Europa tra Usa e Brics: economia debole e dipendente dal dollaro, ai margini del Mondo multipolare secondo l’economista Paolo Pini Abbandono del Green Deal, massicci acquisti di armi USA a scapito del welfare. In Nord Africa chiusura alle migrazioni e partnership bloccate

Europa tra Usa e Brics: economia debole e dipendente dal dollaro, ai margini del Mondo multipolare secondo l’economista Paolo Pini

Abbandono del Green Deal, massicci acquisti di armi USA a scapito del welfare. In Nord Africa chiusura alle migrazioni e partnership bloccate

Dopo il vertice dei Brics a Kazan, si fa sempre più chiara la volontà di questi Paesi di ridefinire gli equilibri geopolitici internazionali. I temi in gioco sono tanti: il multilateralismo, la possibilità di un mercato alternativo al dollaro, il ruolo dell’Africa e i possibili cambiamenti con la nuova amministrazione americana. Come si posiziona l’Europa in questo scenario? Lo abbiamo chiesto a Paolo Pini, già docente di Economia politica presso l’Università di Ferrara.

Con il ridimensionamento della quota occidentale nei mercati globali e la crisi tedesca, emerge la debolezza di un modello basato sull’export. Come dovrebbe porsi l’Europa rispetto alla possibile nascita di una moneta o comunque di un mercato alternativo al dollaro?

“Partiamo dalla crisi del modello tedesco. Negli anni Novanta, la Germania era considerata la grande malata d’Europa: tassi di crescita bassi, domanda interna e investimenti nazionali scarsi congiuntamente a una dinamica delle esportazioni che non compensava la debolezza interna, bassa crescita demografica e un mercato del lavoro bloccato, uno sviluppo tecnologico non brillante e un soggetto pubblico appesantito dai costi dell’unificazione con la Germania dell’Est. 

I Governi Schröder e Merkel hanno scommesso molto sull’euro e la strada intrapresa si è fondata su almeno quattro fattori: riforme del mercato del lavoro, nuove relazioni e investimenti con i Paesi dell’Est, politiche energetiche basate su approvvigionamenti meno costosi dall’Est e politiche commerciali aggressive rivolte ai nuovi mercati dell’Est europeo, Russia ed estremo Oriente.

Tutto ciò ha consentito alla Germania di competere nei mercati globali in un contesto in cui gli scambi non erano più realizzati con una valuta ‘costosa’ (il marco) ma con una ‘debole’ (l’euro), conferendo all’apparato industriale tedesco un vantaggio di prezzo sorprendente. La Germania è diventata un’economia export led, ma questo brillante apparato industriale rivolto all’export si confrontava con un apparato produttivo interno arretrato, investimenti pubblici stagnanti in infrastrutture e una dinamica demografica in crisi.

Paolo Pini, già docente di Economia politica presso l’Università di Ferrara (ⓒunife.it)

La Germania non è mai stata dunque la locomotiva d’Europa, ma potremmo dire la locomotiva di se stessa e si è avvantaggiata dell’euro senza condividere i vantaggi con gli altri Paesi europei, anzi facendo pagare costi a quelli più deboli tramite rigide politiche macroeconomiche europee. Tuttavia il progressivo cambio di rotta statunitense, dalla globalizzazione senza regole al protezionismo e le politiche ‘America first’, ha messo la Germania, e con essa l’Europa, con le spalle al muro: si sono viste compromettere i mercati esteri di sbocco più dinamici da un lato e l’approvvigionamento di materie prime ed energia a basso costo dall’altro.

Priva di una sua politica economica e internazionale comune che non fosse appiattita su quella statunitense, l’Europa non è oggi pronta al dialogo con il mondo dei Brics+ perché protagonista di una crisi, se non declino, da cui difficilmente uscirà nell’ambito delle sole relazioni atlantiche. Inoltre, la prospettiva di una moneta alternativa spaventa anche gli europei proprio perché la loro debolezza li tiene ancorati al dollaro: quindi finché l’Europa non ha una politica economica e internazionale autonoma, non può vedere i Brics come un’opportunità e, di conseguenza, una moneta alternativa al dollaro è vista come una minaccia all’euro stesso.”

Si sta verificando una ridefinizione dell’industria europea o, comunque, l’Europa sarà costretta a rivedere il suo modello di sviluppo?

“La questione sarebbe complessa ma la risposta rischia purtroppo di essere semplice.  In teoria i cambiamenti degli assetti globali pongono una sfida seria all’Europa, tale da richiedere una ridefinizione dell’industria europea, a iniziare dal tema di quali catene del valore ci convenga sviluppare e per quali mercati farlo.

Se consideriamo i Brics come un’opportunità e lo scenario futuro come multipolare, allora dovremmo guardare più a Oriente e al Sud del Mondo che a Ovest. Russia, Cina, India, Africa, America Latina sono le aree di sviluppo futuro: ridisegnare l’industria europea a prescindere da questi mercati sarebbe un errore strategico.

In pratica, però, vediamo un’Europa senza un disegno se non quello di ripiegamento verso la sfera nordatlantica. La nuova Commissione europea ha ripiegato sulle vecchie alleanze più della precedente: abbandona il Green Deal, si sottomette ai dettami statunitensi in termini di energia e materie prime, pratica ed estende le sanzioni con l’Est pur sapendo che è l’Europa a essere penalizzata, non sviluppa traiettorie tecnologiche autonome e investe in difesa e armamenti anche in tal caso sapendo che saranno gli Usa a soddisfare la nostra domanda. Insomma, una strategia che definirei per lo meno miope.”

L’Europa teme un cambiamento nella politica estera statunitense: cambierà qualcosa con Trump alla Casa Bianca? 

“Se la politica estera statunitense rimanesse quella attuale, un mix di protezionismo economico e sovranismo politico su scala globale, l’Europa più che temere un cambiamento dovrebbe lavorare affinché questo connubio cessi al più presto, ma è proprio ciò che non intende fare. 

Se muteranno le prospettive con Trump alla Casa Bianca in politica estera è difficile crederlo. Certo potrebbe affermarsi un disimpegno degli Usa dal pantano ucraino, ma con l’obbligo per gli europei di subentrare in presenza e in armamenti. E mentre in Europa c’è già chi vuole portare le spese militari oltre il 2% del Prodotto interno lordo (Pil) e rafforzare l’impegno in Ucraina, in sede NATO si chiede di passare a un clima di guerra come ‘stato naturale’ e attingere a settori come sanità, istruzione e welfare per le risorse da destinare alla difesa. 

Inoltre, al relativo disimpegno statunitense sul fronte europeo corrisponderebbe un maggiore impegno su quello medio-orientale, soprattutto dopo la caduta di Assad in Siria e la questione iraniana. Oltre alla questione cruciale: la Cina. È su questo fronte che si misureranno gli autentici obiettivi dell’amministrazione trumpiana: escalation della guerra commerciale o ricerca di compromessi per una convivenza commerciale? Dati i problemi strutturali di debito estero che attanagliano gli Usa, non scommetterei molto sulla seconda ipotesi.”

Riguardo all’espansione dei Brics in Nord Africa, quali sfide si aprono per l’Europa? I Brics potrebbero offrire incentivi e investimenti che spingano i Paesi africani a dare priorità a loro anziché ai partner europei?

“Un’Europa che guarda a Sud è stato un tema discusso nei Paesi europei ma, purtroppo, una pratica a volte gestita pessimamente, che ha visto ad esempio i Paesi africani affacciati sul Mediterraneo come terra di conquista, lasciandoli poi nello sfascio.

Il Nord Africa è oggi per l’Europa solo quel territorio dove fermare in extremis i flussi migratori. È quindi evidente che i Paesi del Nord Africa (ma non solo) guardino ai Brics come un’opportunità migliore e possano essere attratti dai loro investimenti esteri, visti i reciproci interessi: investimenti per la crescita da un lato e materie prime dall’altro. Russia e Cina sono attivi in vari Paesi africani e con diverse strategie di penetrazione/sfruttamento. Ciascuno di essi infatti mantiene una sua autonomia negoziale e la dimensione economica di ogni offerente fa la differenza: ben venga quindi se anche i Brics contribuiscono al suo sviluppo economico.

L’approccio dei Paesi europei sembra invece essere di intendere l’Africa come discarica di rifiuti tossici e blocco dei flussi migratori. E l’Italia ha mostrato due facce verso il continente africano: nel male la fase del colonialismo tra le due guerre, nel bene gli investimenti in infrastrutture dagli anni Cinquanta. Credo che quest’ultimo sia l’approccio giusto, ma richiede dialogo e collaborazione con i Brics, quindi si ritorna al tema già affrontato: vogliamo guardare a Est e al Sud del Mondo oppure alle nostre spalle, a Ovest?

Infine questa questione internazionale si associa a quella di politica economica interna dell’Europa comunitaria. L’Europa non è solo terra di trasformazione di materie prime in prodotti industriali da vendere sui mercati esteri, ma ha bisogno di domanda interna rilevante, della crescita dei salari reali e di un rilancio degli investimenti pubblici, cioè di una politica industriale che solo a livello statuale e comunitario può essere rilanciata. Ma soprattutto non ha bisogno di più armamenti e investimenti per la difesa, ma di più pace.”

Il testo completo dell’intervista lo potete trovare qui in formato pdf

One thought on “Europa tra Usa e Brics: economia debole e dipendente dal dollaro, ai margini del Mondo multipolare secondo l’economista Paolo Pini

Abbandono del Green Deal, massicci acquisti di armi USA a scapito del welfare. In Nord Africa chiusura alle migrazioni e partnership bloccate

  1. Articolo molto interessante, che anche un non addetto ai lavori può leggere utilmente: esauriente inquadramento storico, ampia prospettiva d’insieme, grande chiarezza espositiva.

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