Dal 9 luglio la squadra navale d’attacco della portaerei cinese Shandong sta operando nel mare delle Filippine, dopo aver attraversato lo stretto di Luzon, fra Taiwan e la principale isola filippina.
La squadra comprende anche l’incrociatore Yan’an, il cacciatorpediniere Gullin, la fregata Yuncheng e la nave supporto Chaganhu.
Precedentemente, ai primi di luglio, una pattuglia navale russo-cinese, composta dalla corvetta russa Sovershenny della flotta russa del Pacifico, dal cacciatorpediniere Yinchuan, dalla fregata Hengshui e dalla petroliera Weishanhu, ha attraversato lo stretto di Osumi, fra la punta meridionale dell’isola giapponese di Kyushu e le isole Osumi, per esercitazioni congiunte nel Pacifico occidentale.
Si tratta di normali esercitazioni in mare aperto, ma attraggono l’attenzione in quanto costituiscono un evento ampiamente considerato dagli strateghi sia americani che cinesi: il superamento della “prima catene di isole”.
Imperialismo tedesco nel XX secolo: “catene di isole” per controllare il mare fra gli arcipelaghi
Teorici e pianificatori militari di Germania, Giappone, Stati Uniti e Cina hanno riflettuto sulla geopolitica delle isole e degli arcipelaghi del Pacifico, sia in tempo di pace che di guerra, concentrando appunto l’attenzione sulle minime terre emerse nell’enorme oceano come potenziali basi militari e di supporto operativo indispensabili per superare la “tirannia della distanza” al fine di permettere operazioni rapide e intense.
L’introduzione di concetti legati alle catene insulari si intreccia con l’affacciarsi della Germania imperiale nel Pacifico all’inizio del XX secolo, una volta acquisite dalla Spagna le isole Marianne e le isole Caroline, compresa Palau: il generale Karl Ernst Haushofer considerava gli “archi di isole al largo” come un utile “velo protettivo” a difesa delle potenze continentali come la Cina e l’India.
L’idea è che il possesso e la militarizzazione di una serie di isole vicine assicura anche il controllo dei bracci di mare fra le isole, creando una potenziale continuità geografica.
Il Giappone e la guerra agli USA
Il Giappone, con l’aumento della sua forza marittima, fra gli anni Venti e Trenta, prestò molta attenzione al valore strategico di isole e arcipelaghi nel Pacifico occidentale.
Durante la prima guerra mondiale, strappò alla Germania il controllo di diverse isole micronesiane. Queste non solo furono utili trampolini di lancio nella “svolta verso Sud” del Giappone, incentrata sullo sfruttamento delle risorse economiche e naturali del Sud-Est asiatico, ma servirono anche come un prezioso cuscinetto strategico, una copertura contro la possibilità che gli Stati Uniti usassero le loro basi a Guam e nelle Filippine per minacciare il Giappone in un futuro conflitto.
All’inizio della seconda guerra mondiale, la marina imperiale giapponese si impegnò in una serie di rapide operazioni di conquista e fortificazione di isole e atolli, con mire estese dalle Salomone fino alle Aleutine, al largo delle coste dell’Alaska.
La guerra degli USA nel Pacifico fu appunto caratterizzata dall’impegno di mantenere le isole già controllate e penetrare nelle catene di isole fortificate tenute dai giapponesi.
USA: contenimento delle potenze comuniste nella Guerra Fredda
Usciti vittoriosi dalla guerra del Pacifico, gli strateghi statunitensi rivolsero presto la loro attenzione all’importanza delle catene insulari nella nascente guerra fredda, per garantire il contenimento delle potenze comuniste asiatiche, l’Unione Sovietica e (l’allora) “satellite” Cina.
Fu in questo periodo che il concetto stesso di “catene insulari” fu sviluppato e definito con chiarezza: uno studio del 1948 dello Stato maggiore congiunto delimita un perimetro difensivo americano che andava dalle isole Aleutine a Nord, attraverso il Giappone occupato, e Taiwan fino alle Filippine a Sud.
Nel 1950 il segretario di Stato Dean Acheson articolò un “perimetro difensivo del Pacifico” che praticamente definì la “prima catena di isole”: inizia dalle isole Aleutine attraversa le Kurili, il Giappone, Okinawa, le Kyukyu, Taiwan, le Filippine e giunge fino all’Indonesia; lunga circa 12 mila km corre a distanze dal continente asiatico da un minimo di 200 km (stretto di Formosa) a circa 1000 km racchiudendo i mari di Bering, Ohotsk, del Giappone e i mari Cinesi orientale e meridionale.
Taiwan: una portaerei inaffondabile nel sistema strategico USA
Taiwan è chiaramente il punto chiave della prima catena; data la sua posizione strategicamente critica a cavallo delle rotte mercantili dei Paesi dell’Asia orientale, controlla le rotte di navigazione chiave che portano dalla prima alla “seconda catena insulare”. Il generale Douglas MacArthur descrisse Taiwan come “una portaerei inaffondabile e una base per sottomarini” in posizione ideale “per una strategia offensiva e allo stesso tempo a garantire operazioni difensive o di controffensiva delle forze amiche.”
L’obiettivo del “congiungimento” di Taiwan alla Repubblica Popolare Cinese non ha solo motivazioni politiche e la finalità di concludere la guerra civile cinese con la definitiva sconfitta del Kuomintang, ma rappresenta soprattutto il cruciale fine strategico di scardinare la catena insulare costrittiva e aprire alla marina cinese le vie del Pacifico.
Gli USA durante la guerra fredda hanno concepito successive linee difensive e di contenimento spostate a oriente; la “seconda catena di isole” parte dal Giappone, passa per le isole Ogasawara, le Marianne settentrionali, Guam, le isole Yap in Micronesia, Palau, fino all’isola Halmanera nelle Molucche; lunga oltre 6000 km racchiude fra 1000 e 2000 km di oceano dalla prima catena e ha “la fortezza” Guam come perno.
Una “terza catena” racchiude un’area di retrovia strategica: parte dalle Aleutine, passa per le Midway, le Hawaii, gli atolli Johnston e Palmyra, l’isola Jarvis, le Kiribati, Samoa e giunge alle isole di Cook (neozelandesi); lunga circa 15 mila km, 5000 km a Est della seconda catena, rimane circa 3000 km lontana dal continente americano.
A sostegno della strategia delle catene di isole, gli Usa hanno acquisito i “territori del Pacifico americano”: permanentemente abitati sono il Commonwealth of the Northern Mariana Islands, Guam e la Samoa americana; mentre sono disabitati i territori “unorganized unincorporated”: le isole Howland, Jarvis e Wake, gli atolli Johnston, Midway e Palmyra, e la barriera corallina Kingman.
Questi territori forniscono agli Usa una zona economica esclusiva nel Pacifico di circa 5 milioni di km quadrati
Le catene insulari nella strategia cinese
Il concetto di catene insulari è stato adottato dalla Cina, con interpretazioni flessibili, sfumate e sfaccettate. Dal punto di vista geografico, gli scritti cinesi offrono definizioni variate delle catene insulari, alcune delle quali sono notevolmente più̀ estese di altre.
La figura mostra appunto un’interpretazione cinese delle prime due catene di isole, molto vicina a quella americana. Inoltre, alcuni analisti cinesi si concentrano più sui passaggi marittimi chiave tra le catene di isole che sulle caratteristiche terrestri.
Le fonti cinesi offrono prospettive diverse sul significato operativo, tattico e strategico delle catene insulari; si tratta in effetti di un quadro più sfaccettato e complesso dello stesso pensiero strategico statunitense.
In particolare, diversi autori cinesi affermano che le catene insulari sono (1) barriere che la Cina deve penetrare per ottenere libertà di manovra nel dominio marittimo; (2) trampolini di lancio per la proiezione di potenza da parte di chi controlla una determinata catena insulare; e (3) punti di riferimento per l’avanzamento della proiezione marittima e aerea cinese nel Pacifico.
In particolare, il secondo concetto vede le catene insulari come facilitatori della proiezione aggressiva di forze straniere contro la Cina.
Certo, l’esatto valore strategico delle catene insulari, e quindi l’enfasi specifica degli strateghi su di esse, è variato in modo significativo in funzione dei cambiamenti della tecnologia e dell’applicazione militare, comprese le armi che si basano su di esse, la loro portata e la possibilità di difenderle e rifornirle.
Nuovo valore strategico per l’espansione cinese e la difesa USA
Oggi, la situazione si sta nuovamente modificando in modo significativo, con l’avvento di sistemi di attacco a più lungo raggio (aerei, missili balistici e cruise antinave e per l’attacco terrestre). Questi sviluppi stanno aumentando drasticamente la portata dei sistemi basati a terra rispetto a quelli navali.
L’attenzione alle catene insulari e al loro potenziale strategico è tornata di attualità negli ultimi tempi per la fase attuale del confronto USA–Cina: accanto alla dimensione strategica globale, cresce l’aspetto “locale” di “confinanti” ostili.
Infatti gli USA si stanno ri-scoprendo Paese insulare oceanico, esposto all’espansione cinese nel Pacifico. Migranti cinesi sono presenti nel Pacifico dal 1700 e integrati con gli isolani, ma attualmente la penetrazione cinese si sta intensificando in una varietà di iniziative economiche e finanziarie, come la Belt and Road Initiative e di accordi diplomatici, comprendenti anche la sicurezza (come con le Salomone e Kiribati).
I “nuovi” migranti cinesi dominano il settore del commercio al dettaglio, industrie come la pesca, il disboscamento e l’estrazione mineraria, nonché i progetti edilizi su larga scala finanziati da prestiti agevolati cinesi.
La penetrazione “entropica” è accompagnata dalla crescita “esplosiva” della marina militare cinese e dello sviluppo di capacità missilistiche a portate medie e intermedie (il Dong Feng-26 è accreditato di una gittata di 4000 km, sufficiente a colpire Guam).
Gli Stati Uniti stanno così potenziando la base di Guam e il Missile Defense Site sull’atollo di Kwajalein (isole Marshall), ma soprattutto rafforzando le alleanze con Giappone, Corea del Sud, le Filippine e l’Australia (in particolare coll’accordo trilaterale AUKUS) e fornendo “garanzie difensive” a Taiwan.
Nel corso del 2023 è stato inoltre raggiunto un Defense Cooperation Agreement con Papua Nuova Guinea e sono stati estesi fino al 2043 i “Compact of Free Association” con la Repubblica delle isole Marshall, gli Stati federati della Micronesia e la Repubblica di Palau. Le tre Nazioni insieme comprendono circa 1000 fra isole e atolli e garantiscono agli Stati Uniti diritti militari esclusivi su ulteriori vaste aree della regione del Pacifico (circa 10 milioni di kmq).
A livello geopolitico, le catene insulari nel Pacifico continuano a svolgere un ruolo strategico per la loro capacità di ospitare strutture militari vitali e, nonostante la loro crescente vulnerabilità alle armi a lunga gittata, esse rimangono considerate insostituibili nella visione dei pianificatori di operazioni belliche.
La prospettiva degli isolani: il Continente blu del Pacifico (the Blue Pacific Continent)
Se i militari vedono del Pacifico essenzialmente gruppi particolari di isole militarizzabili, la visione degli abitanti autoctoni è molto più ampia, profonda e vitale. Le popolazioni del Pacifico presentano una varietà di lingue, culture e storie; tuttavia sono fortemente diffusi concetti caratteristici relativi a una visione circolare del tempo, a specifiche forme di relazionalità e a uno spazio oceanico condiviso e a lungo navigato.
Gli isolani vedono il loro mondo collegato attraverso le persone, la terra e l’oceano; in realtà non distinguono nettamente gli esseri umani e le altre entità, per cui anche animali, piante e spiriti sono “persone” (con coscienza, cultura e linguaggio) in una storia comune.
Il loro universo comprende non solo le superfici terrestri, ma anche i mari circostanti, nella misura in cui possono attraversarli: nella loro prospettiva le isole del Pacifico costituiscono un “mare di isole” piuttosto che “isole in un vasto mare”.
Tutti i popoli del Pacifico hanno in comune un innegabile legame con l’ambiente naturale, le risorse, i mezzi di sussistenza, le fedi, i valori culturali e le conoscenze tradizionali e si riconoscono eredi di una comune storia ed esposti a problematiche comuni.
Il Forum delle isole del Pacifico per un’autonomia culturale e strategica
Ciò̀ ha portato all’istituzione nel 1971 del Forum delle isole del Pacifico (PIF) per la cooperazione politica ed economica degli Stati indipendenti dell’area: Australia, le Isole Cook, gli Stati federati di Micronesia, Figi, Kiribati, le Isole Marshall, Nauru, Aotearoa Nuova Zelanda, Niue, Palau, Papua Nuova Guinea, Samoa, le Isole Salomone, Tonga, Tuvalu e Vanuatu. Dal 2006 sono membri associati la Nuova Caledonia e la Polinesia Francese.
Nel 2017 i leader del PIF hanno introdotto il concetto di “Pacifico blu”, come un impegno di politica estera a lungo termine del Forum, per agire come un unico “continente blu”; la narrativa del Pacifico blu cerca di ridisegnare la regione allontanandola dalla narrazione “metropolitana” di piccola, isolata e fragile a quella di un continente oceanico grande, connesso e importante al fine di passare all’esercizio di una maggiore autonomia strategica.
Nel 2022, i leader del Pacifico hanno approvato la Strategia 2050 per il Continente Blu, un articolato “meccanismo per affrontare le priorità regionali dei popoli del Pacifico.”
Le isole del Pacifico sono al crocevia di molteplici minacce esistenziali. Afflitta da centinaia di test nucleari dal 1946 al 1996, la regione continua a subirne gli effetti intergenerazionali e ambientali, con perdita di terra e di habitat, degrado ambientale, sfollamento delle comunità indigene, ed effetti a lungo termine sulla salute di coloro che sono stati esposti alle radiazioni. Emblematica di questa interconnessione è la pericolante cupola di Runit nell’atollo di Enewetak (Isole Marshall), eretta a contenitore di materiale radioattivo prodotto nei test.
Negli ultimi anni, i Paesi del Pacifico si trovano ad affrontare l’escalation della competizione geopolitica tra Stati Uniti e Cina e il conseguente crescente militarismo. La Strategia 2050 per il Continente Blu affronta le implicazioni della rivalità delle grandi potenze per la sicurezza generale della regione, a evitare che le isole del Pacifico possano essere nuovamente usate come un campo di gioco strategico da parte di competitori dotati ora anche di armi nucleari.
La più grande minaccia è il cambiamento climatico
Ma la più grande minaccia alla sicurezza delle comunità del Pacifico è stata identificata nel cambiamento climatico. Molte isole e le risorse naturali della regione, tra cui le foreste, la pesca e le barriere coralline, sono gravemente minacciate dall’innalzamento del livello del mare, dal riscaldamento delle temperature, dalle tempeste tropicali e dall’acidificazione degli oceani.
Le prospettive per la sicurezza esistenziale del Continente blu hanno quindi una dimensione non affrontabile con tradizionali strumenti militari, e la visione delle catene di isole non solo è assolutamente incompatibile con le esigenze delle popolazioni locali, ma anzi crea problemi addizionali.
Un precedente letterario: La Ballata del Mare Salato di Hugo Pratt
Hugo Pratt nel 1967 presenta una “ballata” ambientata nel Pacifico occidentale del 1914; al di là dell’avventurosa trama coinvolgente una varietà di personaggi, emerge prepotente il ruolo dell’oceano come massimo protagonista con cui si confrontano militari tedeschi, inglesi e giapponesi, avventurieri europei, giovani anglosassoni e co-protagonisti isolani.
Le visuali che i vari personaggi hanno dell’ambiente in cui si muovono e delle popolazioni che vi vivono largamente coincidono con quelle delle corrispondenti figure odierne. I militari sono solo concentrati sul confronto bellico, la ricerca di isole per farne basi e l’attenzione per rifornimenti logistici (carbone); gli avventurieri si comportano come attuali spregiudicati speculatori, per cui vedono il Mondo attraverso le mere prospettive di profitto a ogni costo.
Pratt riesce a cogliere la prospettiva con cui gli isolani vivono il loro ambiente, fatto di isole ma soprattutto di mare e di esseri viventi e delle loro relazioni con un passato davanti agli occhi. Il gran navigatore maoro Tarao affronta un viaggio di centinaia di km da Raro-Raro a Bura-Nea con una piroga, guidato dalle stelle e da Mao, lo squalo amico che “accompagna la mia gente nelle lunghe traversate”. Tarao racconta che “la mia gente è venuta da Pora-Pora in grandi navi fino a una lunga nuvola luminosa che prese forma e consistenza. Era Ao- tea-roa, che voi oggi chiamate Nuova Zelanda”; i maori quindi traversarono larga parte del Te Moana-nui-a-Kiwa meridionale per oltre 4 mila km (circa 38 gradi di longitudine).
Un’ambiziosa visione unitaria dei “popoli del mare” è espressa dal fijiano Cranio che auspica di “ricucire pezzo per pezzo e fare un grande mantello” a comprendere in una grande patria “tutti i popoli del mare, i melanesiani, i polinesiani, i fidji, i samoa, i tonga”.
Di tutti i “bianchi” della ballata, chiusi nella loro visione metropolitana, il solo Corto Maltese, avventuriero sui generis, riesce a cogliere lo spirito dell’Oceano e dei suoi abitanti, come riconosce il melanesiano nuovo re di Raro-Raro (dall’improbabile nome Sbrindolin): “tu hai cercato di essere come noi, e ci sei quasi riuscito… forse ti manca solo una cosa… il colore della pelle.”