“In Italia non c’è un fronte netto a dividere chi è totalmente favorevole e chi no al consumo di carne coltivata. Nella scelta contano soprattutto fattori come il grado di educazione, l’età e il genere.”
È ciò che racconta in anteprima ad Agenda17 Luca Lo Sapio, docente di bioetica e filosofia morale presso l’Università di Torino, coordinatore del progetto FEAT (FuturEATing), dopo tre sondaggi condotti su Italia, Francia e Olanda.
L’Italia, che si pensava essere la meno favorevole tra queste Nazioni a questa innovazione culinaria, registra un significativo 40% tra chi sarebbe almeno disposto a provare la carne coltivata, pur non introducendola abitualmente nella propria dieta.
Ancora molte le barriere psicologiche da superare. Una di queste si basa su un concetto che Lo Sapio definisce “euristica della naturalità”, considerare cioè questo tipo di novel food come poco naturali e demonizzarli, opacizzando dall’altra parte tutto ciò che riguarda la filiera agroalimentare che c’è dietro ai prodotti che siamo abituati a trovare al supermercato.
Dopo questi studi iniziali e la nascita del progetto internazionale FEAT, in cui Lo Sapio collabora con Alessandro Bertero, docente di biologia applicata all’Università di Torino, i due decidono di continuare la collaborazione anche per il progetto Cult Meat, specifico per la carne coltivata.
Sul significato profondo, antropologico – al di là degli aspetti economici e di mercato che abbiamo affrontato in altra sede -, abbiamo posto alcune domande al bioeticista.
Come pensa possa cambiare la visione della carne nel suo significato antropologico?
“Finchè si continuerà a pensare alla carne coltivata come ad una tecnologia, si continueranno ad ignorarne in dettagli. Per quanto riguarda il benessere del Pianeta, per esempio, la carne coltivata potrebbe contribuire ad innescare una rivoluzione culturale e quindi anche antropologica. La grossa maggioranza degli intervistati nei nostri sondaggi riusciva a cambiare opinione rispetto al rifiuto di consumare carne coltivata se si poneva l’attenzione su come questo tipo di alimenti potrebbe contribuite alla sostenibilità ambientale. La mia speranza è che attraverso questo simbolo si possa raggiungere un giorno la totale abolizione dell’uccisione degli animali e che, in quanto noi comunità morale, si possa essere più coscienti del fatto che gli animali non umani hanno dei diritti come noi.”
Non si rischia di parlare di specismo?
“Questa tecnica di coltivazione in laboratorio può essere a tutti gli effetti considerata una sorta di specismo, ma debole. L’homo sapiens rimane comunque al centro, è lui che preleva, manipola e utilizza le cellule di altri animali non umani per la sua esigenza di nutrirsi ma ciò ha anche una ricaduta positiva su di essi. Dobbiamo considerarla come un passaggio necessario verso un futuro migliore.
Per questo tipo di biotecnologie è molto importante considerare l’aspetto etico. Come si posiziona il suo ruolo all’interno del progetto CultMeat?
“La carne coltivata è un oggetto complesso e in quanto tale c’è bisogno di un approccio multiplo, raggiungibile solo attraverso la collaborazione tra più professionisti, in modo che nel progetto coesistano più esperienze, sia scientifiche sia umanistiche, che dialogano tra loro. Nel nostro team ci sono biologi, veterinari e filosofi, abbiamo pensato ad un percorso ibrido fin dall’inizio e che pensiamo sia il punto di forza per questo tipo di innovazioni.”