Si gioca tutta sulla finanza climatica la 29esima Conferenza sul clima delle Nazioni unite (COP29), che si tiene a Baku in Azerbaijan dall’11 al 22 novembre. Ma gli stanziamenti necessari per raggiungere gli obiettivi prefissati sono molto maggiori di quanto fino ad ora è stato messo in campo e le prospettive non sono affatto rassicuranti.
Già prima dell’apertura dei lavori si parlava di una Conferenza “di passaggio” verso quella che si terrà l’anno prossimo in Brasile, dove si dovrebbero fissare gli impegni di riduzione delle emissioni nazionali di gas climalteranti (Nationally Determined Contribution, NDC). E l’elezione di Trump renderà tutto ancora più difficile, se porterà – come già accaduto durante la sua precedente presidenza – a un deciso disimpegno degli Stati Uniti.
“Il vertice di Baku sembra un fallimento in attesa di accadere” ha sintetizzato Il Sole 24 Ore all’apertura dei lavori.
È molto chiaro cosa c’è da fare e chi lo deve fare. Ma non è detto si farà
“Quest’anno – affermano Asia Guerreschi, ricercatrice del Dipartimento di Economia e management dell’Università di Ferrara e Stefano Grignolio, docente di Gestione della biodiversità, che partecipano ai lavori di Baku – la conferenza è stata definita la ‘Finance COP29’.”
Per finanza climatica si intendono tutti i finanziamenti che vengono attivati per contrastare il cambiamento climatico: la riduzione delle emissioni di gas serra, l’adattamento (gestione del rischio climatico) e il risarcimento di perdite e danni causati da eventi meteorologici estremi.
“Tema centrale della COP29 – sostengono – è il New Collective Quantified Goal on Climate Finance (NCQG), un obiettivo finanziario collettivo che punta a mobilitare risorse sufficienti per sostenere le azioni di adattamento e mitigazione del cambiamento climatico nei Paesi più vulnerabili. Questo nuovo traguardo, che va oltre i 100 miliardi di dollari già promessi dalle Nazioni sviluppate, mira a creare un sistema di finanziamento più ambizioso e inclusivo, garantendo una distribuzione equa delle risorse e promuovendo progetti che rafforzino la resilienza climatica globale.”
Le reali necessità per i Paesi più poveri sono state quantificate con un modello elaborato dalle Nazioni unite (UN GPM): ammonteranno a più di dieci volte quanto finora promesso: circa 1.100 miliardi di dollari dal 2025, che saliranno a 1.800 miliardi di dollari entro il 2030.
Di conseguenza, i Paesi sviluppati, secondo il report, dovrebbero sborsare 890 miliardi di dollari nel 2025, raggiungendo 1.460 miliardi di dollari entro il 2030. Ciò implicherebbe un impegno pari a circa l’1,4% del Prodotto interno lordo (Pil) dei Paesi sviluppati. Siamo ben lontani da quanto viene speso in armamenti, ma la cupa previsione di fallimento prospettata dal Sole 24 ore sembra ragionevole.
Altro impegno fondamentale, che era stato siglato l’anno scorso alla COP28 di Dubai, è relativo al fondo Loss and Damage. “Questo termine – continuano Guerreschi e Grignolio – fa riferimento alla compensazione per le perdite e i danni che i Paesi più vulnerabili subiscono a causa del cambiamento climatico. Queste perdite, che comprendono distruzione di habitat, diminuzione della biodiversità e deterioramento delle risorse naturali, sono spesso irreversibili e colpiscono in modo sproporzionato le Nazioni con meno risorse per adattarsi o difendersi.”
Il fondo approvato a Dubai era stato giudicato l’anno scorso favorevolmente per i principi che afferma, ma non sufficientemente finanziato.
“Durante la COP29 – concludono – i leader mondiali discuteranno piani per un fondo dedicato al Loss and Damage e definiranno le modalità di finanziamento e distribuzione per garantire che le risorse arrivino efficacemente alle comunità più colpite.
L’obiettivo è quindi duplice: promuovere la resilienza degli ecosistemi naturali e garantire supporto finanziario adeguato per aiutare i Paesi in via di sviluppo ad affrontare le conseguenze del cambiamento climatico. L’adozione di questi strumenti finanziari e strategie integrate è essenziale per proteggere le specie e i loro habitat.”
Per l’Europa la politica climatica può essere una risorsa
La caratteristica di tutti questi processi, sia climatici che finanziari, è la loro stretta interdipendenza globale. Che ruolo può avere l’Europa in questo quadro?
“Nel contesto geopolitico globale caratterizzato da nuovi assetti, determinati da fenomeni politici e da elementi strutturali come il continuo sviluppo delle economie emergenti – afferma Massimiliano Mazzanti, direttore del Dipartimento di Economia e management, a Baku per Unife – l’Europa deve continuare il percorso iniziato con il Green Deal, e prima ancora con la creazione del mercato Emission trading, promuovendo strategie di politica climatica che siano politiche economiche industriali, di innovazione e creazione di conoscenza.
Il design della politica climatica può vedere come possibili azioni sia la riduzione della volatilità nel mercato delle quote di CO2, che ha raggiunto livelli di prezzo significativi nel 2022-23, sia il reinvestimento di proventi delle aste emission trading e di strumenti fiscali complementari (tasse verdi di scopo a livello nazionale, regionale, e anche locale, legate al tema del trasporto urbano) in riduzione delle tasse sul lavoro e incremento degli investimenti in ricerca e sviluppo.
Se ben disegnata, la politica climatica può configurarsi come un fattore di competitività per l’Europa, rafforzando una leadership tecnologica sul versante delle tecnologie verdi.
La performance sull’export, pur rilevante, non basta più – conclude l’economista -. Un piano di incremento in un lustro fino al 4% di spesa in ricerca e sviluppo sul Pil è necessario, unica leva di sviluppo economico nel medio-lungo periodo. La sfida cruciale è quindi legare sempre più la politica climatica e ambientale in generale alle strategie sugli investimenti in innovazioni e conoscenza.”
La debolezza delle COP strette fra lobbisti e petrol-Stati
La difficoltà a raggiungere gli obiettivi finanziari di giustizia climatica deriva anche dal progressivo indebolimento della formula istituzionale delle Conferenze sul clima delle Nazioni unite, strette tra una fortissima pressione dei lobbisti e una crescente debolezza dell’intervento degli Stati.
Secondo i dati analizzati dalla coalizione di attivisti Kick Big Polluters Out, più di 1770 lobbisti del carbone, del petrolio e del gas sono presenti a Baku, un numero molto maggiore di tutti i delegati delle dieci Nazioni più vulnerabili al clima messi insieme, superati solo dalle delegazioni inviate dell’Azerbaijan, Paese ospitante (2229), dal Brasile, Paese ospitante della prossima COP (1914), e dalla Turchia (1862).
Mancano invece leader mondiali di molti Stati: dalla Francia alla Germania, USA, Brasile, India Russia, Canada…
Non solo: secondo un gruppo di influenti esperti di politica climatica, fra cui l’ex segretario generale delle Nazioni unite Ban Ki-moon, l’ex presidente dell’Irlanda Mary Robinson, l’ex responsabile delle Nazioni unite per il clima Christiana Figueres e il climatologo Johan Rockström, le future COP sul clima dovrebbero tenersi solo in Paesi in grado di dimostrare un chiaro sostegno all’azione per il clima e di avere regole più severe sulla lobby dei combustibili fossili.
L’Azerbaijan, rilevano gli esperti, è un importante produttore di combustibili fossili, con petrolio e gas che costituiscono metà delle sue esportazioni, e anche la Conferenza dell’anno scorso si è tenuta in uno stato petrolifero quale gli Emirati arabi uniti.
Per questo affermano in una lettera inviata all’Onu come “è ormai chiaro che le Conferenze sul clima delle Nazioni unite non sono più adatte allo scopo.”
Intervenire subito! Gli ultimi dati climatici giunti a cavallo della COP
Sull’urgenza di intervenire velocemente ed efficacemente – dunque, come abbiamo visto, anche sulla formula istituzionale – concordano gli ultimi dati scientifici.
Secondo l’analisi di Climate Action Tracker (CAT) rilasciata il 14 novembre, l’anno in corso è stato un anno caratterizzato da progressi complessivi minimi, e le emissioni di combustibili fossili continuano ad aumentare, nonostante i Governi abbiano ripetutamente accettato di rafforzare urgentemente i loro obiettivi per il 2030 e di allineare all’obiettivo di 1,5° dell’accordo di Parigi.
“Stiamo chiaramente fallendo nel piegare la curva. Mentre il Mondo si avvicina a queste pericolose soglie climatiche, la necessità di un’azione immediata e più forte per invertire questa tendenza diventa sempre più urgente” ha affermato l’autrice principale del rapporto Sofia Gonzales-Zuniga di Climate Analytics, un’organizzazione partner di CAT.
Assistiamo inoltre al paradosso per cui mentre le energie rinnovabili stanno registrando progressi da record, i sussidi ai combustibili fossili sono ai massimi storici: i finanziamenti sono infatti quadruplicati tra il 2021 e il 2022.
Secondo Emissions Gap Report, il rapporto sulle emissioni di gas serra dell’United Nations Environment Programme (UNEP), dal titolo “basta chiacchere per favore”, nel 2023 le emissioni di gas climalteranti prodotte dal settore energetico, da quello agricolo-forestale, industriale e dai rifiuti, sono continuate a salire raggiungendo un nuovo record storico di 57,1 miliardi di tonnellate (Gt) di CO2 equivalente, in aumento dell’1,3% rispetto al 2022.
“È ancora tecnicamente possibile – afferma il rapporto diffuso poco prima della Conferenza – intraprendere un percorso che rispetti l’obiettivo di 1,5°C. Per realizzare questo obiettivo, forti impegni di riduzione delle emissioni nazionali (NDC) devono essere sostenuti urgentemente con un approccio di governo complessivo, misure che massimizzino i co-benefici socioeconomici e ambientali, una collaborazione internazionale rafforzata che includa la riforma dell’architettura finanziaria globale, una forte azione del settore privato e un aumento di almeno sei volte degli investimenti per la mitigazione. Le Nazioni del G20, in particolare i membri con le maggiori emissioni, dovrebbero fare il grosso del lavoro.”