Recentemente Greenpeace ha rilasciato il report “La crisi degli agricoltori italiani ed europei” da cui emerge un’inequivocabile tendenza all’industrializzazione del settore e all’accentramento della produzione nelle mani delle grandi aziende. Le conseguenze sono molteplici e drammatiche: “un maggiore controllo della produzione alimentare da parte di pochi grandi attori, un aumento della disoccupazione rurale, un crescente divario tra aree urbane e rurali, e maggiori impatti sulle risorse naturali, le stesse su cui gli agricoltori fanno affidamento per la loro sussistenza.”
Il giudizio sulle politiche agricole europee è quindi negativo, a partire dalla mancata adozione delle misure ambientali previste dalla strategia Farm to Fork, mancanza definita dal rapporto “un passo indietro di quindici anni per l’Europa, compiuto fingendo di ignorare che la stragrande maggioranza degli agricoltori è in prima linea nel subire gli effetti della crisi climatica, e che la loro sorte dipende da un ambiente sano e naturale.”
Le aziende di piccole dimensioni stanno scomparendo…
La massimizzazione della produzione e l’industrializzazione del settore, sostenute da buona parte della politica, favoriscono soprattutto le grandi aziende, a scapito dei piccoli produttori e dello sviluppo delle aree rurali. Le piccole aziende sono quindi spinte a produrre sempre di più per rimanere in attività, ma ciò compromette la qualità dei prodotti e allontana il sistema alimentare dalla sostenibilità sociale e ambientale.
Secondo Eurostat, nel 2020 le aziende agricole europee erano poco meno di 9,1 milioni, di cui circa due su tre (63.8%) con un’estensione inferiore ai cinque ettari. Negli ultimi quindici anni hanno però conosciuto un rapido declino, nonostante la quantità di suolo destinata alla produzione agricola sia rimasta costante.
Dal 2005, infatti, l’Europa ha perso più di un terzo (il 37%) delle sue aziende agricole (pari a 5,3 milioni), soprattutto piccole e medie, calate di quasi la metà (-44%) mentre, al contrario, quelle grandi sono più che raddoppiate (+56%).
Lo stesso si ripete nel nostro Paese: anche l’Italia ha perso il 37% delle sue aziende agricole, con un dimezzamento di quelle di piccola scala, anche se continuano a rappresentare la maggioranza delle delle aziende agricole nazionali.
… e le grandi aumentano la loro produzione, ma sono sempre più controllate dal settore finanziario
Le grandi aziende, anche se in minoranza, coprono ben oltre la metà della produzione europea: pur rappresentando solo l’8% del totale, nel 2022 hanno fornito quasi il 60% della produzione agricola (+134% in quindici anni).
Questo ha portato a una notevole crescita del loro reddito medio, anche qui a scapito delle piccole aziende che si vedono costrette ad aumentare la produzione per poter sopravvivere. Per farlo, tuttavia, sono necessari finanziamenti e sussidi pubblici, ma quasi paradossalmente a beneficiarne è chi ne ha meno bisogno. Molti dei pagamenti diretti della Politica agricola comune (Pac) sono infatti erogati in proporzione agli ettari coltivati, per cui quell’8% di grandi aziende riceve il 37% dei sussidi previsti, mentre le piccole tutte insieme ne ricevono solo il 25%. E lo stesso vale per i finanziamenti privati.
La finanziarizzazione porta a maggiori debiti e minori tutele sociali
La crescente dipendenza da prestiti e finanziamenti ha però un risvolto fortemente negativo anche per l’agricoltura nel suo complesso, poiché conferisce alla finanza privata il potere di indirizzare l’agricoltura europea verso logiche di rapido profitto piuttosto che verso la qualità dei prodotti e il benessere delle aree rurali.
Questo ha causato, dal 2007, la perdita di quasi quattro lavoratori su dieci del settore (3,6 milioni, -38%), anche qui soprattutto nelle piccole aziende. Secondo Greenpeace è quindi necessario un “profondo cambiamento nella struttura del settore agricolo e alimentare che consenta un passaggio a pratiche più sostenibili e a diete a base vegetale, oltre a un migliore sostegno finanziario per i piccoli agricoltori attenti all’ecologia”, garantendo un reddito migliore soprattutto a chi produce meno ma con maggiore qualità.