Nove anni fa, il 29 maggio del 2012, la seconda forte scossa del terremoto dell’Emilia.
Le scosse si originarono nelle faglie dei territori della Pianura Padana emiliana. Il sisma causò ingenti danni anche nella città di Ferrara, per la quale però si sarebbe prospettato uno scenario ben peggiore se ad attivarsi fosse stata la faglia che si trova proprio sotto al suo territorio.
Sebbene quel terremoto sia concluso, tutta la regione continua a essere a rischio sismico.
“Le faglie ci sono anche adesso; c’erano prima e continueranno la loro attività per decine o centinaia di migliaia di anni nel futuro – afferma Riccardo Caputo, docente di Geologia dei terremoti presso l’Università di Ferrara –. Ogni giorno che passa è un giorno in meno, un giorno più vicino al prossimo terremoto, che non so se sarà fra tre giorni, fra trecento, tremila o trentamila, questo non lo so… però sicuramente è un giorno in meno.”
Non è possibile prevedere quando ci sarà un nuovo terremoto, ma alcune cose sulle faglie ferraresi si conoscono con un certo livello di certezza, e questa conoscenza si può sfruttare. In particolare, poiché la magnitudo dipende dalla grandezza della faglia, nell’arco ferrarese le magnitudo massime attese si aggirerebbero intorno al 6 e, ragionevolmente, non dovrebbero raggiungere o superare il 6.5.
Quello che sappiamo ci permette di immaginare cosa succederebbe se la faglia sotto Ferrara dovesse attivarsi, e, soprattutto, cosa potrebbe accadere nello scenario critico: con magnitudo massima e un epicentro vicino alla città. Ebbene, in questo scenario si possono immaginare crolli parziali o perfino collassi delle strutture.
“Il crollo, crollo parziale o collasso dipendono molto dalla vulnerabilità della struttura – chiarisce Caputo -. Bisogna tenere in considerazione la vulnerabilità degli edifici: un edificio strutturalmente debole in caso di scuotimento può collassare completamente, un edificio in cemento armato magari a parità di scuotimento non collassa, ma vengono giù le tamponature.
Questo ha un impatto in termini sia economici sia di vite, perché un conto è una casa che crolla, e un conto è una casa che si crepa soltanto e lascia il tempo alle persone magari di evacuarla.”
Puntare su ricostruzione e manutenzione per vivere in città più sicure
Per ragioni anche storiche, l’Italia presenta un rischio sismico elevato, e non solo a causa della pericolosità sismica, ma anche a causa dell’alta vulnerabilità di alcuni edifici.
“Il problema – continua Caputo – è che in Italia la grande maggioranza degli edifici è stata costruita, per fatti storici, nel boom del dopoguerra, e molte aree erano prive, di fatto, di normative antisismiche o normative antisismiche stringenti come abbiamo oggi, perché i tempi erano diversi.
La maggior parte degli edifici, se fossero costruiti oggi non sarebbero a norma, diciamo così. Questo non vuol dire che non sono a norma perché essendo stati costruiti prima di certe normative ovviamente sono lì e non vengono abbattuti.
Ciò significa che, secondo quelle che sono le conoscenze attuali e la normativa che recepisce gli studi, quegli edifici hanno un certo grado di vulnerabilità elevato rispetto a quella che potrebbe essere la pericolosità della zona.
Per gli edifici nuovi chiaramente il problema non c’è; anche se, a mio avviso, si potrebbe fare ancora meglio, costruire in maniera un po’ più cautelativa.”
C’è da tenere presente che la situazione, perfino nell’area urbana, non è omogenea, e quindi intervenire non è banale.
“Il vecchio, il costruito, l’esistente ha dei gradi di vulnerabilità altamente variabili – afferma il geologo -, che dipendono da tanti aspetti, addirittura anche dalla storia dell’edificio stesso: tirare su un muro, aprire una finestra, chiudere una porta, alzare di un piano può influire nel comportamento dell’edificio. Attaccare una casa a fianco di quella che magari prima era isolata e aveva una sua oscillazione in caso di scuotimento… se poi la nuova casa ha delle caratteristiche diverse, se, ad esempio, una casa è più elastica dell’altra, questo può influire sul comportamento degli edifici.
Quindi è una questione molto articolata e complessa. A mio avviso, bisognerebbe cercare di ridurre la vulnerabilità, ma con politiche di distruzione e ricostruzione, cioè con abbattimento e ricostruzione di edifici, in molti casi, dove non c’è nulla da conservare dal punto di vista architettonico. Tanta edilizia si può tranquillamente demolire e ricostruire con criteri antisismici, ma c’è anche tanto da fare per ristrutturare, rinforzare gli edifici preesistenti.”
A Ferrara in particolare, alcuni interventi molto comuni come l’ampliamento di porte e finestre, o l’inserimento di grandi vetrine in edifici medievali che prima avevano porte e finestre molto piccole, potrebbero aver avuto più impatto di quello che ci si può immaginare sulla vulnerabilità delle strutture.
Ancora non sappiamo abbastanza dei terremoti
Ma, al di là degli interventi che si potrebbero fare per mettere in sicurezza gli edifici, da tanto tempo si studia e fa ricerca anche per capire se si possono migliorare le previsioni dei futuri terremoti.
“Per fare una previsione a tutto tondo – spiega Caputo – bisognerebbe rispondere a tre domande: dove, quando, quanto. Il dove bene o male lo sappiamo, perché ci sono le faglie. Il quanto in termini di magnitudo… quantomeno possiamo fare lo scenario peggiore. Il quando… ancora ci stiamo lavorando.”
All’Istituto nazionale di geofisica vulcanologia (Ingv) in passato è stato portato avanti un progetto dedicato a una valutazione sistematica di tutti quei parametri in grado di evidenziare una relazione fra certi fenomeni e i terremoti, che potrebbero essere delle “osservabili”.
“Non si è riusciti a trovare nessuna relazione che potesse avere una qualche applicabilità pratica”, precisa Caputo.
Con il termine “applicabilità pratica”, si fa riferimento a un tipo di capacità predittiva che possa essere usata ai fini di protezione civile: un tempo sufficientemente ampio da permettere una evacuazione, e sufficientemente preciso, concentrato in un intervallo dell’ordine di alcuni giorni, che non obblighi intere città a spostarsi e/o a fermarsi per periodi irragionevolmente lunghi (uno o più mesi).
Purtroppo, finora nessuna osservabile è stata ancora trovata. Ci sono molteplici fenomeni che sono stati registrati, in certe occasioni, prima del verificarsi di un evento sismico, come per esempio cambiamenti delle portate delle sorgenti o certe emissioni di gas. Quindi non si esclude che ci possano essere degli indicatori. “Il problema però – puntualizza Caputo – è che bisogna trovare una chiave di lettura e che soprattutto ci sia un rapporto preciso, uno a uno.”
Infatti, a volte capita che gli eventi sismici non siano preceduti da nessuna avvisaglia, o che certi fenomeni si verifichino in alcune zone ma non in altre. O ancora, può accadere che dopo uno dei fenomeni indicati come possibili precursori di un sisma, alla fine non si verifichi nessun terremoto.
Il ruolo delle trivellazioni
Nel 2012 si ipotizzò che potesse esserci un collegamento fra quanto avvenuto e le attività di Campo Cavone. Alla domanda se le trivellazioni o altre attività antropiche possano causare terremoti, Caputo risponde:
“Da un lato non è che si può dire sì o no. Ovviamente certi tipi di attività, ma solo certi tipi di attività, attenzione: questo è un punto molto delicato e molto importante. Alcune attività antropiche potrebbero generare una certa sismicità. Lo fanno in certe zone del Mondo, per esempio, negli Stati Uniti dove usano delle tecniche che da noi, oltre a essere vietate, sarebbero peraltro anche inutili, perché non ci sono quelle condizioni geologiche di sottosuolo.”