d’Italia, ma per parte del mondo ambientalista e della società civile non è abbastanza.
E’ un fatto che l’intervento sul Po si inserisca in un Pnrr in cui il ruolo dell’ambiente e del resto della rete idrogeologica è secondario, andando a costituire l’unico progetto su grande scala in questo campo.
Come ha dichiarato lo stesso WWF lo scorso maggio, “il Pnrr è un passo significativo ma non basta per una la rivoluzione verde che ha bisogno di una spinta ulteriore sull’energia, sulla biodiversità, sul territorio, l’economia circolare e l’agricoltura biologica.”
Ancora più dure le critiche di scarsa attenzione nei confronti della biodiversità, trasparenza dei processi e apertura alla società civile lanciate da realtà come Lipu e The Good Lobby. Proprio i portavoce di quest’ultima realtà hanno di recente dichiarato: “continuiamo ad assistere alla nomina di nuovi consulenti per la gestione e il monitoraggio del Piano, mentre le richieste anche solo di incontro da parte di altre associazioni, ricercatori e ricercatrici indipendenti, rimangono inascoltate”.
Non solo: il settore delle cave è uno degli snodi cruciali della transizione verso una vera economia circolare in ambito edilizio. Mentre diversi imprenditori sperimentano innovazioni virtuose sui temi del riciclo e del ripristino ambientale, spesso collaborando con il terzo settore, in Italia l’estrazione di materiali su larga scala continua a mettere sicurezza, paesaggio e biodiversità, come evidenziato dall’ultimo Rapporto Cave pubblicato da Legambiente.
L’accordo tra due schieramenti storicamente opposti come ambientalisti e cavatori appare anche per questo come un inedito compromesso tra interessi diversi, un’opportunità nuova che sarà necessario continuare a seguire nel suo concretizzarsi.
“In questo momento il nostro commento sull’intervento contenuto nel Pnrr italiano non può essere che positivo – dichiara ad Agenda 17 Paola Fagioli di Legambiente Ferrara -, ora staremo a vedere come verrà portato avanti in concreto il progetto. Crediamo che sia urgente arrivare a un vero cambio di paradigma nel nostro modo di pensare agli interventi sul bacino del Po e sugli altri grandi fiumi italiani, un cambio che è ben rappresentato dalle proposte presenti nel Pnrr. Con questo progetto si passa da una visione antropocentrica del fiume (come elemento al servizio delle attività umane e da cui in caso difendersi) ad una ecosistemica, in cui l’essere umano è uno degli attori, ma la centralità è data al fiume e al suo habitat.”
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Secondo l’ecologa Elisa Anna Fano di Unife è la strada giusta contro la “deriva ingegneristica”, e Legambiente aspetta i fatti
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