È ora di bilanci per la legge che quasi cinquant’anni fa istituì i consultori familiari pubblici (legge 405 del luglio 1975). Fin dalla loro nascita i consultori pubblici sono stati caratterizzati da potenzialità e limitazioni, ma negli ultimi anni le logiche di depotenziamento e aziendalizzazione li hanno spesso ridotti a semplici ambulatori sanitari, svuotandoli del loro senso sociale e di confronto con e tra le utenti.
Nonostante l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) definisca la salute come un completo benessere fisico, psichico e sociale e la Carta di Ottawa affermi che ogni persona dovrebbe essere messa in grado di avere capacità autonoma di controllo sulla propria salute, troppo spesso si assiste a una medicalizzazione dei corpi e della sessualità da parte di un sapere biomedico gerarchico.
Di qui la necessità di ripartire dai propri desideri e bisogni, ricordando che la salute è una questione sociale a cui concorrono fattori come disuguaglianze, sessismo, razzismo, per creare spazi di messa in circolazione di esperienze, di autorganizzazione e riappropriazione di sé a partire dalla conoscenza del proprio corpo, e di eventuale re-indirizzamento nei servizi già esistenti.
In questo quadro, i movimenti femministi e transfemministi hanno avviato una riflessione che ha portato a interessanti sperimentazioni quali le consultorie autogestite.
Cinquanta anni fa una legge innovativa ma con limitazioni
I consultori familiari pubblici sono presidi territoriali del servizio sanitario nazionale che si occupano della salute della donna, negli ambiti di salute sessuale, contraccezione, malattie sessualmente trasmissibili, interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), gravidanza e postparto, screening oncologici e menopausa. Una parte dei consultori svolge attività anche nell’area adolescenti/giovani (salute sessuale, contraccezione, malattie sessualmente trasmissibili, disagio relazionale) e coppia/famiglia (problemi della coppia, violenza di genere e su minori, affidi e adozioni).
La legge che li istituì contiene elementi innovativi per l’epoca, in particolare la “somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo” (la pubblicizzazione dei contraccettivi era stata autorizzata solo qualche anno prima, nel 1971), le attività di informazione e prevenzione e l’accompagnamento alla maternità e paternità responsabile.
Altre potenzialità della legge sono rappresentate dalla gratuità, dall’accessibilità estesa alle persone straniere temporaneamente residenti in Italia e dall’équipe multidisciplinare (ginecologa, ostetrica, assistente sociale e psicologa) che prevedeva un rapporto continuativo con le singole utenti per promuovere la salute in senso olistico e non bio-riduzionista.
D’altra parte, le principali limitazioni della legge sono l’impostazione familiare del servizio, che si concentrava su quel ruolo di madre della donna che i movimenti femministi contestavano, e il suo essere una legge quadro. Come spiega ad Agenda17 Bruna Mura, ricercatrice femminista e docente di Sociologia dei generi presso l’Università di Urbino, “questo significa che il compito di definirne la concreta applicazione nei territori viene demandato alle singole Regioni. Ciò ha portato a una difformità nelle modalità organizzative del servizio dovute alla specificità di ciascun territorio.
Ad esempio, vi sono difformità tra contesti in cui i movimenti femministi e delle donne sono riusciti ad avere un impatto nella realizzazione del servizio e dove invece questa presenza è stata meno considerata. Anche tra le Regioni che hanno individuato modalità di partecipazione delle cittadine alle attività dei consultori, queste sono state diverse.” Nella maggior parte delle Regioni si è trattato di comitati di rappresentanti, mentre solo nella Regione Lazio sono state previste le assemblee delle donne aperte a tutte, che sono esistite almeno in una prima fase.
La frammentazione regionale e lo svuotamento del senso dei consultori
La frammentazione regionale è oggi evidente nella disomogeneità della distribuzione dei consultori pubblici sul territorio nazionale. Secondo l’ultima relazione sull’attuazione della legge 194/78 sull’Ivg relativa al 2021, la media nazionale è di 0,6 consultori per 20.000 abitanti (la raccomandazione è 1 ogni 20.000 abitanti), ma si passa da 1,2 dell’Emilia-Romagna e 1,6 della Valle d’Aosta allo 0,3 della Lombardia e 0,4 in Molise, Veneto e provincia autonoma di Trento.
Negli ultimi anni la riduzione dei fondi e del personale che ha coinvolto tutto il servizio sanitario nazionale ha fatto sì che i consultori pubblici in molte Regioni si trovassero a dare la precedenza a interventi urgenti o comunque ambulatoriali, venendo meno alle attività di divulgazione e alla creazione di una relazione continuativa con e tra le utenti.
Non tutti i servizi offerti dai consultori pubblici inoltre sono completamente gratuiti oggi. In alcune Regioni è previsto il pagamento di un ticket per gli esami per le malattie sessualmente trasmissibili, le visite per la menopausa, la consulenza psicologica e alcuni tipi di contraccezione.
Un’altra problematica è l’effettiva integrazione nelle attività del singolo servizio della formazione delle operatrici su alcune tematiche attuali come l’identità di genere e LGBT+, l’interazione con persone straniere che vengono da un diverso contesto culturale, il riconoscimento di tutte le forme della violenza di genere e familiare. Anche questo aspetto risente della differenza regionale.
Infine, il recente emendamento al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) voluto dal governo ha legittimato la presenza delle associazioni contrarie all’aborto nei consultori, che comunque era una realtà già esistente in alcune Regioni, mettendo in pericolo l’autodeterminazione delle donne. Sono i consultori, infatti, ad avere la maggiore percentuale di rilascio di certificati per l’Ivg rispetto ad altri servizi (42,8% come media nazionale, con punte del 73,4% in Emilia-Romagna).
Come spiega la ricercatrice, i consultori “risentono delle disposizioni relative all’obiezione di coscienza. Almeno fino a qualche anno fa e nelle Regioni su cui ho avuto modo di approfondire, il problema non era legato alla presenza di ginecologhe obiettrici di coscienza tra il personale dei consultori, quanto piuttosto al fatto che una massiccia presenza di persone che avevano fatto questa scelta all’interno delle altre strutture pubbliche portava a un aumento di richieste ai consultori da parte delle donne che avevano bisogno di certificati per l’Ivg.”
La necessità di creare nuovi spazi di autorganizzazione e condivisione di saperi
Di fronte a questo quadro, alcuni movimenti femministi e transfemministi hanno iniziato ad aprire consultorie autogestite, ispirandosi al metodo dei consultori femministi degli anni Settanta che hanno preceduto le legge 405. Secondo questi movimenti, infatti, difendere i consultori esistenti e il loro finanziamento è fondamentale; tuttavia, c’è bisogno di creare nuovi spazi che non offrano solo un servizio medico, ma che siano luogo di incontro e di scambio di sapere tra esperte e utenti.
Come possono le consultorie autogestite relazionarsi con il servizio pubblico per spingerlo a migliorarsi e non sostituirsi alle sue mancanze? “Ritengo – afferma Bruna Mura – che spesso la risposta sia insita nel contesto in cui originano queste sperimentazioni, ma soprattutto che non sia possibile dare una risposta univoca o, meglio, che sia proprio parte di queste esperienze lo stare nella contraddizione.
In un territorio in cui i servizi pubblici sono pressoché inaccessibili, una consultoria autogestita potrebbe trovarsi a far fronte a necessità di base che non hanno risposte da altre parti e dunque faticare a trovare il tempo per riflessioni a più ampio raggio. Ma è chiaro che sotto una pressione di questo tipo, anche la lettura dei bisogni del territorio viene fortemente trasformata e allargata. D’altra parte, in territori in cui l’accesso ai consultori pubblici è ancora garantito, il ruolo di una consultoria può essere altrettanto prezioso per costruire alleanze con chi vi lavora e agire sul piano dell’allargamento del servizio o dell’accesso o della qualità di ciò che viene offerto.” (1.Continua)