Nell’ultimo periodo gravato dalla crisi pandemica, riecheggia con una certa assiduità nel dibattito politico e nei mass-media una parola esoterica, circondata da un alone magico: resilienza. Non riusciamo a sfuggire dalla sua forza emotiva ed evocativa, dalla sua pervasività e dalle sue capacità di fronte alle crescenti difficoltà nel neutralizzare gli effetti del virus.
Nello specifico, il richiamo alla resilienza si è affermato nel primo lockdown a fronte delle diverse azioni di supporto promosse da una varietà di attori del volontariato dirette ai soggetti più fragili e, successivamente, nel cosiddetto e oramai famoso Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Tuttavia la sua diffusione è da tempo presente nei documenti e nei programmi d’intervento promossi dalle agenzie transnazionali, quali la Banca mondiale e l’Unione europea, e nelle politiche a livello locale. Talmente vasti sono stati la diffusione del termine e il suo successo nel dibattito accademico, che sono sorte riviste internazionali quali “Resilience. International Policies, Practices and Discourses”, “Resilience: a Journal of the Enviromental Humanities”, “Resilience: Interdisciplinary Perspectives on Science and Humanitarianism”.
L’utilizzo diffuso e abbondante del termine resilienza lo si rileva dal numero impressionate di titoli presenti in Google Scholar, pari a più di 60mila stante una ricerca effettuata nel 2013. Inoltre, sulla scia di questo successo sono sorte nell’ultimo decennio pre-covid veri e propri network quali Resilient Cities e la Resilience Alliance che promuovono pratiche resilienti a livello di politiche pubbliche nell’ottica della sostenibilità ambientale.
Negli anni Settanta per l’ecologia è la capacità dell’ambiente di riequilibrarsi
Nella comprensione dei mutamenti ambientali, politici ed economici in corso e dei suoi effetti sui rapporti sociali, spesso, vi è la necessità di ricorrere alla formulazione di inedite categorie esplicative, o al rinnovamento di quelle tradizionali, in grado di coglierne gli aspetti significativi. Il successo e la diffusione del termine in questione non sfugge a questa regola che si lega strettamente al suo significato etimologico derivante dal latino resilire, “rimbalzare”, “balzare indietro in direzione opposta”, il quale richiama l’idea di resistenza/adattamento.
Infatti, originariamente, il termine è stato impiegato per indicare la proprietà resistente di uno specifico materiale alle pressioni esterne potenzialmente in grado di alterarne, o deformarne, la sua struttura. La sua traslazione semantica in altri ambiti di studio appare, quindi, più che giustificata a partire dal suo utilizzo iniziale negli anni Settanta nel campo dell’ecologia per identificare le capacità di riequilibrio dell’ambiente naturale sotto la pressione dell’azione umana in un’ottica di sostenibilità.
Nella classica definizione proposta dallo studioso di ecologia Holling nel 1973, si sottolinea come la resilienza sia la misura della persistenza dei sistemi e della loro abilità di assorbire il cambiamento e perturbamenti mantenendo le stesse relazioni tra popolazioni o variabili di stato. In questo orizzonte, risulta evidente la correlazione tra natura e società all’interno di un modello di sviluppo socio-economico che aumenta l’esposizione ai rischi e alle conseguenze di eventuali disastri naturali, soprattutto in termini di crisi ecologica e del cambiamento climatico.
Negli anni Ottanta per la sociologia è la capacità delle popolazioni di reagire alle catastrofi
Su tale piano di riflessione, la resilienza ha assunto un significato sociologico chiaro e preciso, ovvero, la reazione di determinati gruppi e/o comunità colpite da eventi catastrofici, ad esempio terremoti o inondazioni. A riguardo, si sottolinea l’elemento di autorganizzazione di un dato sistema locale e della sua capacità di apprendere e di adattarsi alle inedite condizioni socio-ambientali che si vengono a costituire.
In riferimento a questa dimensione è utile ricordare lo studio psicologico-sociale, in cui il termine ha avuto particolare rilevanza, riguardante gli effetti destabilizzanti di specifici traumi e la capacità di adattamento positivo ad essi manifestato dagli individui. La ricerca in questione, realizzata dai due psicologi statunitensi – Emmy Werner e Ruth Smith- negli anni Ottanta, riguardava la condizione dell’infanzia a rischio nelle Hawaii, da cui emergeva come una parte dei minori osservati, pur essendo cresciuti in un ambiente sociale e famigliare degradato, mostravano da adulti comportamenti non devianti e stili di vita regolari, ovvero mostravano nello loro crescita capacità resilienti.
A partire da questo lavoro pionieristico, nel corso dei decenni si è avuta un’estensione importante dei significati di resilienza e della sua applicabilità per comprendere una vasta gamma di fenomeni connessi al mutamento sociale, economico, culturale e ai possibili break-down ad essa collegabile: la perdita del lavoro, la povertà, lo sviluppo socio-economico, i processi d’integrazione dei migranti, la condizione degli anziani, sono alcune delle tante problematiche trattabili attraverso le lenti della resilienza senza dimenticare la crisi pandemica in corso.
Tale sintetica rassegna evidenzia con una certa forza quanto la sua applicabilità a una vasta quantità di eventi sociali dilati i suoi confini concettuali alimentando, al contempo, diversi problemi nel momento in cui trasliamo una proprietà fisica al sociale e ne assegniamo le stesse virtù. Niente di più erroneo dal punto di vista epistemologico e, soprattutto, dal punto vista della chiarezza dei concetti che utilizziamo per comprendere e spiegare la realtà.
Una “parola ombrello” che può coprire i fallimenti delle politiche regolate dal mercato
Il punto fondamentale, su cui è opportuno soffermarsi riguarda, come anticipato, la scontata traslazione teorica ed empirica del concetto all’interno della sfera del sociale. Infatti, se approfondiamo i riferimenti sociali con i quali coniugare la resilienza, emerge una prima seria difficoltà collegata alla sua applicabilità operativa.
Nel solco delle osservazioni fin qui presentate, il concetto di resilienza sociale è definibile quale “abilità di un gruppo o di una comunità di fronteggiare stress e perturbazioni esterne derivati da cambiamenti sociali, politici e ambientali”. In un’altra ben nota analisi sociologica, esso si lega al risultato per cui i membri di un gruppo mantengono il loro benessere a fronte delle possibili sfide che possono manifestarsi.
Il benessere viene inteso in senso ampio, comprendendo la salute fisica e mentale, le condizioni materiali, il senso di dignità e condivisione in quanto membro riconosciuto di una comunità. Queste definizioni scontano la loro connaturata genericità e aprono tutta una serie di domande sulle quali si è sviluppata una lunga e articolata discussione: come individuo i caratteri resilienti di una società locale, di una comunità, colpita da un evento destabilizzante? Quali sono gli elementi sociali significativi che concorrono a costruire una capacità di reazione ad un disastro? Vi è una relazione rilevabile tra una dinamica resiliente espressa dalla comunità, ovvero dal basso, e dalle istituzioni pubbliche che dovrebbero sostenere tale processo?
Nella determinazione della prerogativa resiliente concorrono una molteplicità di variabili sociali, culturali, politiche ed economiche le quali facilitano e, al contempo, ne differenziano la sua manifestazione empirica.
Vi è nella sostanza una difficile relazione tra approccio teorico e realtà empirica che necessita di essere affrontata per non correre il rischio di un pensiero tautologico (“la capacità di un soggetto resiliente sta nella resilienza”) o di una retorica consensuale che nasconde il fallimento del mercato quale esclusivo regolatore delle relazioni sociali e delle istituzioni locali e/o translocali a produrre politiche di welfare in grado di sostenere chi è colpito da episodi critici.
Una parola onnivora, che si mangia le variabili sociali
La resilienza nella sua peculiare definizione assume di per sé un valore positivo, si potrebbe ricordare a proposito l’antico adagio “la torta della nonna è sempre buona”. È banale affermarlo, ma è evidente che nel racconto pubblico si utilizzino legittimamente parole definibili come “onnivore” nel senso che nella loro sintesi concettuale si “mangiano” tutta l’articolazione che le sta dietro.
L’ulteriore problema che si pone, tuttavia, è che in questo specifico caso si occultano troppe variabili, troppi “fatti sociali” per utilizzare un termine caro ai sociologhi. Torniamo alla complessa e, per certi versi, straordinaria ricerca citata in precedenza sulle traiettorie resilienti degli adolescenti hawaiani. Per definire tale concetto, i due autori costruiscono un vero e proprio condominio di indicatori, variabili e indici.
Proseguendo in questa metafora, potremmo dire che si entra in una stanza e se ne aprono molte altre, l’obiettivo è di tracciare un percorso logico. Ne citiamo soltanto alcune: il contesto di vita, i caratteri psico-sociali dei genitori, il ruolo dei network sociali (non Facebook, ma le reti parentali e amicali), la funzione del capitale sociale (l’insieme dei network sociali) e la strutturazione degli interventi delle agenzie pubbliche.
Una parola che scarica le responsabilità sugli individui
Un ulteriore problema che sorge in questo quadro è che la resilienza diviene praticabile (o possibile?) da un’ulteriore traslazione che spinge a deviare dalle problematiche del mondo esterno a quelle relative alla nostra soggettività, alla nostra adattabilità, alla nostra capacità riflessiva e di comprensione, alla nostra valutazione del rischio, alle nostre competenze e alla nostra responsabilità di prendere delle decisioni a fonte delle perturbazioni nel sistema sociale o ecologico.
Il concetto formalizzato di resilienza presuppone il rischio e la vulnerabilità come condizioni sine qua non della sua stessa esistenza, quindi un soggetto in continuo divenire, instabile e sottoposto alle pressioni di reagire a potenziali pericoli non controllabili e prevedibili.
In altre parole, nell’ottica del paradigma neoliberista contemporaneo, la conversione resiliente dell’attore sociale crea una soggettività che deve permanentemente combattere per adattarsi al Mondo, non per concepire un mutamento dell’esistente, delle sue strutture e condizioni di possibilità. Il discorso neoliberale incorpora nel suo immaginario positivo la resilienza quale paradigma del self-made-man e di limitare le istituzioni pubbliche nel garantire eventuali sostegni e supporti.
Da questa prospettiva, il processo di costruzione, conservazione e riproduzione della resilienza sociale appare assai contradditorio e può essere altamente conflittuale; ad esempio ottimizzare una qualche forma di resilienza dentro a una specifica comunità potrebbe significare indebolire altre forme di resilienza presenti, generando tensioni al suo interno.
Inoltre, si rileva come sovente la resilienza sociale sia, legittimamente, un argomento decisivo nell’enfatizzare il potere delle persone di definire cosa è percepito (o percepibile) come minaccia, potenziale disastro, mentre nella pratica politica, che dovrebbe programmare e implementare strategie resilienti, i cosiddetti subalterni sono raramente ascoltati e, quindi, si costruisce un’ennesima disuguaglianza nella società.
In altre parole, proprio quei soggetti che dovrebbero essere maggiormente ascoltati per attivare la resilienza nelle sue distinte articolazioni, in quanto più esposti ai rischi e maggiormente vulnerabili poiché privi di risorse socio-economiche, vengono esclusi da tale processo. Qui è opportuno richiamare il periodo pandemico che stiamo vivendo.
Nella pandemia la resilienza accentua l’iniquità sociale di chi non ha risorse
Da differenti ricerche condotte in diversi contesti del Pianeta (Stati Uniti, Europa, Brasile, India) si desume chiaramente quanto il Covid-19 sia stato un fattore che ha ulteriormente aggravato e colpito in misura più significativa i gruppi vulnerabili e più poveri. Queste evidenze empiriche hanno portato a sostituire il termine “pandemia” con il termine “sindemia” utilizzato in un’importante analisi pubblicata su Lancet nel 2021 con cui si delinea come le disparità sociali ed economiche siano un vettore determinante nella produzione di maggiori effetti negativi dell’impatto del virus.
In linea con quanto espresso e discusso finora, è del tutto palese che anche la resilienza sia distribuita in maniera disuguale tra i gruppi sociali e che, per paradosso, aumenti ancora di più le distanze tra chi ha le risorse adeguate per essere resiliente e chi no. Senza contare, ancora un paradosso, il fatto che questi stessi gruppi vulnerabili sono per molti versi in una condizione di “persistente resilienza” i cui contenuti sono rappresentati da micro strategie informali e formali di sopravvivenza che sono continuamente sottoposte a continue tensioni dovute al deficit di interventi e risorse.
Pur con tutti i limiti e le critiche che si possono avanzare sul passaggio al sociale della resilienza, tuttavia essa nel suo peculiare utilizzo nella sfera pubblica assume di per sé un valore positivo. Per non perdere del tutto la sua intrinseca qualità e per una effettiva comprensione dei suoi meccanismi sociali, il punto da cui partire è di essere coscienti del fatto che il processo di costruzione della resilienza è sempre complesso, incompleto e localmente contingente.
La resilienza deve richiamare in causa la responsabilità delle istituzioni
A questo si aggiunge quanto la sua essenza sia un processo in continuo divenire, il cui presunto, o reale, potere trasformativo si pone su piccola scala e si contraddistingue per il carattere incrementale mediante la varietà dell’agire condiviso degli attori sociali e tra i distinti gruppi sociali.
Ne consegue la necessità di analizzare la resilienza nel suo essere prima di tutto relazione: relazione tra individualità e appartenenze, tra differenze ascritte e/o acquisite, e relazioni con le istituzioni, in particolare quelle che possiamo definire pubbliche. Su quest’ultimo punto, è opportuno valutare il loro ruolo nel sostenere la capacità di reazione e adattamento del sistema sociale locale nella sua complessità e articolazione.
La capacità adattiva di un dato sistema sociale locale dipende dalla natura e dall’intelligenza delle istituzioni e dalla loro capacità di assorbire gli shock e riprogettare nelle mutate situazioni.
A fronte di eventi catastrofici (es. terremoto, pandemia) la dimensione istituzionale risulta determinante nel (ri)costruire una cornice di azione collettiva indirizzata a favorire processi di responsabilità e partecipazione.
In tal senso si può immaginare una logica resiliente istituzionale la quale rafforza meccanismi di appartenenza e di agency tra i differenti gruppi/classi sociali, elementi fondamentali per attivare dinamiche positive in grado di contrastare gli effetti più negativi di episodi traumatizzanti. Le istituzioni possono divenire, quindi, generatrici di “campi di possibilità” nel momento in cui offrono spazi per l’interazione tra diverse visioni, pluralità d’identità dentro ad una specifica struttura della disuguaglianza, la condivisione di strumenti per agire su più livelli di significato e distinte realtà sociali.
In questa prospettiva, il conflitto diviene anch’esso fattore costitutivo della resilienza nel momento in cui è in grado di produrre (e riprodurre) competenze democratiche e di agire cooperativo.
Si potrebbe, anche in questo caso, ribadire il deficit di definizione operativa (come posso misurare la resilienza istituzionale?) o, come anticipato, di riprodurre il discorso tautologico implicito in molte e approfondite analisi (sono resiliente perché resiliente). Nondimeno, le arene istituzionali, in particolare quelle pubbliche, raffigurano un reale orizzonte “politico”, che appare fondamentale per contribuire a rafforzare delle alternative al paradigma neoliberista e promuovere una visione e una pratica della resilienza realmente democratica.