Fino ad ora a puntare sulle “cause climatiche” erano le associazioni ambientaliste. Negli anni si è assistito all’esplosione del numero di climate litigation, le cause intentate da associazioni e cittadini contro imprese e Governi citati in tribunale per danni climatici ed ambientali. Attualmente ne sono in corso più di 2500 in decine di Paesi e sono raddoppiate in dieci anni.
Vista la difficoltà a impegnare i Governi nella tutela dell’ambiente e nella salvaguardia dei diritti delle future generazioni, rivolgersi ai tribunali sembrava essere diventata una carta vincente, o forse, semplicemente, l’ultima carta.
Ora la situazione potrebbe cambiare e le sentenze dei tribunali potrebbero addirittura bloccare l’azione degli ambientalisti. A preoccupare è stata soprattutto la sentenza del 19 marzo di un tribunale statunitense, nel North Dakota, che ha condannato Greenpeace a pagare 660 milioni di dollari per diffamazione a Energy Transfer, la società che ha costruito l’oleodotto Dakota Access. La cifra è enorme e rischia di mandare in bancarotta l’associazione ambientalista.
Un ulteriore campanello d’allarme è venuto da un altro caso, certamente meno eclatante, ma che aveva colpito l’opinione pubblica: quello delle “anziane per il clima”, che in Svizzera avevano accusato la Confederazione elvetica di non aver adempiuto al dovere di tutelare le loro condizioni di vita e salute dalle conseguenze del riscaldamento globale.
La Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) aveva accolto il loro ricorso, ma la Svizzera, secondo il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, non sta facendo tutto il necessario per rispettare la decisione della Corte, così il Comitato ha invitato le autorità elvetiche, prendendo comunque atto dei progressi compiuti, a presentare informazioni aggiornate su molti punti in questione per riprendere in autunno l’esame del caso. In questo caso, il segnale che arriva è che anche le sentenze favorevoli hanno poi limitata efficacia.
La condanna di Greenpeace e le implicazioni della sentenza
L’infrastruttura al centro della sentenza è un oleodotto sotterraneo lungo circa 2 mila chilometri, che trasporta il greggio estratto al confine tra Montana e North Dakota, nel Nord degli Stati Uniti, fino all’Illinois, passando per il South Dakota e l’Iowa.
Nel 2016 e 2017 ci furono molte manifestazioni contro il progetto dell’oleodotto, con scontri e arresti di attivisti. La maggior parte di esse coinvolse i nativi Sioux nella riserva di Standing Rock, i quali contestavano il fatto che l’infrastruttura avrebbe distrutto i siti storici e religiosi fondamentali per la loro cultura, compromesso il loro benessere economico e ambientale e inquinato le riserve d’acqua.
Alle proteste si unirono migliaia di persone e decine di associazioni. Greenpeace finisce sotto accusa quando la società Energy Transfer la denuncia per diffamazione e incitamento alla violenza, sostenendo che l’associazione aveva avuto un ruolo chiave nelle proteste.
Greenpeace è stata giudicata colpevole e condannata a pagare 660 milioni di dollari a Energy Transfer.
Quali le conseguenze di questo caso?
“La sentenza – afferma la RivistaEnergia.it – è una svolta legale senza precedenti per le Ong ambientaliste. Questo processo potrebbe costituire un precedente per la responsabilità collettiva per le azioni di protesta. Secondo questa decisione, le organizzazioni devono essere ritenute responsabili non solo delle proprie azioni, ma anche di quelle degli altri partecipanti alle proteste.
La vittoria per Energy Transfer potrebbe spingere altre aziende a ricorrere a cause legali simili, così da evitare ritardi nella realizzazione dei progetti, spesso dovuti a ragioni pretestuose”.
Secondo Greenpeace, che ha denunciato Energy Transfer presso un tribunale dei Paesi Bassi, si tratterebbe di un caso di Slapp (Strategic lawsuits against public participation), le cause legali temerarie utilizzate dalle multinazionali per intimidire e mettere in difficoltà finanziaria gli attivisti e le organizzazioni no-profit.
Su questo ha deciso di chiamare in giudizio la società invocando la legislazione europea contro le procedure giudiziarie illegittime.
Il clima non si salva nelle aule di tribunale
Se i casi citati sembrano segnalare una insorgente difficoltà a puntare sui tribunali come carta vincente nelle situazioni di attacco ai diritti legati all’ambiente, in realtà, già altre sentenze avevano mostrato gli ostacoli che si presentano su questa strada.
Di particolare interesse l’annullamento della prima sentenza contro Shell a cui, nel 2021, un tribunale olandese aveva intimato di ridurre le emissioni di CO2 del 45% entro il 2030. Nel 2024 la Corte dell’Aja ha accolto l’appello della multinazionale britannica affermando che al momento non c’è sufficiente consenso tra i climatologi su una percentuale specifica di riduzione delle emissioni a cui una singola azienda dovrebbe attenersi.
Nel nostro Paese, invece, la causa climatica Giudizio universale, avviata nel 2021 da più di duecento soggetti tra cittadini e associazioni, si è arenata nel 2024 con la sentenza del tribunale di Roma, secondo cui i tribunali italiani non possono decidere sulle politiche per il clima.
In realtà, dunque, come evidenziato in occasione di un recente convegno all’Università di Ferrara da Margherita Ramajoli, docente di diritto amministrativo all’Università di Milano, “la via giudiziaria alla tutela dell’ambiente svolge una funzione di supplenza alla mancanza di intervento e di decisioni politiche degli altri due poteri. Non deve essere così: nella tutela dei diritti alla vita e alla salvaguardia dell’ambiente il ruolo del giudice è quello di garante”.
Si conferma dunque il dato di fondo delineato dal giurista Marco Magri dell’Università di Ferrara, secondo il quale il ricorso al giudice è sempre stato la spia di una debolezza intrinseca, e né la scienza né il giudice possono giocare il ruolo di un “legislatore parallelo”. Fondamentali sono, invece, il funzionamento delle politiche ambientali come fonti di produzione giuridica e la partecipazione pubblica democratica alle deliberazioni legislative.