Un diciottesimo obiettivo di sviluppo sostenibile per la protezione dell’ambiente sopra la Terra. Questa la proposta di un gruppo di esperti ed esperte pubblicata su One Earth per contrastare il problema dei detriti spaziali. La proposta intende trarre ispirazione dal quattordicesimo obiettivo, La vita sott’acqua, e dalla gestione dei rifiuti di plastica negli oceani. Oltre a un trattato internazionale vincolante e al nuovo obiettivo, l’articolo auspica anche una serie di misure innovative per la rimozione o la manutenzione dei satelliti giunti al termine dell’operatività, in un’ottica di responsabilità estesa del produttore.
Dal tracciamento dei detriti spaziali alla rimozione
Diverse start-up stanno sviluppando tecnologie per rimuovere i rifiuti di plastica da fiumi e oceani, anche se procedono lentamente a causa della difficoltà di quantificazione e tracciamento. Per i detriti spaziali, invece, esistono maggiori opportunità di tracciamento, anche perché tutti i lanci di satelliti vengono registrati, al contrario ad esempio delle bottiglie di plastica gettate in mare.
“Con le attuali tecnologie – spiega Germano Bianchi, responsabile del radiotelescopio Croce del Nord di Medicina (Bologna) – riusciamo a monitorare da terra, attraverso radar e telescopi, oggetti di dimensione superiore a 10 cm, che sono poi inseriti in un catalogo aggiornato quotidianamente.
Per monitorare detriti di dimensioni minori, sono in corso miglioramenti per aumentare le sensibilità dei sensori terrestri, come per l’antenna Croce del Nord. Vengono inoltre svolti test di impatti in laboratorio, per capire come possono evolvere le nubi di frammenti e studiare leggi che possano descrivere e predire le loro orbite.”

Come per le microplastiche, la rimozione attiva di detriti millimetrici rappresenta una sfida tecnicamente quasi impossibile con le tecnologie attuali. Attualmente si utilizzano sistemi di protezione passiva dei satelliti, come lo scudo Whipple, che consiste in più strati che frammentano e rallentano le particelle durante l’impatto, proteggendo il satellite. Per questo è importante lavorare sulla prevenzione di eventuali collisioni di satelliti non più funzionanti, tramite l’in-orbit servicing e la rimozione attiva.
Dalla manutenzione del telescopio Hubble all’in-orbit servicing robotico
È in questo ambito che entrano in gioco le aziende private, in collaborazione con le quali le agenzie spaziali nazionali stanno sviluppando l’in-orbit servicing: la riparazione, il rifornimento di carburante, la sostituzione della strumentazione e ogni altra attività che allunghi la vita di un satellite effettuata da un veicolo spaziale robotico.
L’in-orbit servicing funziona come il servizio di assistenza per le auto che si rompono o esauriscono il carburante in autostrada: nessuno penserebbe mai di abbandonarle, eppure è ciò che è stato fatto finora con i satelliti.
L’Agenzia spaziale europea (ESA) sta collaborando con l’azienda italiana D-Orbit per lanciare nel 2028 la missione RISE, che dimostrerà di saper effettuare l’aggancio a un satellite cliente nell’orbita cimitero e manovrarlo in sicurezza per cambiarne l’orbita ed estenderne la vita operativa. RISE sarà la prima missione di GEA (General Expansion Architecture), il veicolo che D-Orbit sta realizzando per rendere sostenibili le operazioni di in-orbit servicing e successivamente di rimozione attiva.

“L’in-orbit servicing ha una storia significativa che inizia con le missioni Space Shuttle della National Aeronautics and Space Administration (NASA) – racconta Stefano Antonetti, vicepresidente di Business Development di D-Orbit – La prima riparazione in orbita fu effettuata nel 1984 sul satellite Solar Maximum Mission, seguita dalle storiche missioni di manutenzione del telescopio spaziale Hubble tra il 1993 e il 2009. Queste missioni con equipaggio hanno dimostrato per prime la fattibilità dell’in-orbit servicing, anche se con un approccio molto diverso da quello robotico attuale.

Le prime missioni robotiche commerciali sono state la missione Orbital Express della Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) nel 2007 e le missioni MEV-1 e MEV-2 della società Northrop Grumman nel 2020-2021.
Orbital Express era una missione dimostrativa con un satellite ‘cliente’ appositamente progettato per essere servito e i veicoli MEV utilizzavano un meccanismo di aggancio proprietario. Diversamente, RISE dovrà interagire con satelliti non preparati per essere serviti e userà un approccio più universale agganciandosi all’anello adattatore di lancio, un’interfaccia presente praticamente su tutti i satelliti geostazionari.”
Sono in preparazione anche missioni di rimozione attiva. Nel 2028, una missione dell’azienda svizzera ClearSpace si aggancerà a un satellite non più funzionante dell’ESA e lo guiderà a un rientro sicuro in atmosfera. Nel 2026 la missione ELSA-M dell’azienda giapponese Astroscale effettuerà una rimozione multipla di una costellazione di satelliti tramite un meccanismo di cattura magnetica.
L’in-orbit servicing deve sviluppare sistemi di aggancio versatili e algoritmi robusti
“Le missioni di in-orbit servicing e di rimozione di satelliti presentano diverse sfide tecniche e operative complesse. – spiega Antonetti – La prima è il rendez-vous e la caratterizzazione precisa del satellite cliente, che potrebbe essere in rotazione incontrollata perché non più operativo. È necessario determinare con estrema precisione l’assetto, la velocità di rotazione e le condizioni strutturali del satellite prima di tentare qualsiasi approccio.

La seconda sfida cruciale è la fase di cattura/aggancio. La maggior parte dei satelliti in orbita non è stata progettata per essere agganciata dopo il lancio, quindi non dispone di interfacce dedicate. Questo richiede lo sviluppo di sistemi di aggancio versatili e adattabili a diverse configurazioni. Nel caso di RISE, abbiamo scelto di utilizzare l’anello adattatore che fissava il satellite al lanciatore.
Infine, un’altra sfida riguarda il controllo durante le operazioni di prossimità, che devono essere eseguite con estrema precisione per evitare collisioni. Data la latenza nelle comunicazioni specialmente in orbita geostazionaria, molte operazioni devono essere eseguite in modo autonomo dal sistema, richiedendo algoritmi robusti e sistemi di controllo altamente affidabili capaci di gestire anche situazioni impreviste.”
L’uso commerciale dell’orbita rende difficile trovare punti di convergenza per stabilire regole
La crescente partecipazione dei privati alle operazioni spaziali sta dunque offrendo soluzioni per affrontare i detriti spaziali. Ma d’altra parte altre aziende private non focalizzate sulla rimozione dei detriti stanno portando alla crescita esponenziale dei satelliti in orbita e dei rientri in atmosfera.
“Ora è molto conveniente costruire satelliti di piccole dimensioni, collocarne potenzialmente anche un centinaio a bordo di un unico razzo, metterli in orbita con vita media di cinque anni e poi lasciarli nello Spazio in attesa del loro rientro sulla Terra. Bruciando in atmosfera, vengono però rilasciate sostanze chimiche che vanno a inquinare l’aria e a incrementare il riscaldamento del Pianeta” spiega Bianchi.
Inoltre, durante il rientro le strutture in alluminio dei satelliti si sfaldano in piccolissime scaglie che rimangono in orbita, mentre le parti in titanio possono giungere fino al suolo. Per questo è importante innovare anche il materiale di costruzione. Un gruppo di ricerca giapponese sta testando con risultati promettenti la resistenza di un satellite in legno, che dovrebbe bruciare completamente in atmosfera.
Anche il rientro incontrollato di razzi è un problema: anche se in zone disabitate coperte da oceani, non può essere considerato un adeguato smaltimento, ma piuttosto uno spostamento dei rifiuti da un luogo a un altro. Nell’ultimo decennio, il rientro controllato di razzi, auspicato dalle linee guida del Comitato di coordinamento interagenzie per i detriti spaziali (IADC), è cresciuto dal 10% al 60%, anche se solo SpaceX finora ha realizzato un sistema di lancio con primo stadio riutilizzabile.

“Lo IADC sta spingendo per trasformare le raccomandazioni in regole, ma non è semplice. – conclude Bianchi – Basti pensare che tra i partecipanti dello IADC non vi sono i privati, che sempre più spesso fanno dello Spazio un uso commerciale e non vogliono avere regole da rispettare. Si capisce che, quando girano soldi, è difficile trovare dei punti di convergenza o anche solo di mediazione. In più oggi siamo in una situazione politica conflittuale che sicuramente non aiuta a rispettare le direttive.”