Contributi al dialogo – La “forza della verità” per decostruire la narrazione bellicista

Contributi al dialogo – La “forza della verità” per decostruire la narrazione bellicista

La questione del peggioramento delle condizioni della libertà di stampa a livello mondiale – anche nel nostro Paese – è di capitale importanza in un periodo in cui le guerre aumentano di numero e violenza e la menzogna diviene un’arma diffusa e sempre più sofisticata grazie a nuove tecnologie.

Il filosofo Pasquale Pugliese, invitato a “parlare di pace in tempo di guerra” agli Emergency Days di Ferrara, ci propone diversi spunti di approfondimento.


Parlare davvero di pace in tempo di guerra significa non farne retorica, ma – in primo luogo – svelare i diversi livelli di mistificazione. D’altronde, decostruire la narrazione bellicista è già preparare la pace. Come fanno, in ultima istanza, gli obiettori di coscienza di tutti i paesi in guerra, con il loro satyagraha, la fermezza nella verità del rifiuto della doppia morale. Che è anche il fondamento della Campagna di Obiezione alla guerra nazionale e internazionale del Movimento Nonviolento 

La forza della verita’ di Gandhi

Per capire il senso profondo del parlare di pace in tempo di guerra bisogna risalire a Mohandas K.Gandhi il quale – non ritenendo corretta la formula di “resistenza passiva” con la quale veniva indicato dalla stampa britannica il metodo nonviolento, sperimentato dapprima in Sudafrica e applicato successivamente per la liberazione dell’India dall’imperialismo britannico – coniò il neologismo satyagraha, formato dalle parole sanscrite satya (verità) e agraha (fermezza, forza), ossia “fermezza nella verità”, o “forza della verità”. 

“Il suo significato profondo” – scriverà Gandhi in ‘Teoria e pratica della nonviolenza’, nel 1966 – “è l’adesione alla verità. E dunque la forza della verità”. 

Per questo, tra i principi fondamentali del metodo nonviolento, come rielaborati tra l’altro dal filosofo Giuliano Pontara, tra i maggiori esperti internazionali dell’opera gandhiana nel “Saggio introduttivo a M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza”, oltre a non usare la violenza (ossia l’ahimsa, letteralmente il non nuocere), c’è l’attenersi in ogni fase del conflitto alla verità.

Smascherare la menzogna: Capitini come Gandhi

Ma la verità – come diceva Eschilo, o viene a lui attribuito – in guerra è sempre la prima a morire: ne è la prima vittima perché in guerra domina la menzogna, di cui la propaganda bellica, che segue nel tempo consolidati principi applicativi, ne è la declinazione mediatica come afferma Anne Morelli in “Principi elementari della propaganda di guerra”. 

Anche per questo per Aldo Capitini, analogamente a Gandhi, non ci può essere nonviolenza senza nonmenzogna: “Con la nonviolenza riconosciamo il diritto di tutti all’esistenza, con la nonmenzogna il diritto di tutti alla verità (Il potere di tutti, 1969).

E poiché la verità per i greci è aletheia, letteralmente non nascondimento, ossia dis/velamento, la prima operazione da fare per parlare di pace in tempo di guerra è quella di disvelare la verità della guerra dietro alla propaganda bellica, ossia smascherarne le menzogne.

Il calvario di Assange per smascherare gli atroci effetti collaterali della guerra 

La verità, il disvelamento della realtà della guerra, è ciò che il complesso militare-industriale-mediatico teme più di ogni altra cosa: il calvario di Julian Assange, che ha passato dodici anni in cattività – di cui sette nell’ambasciata equadoregna a Londra e cinque nel carcere di massima sicurezza in una cella di due metri per tre – per aver disvelato che cosa sono stati davvero i collateral murders, gli “effetti collaterali” delle guerre di aggressione all’Afghanistan e all’Iraq da parte dei cosiddetti “buoni”, cioè i “nostri” per definizione, è stato un avvertimento a tutta la stampa libera. Importante per ricostruire la sua vicenda il volume di Stefania Maurizi, che si intitola, non a caso, “Il potere segreto. Perché vogliono distruggere Julian Assange”. 

Essa si è potuta concludere con un patteggiamento, nel quale Assange ha dovuto riconoscersi colpevole di una inesistente “associazione a delinquere”, anziché con il carcere a vita, grazie alla mobilitazione internazionale dal basso che ha continuato a tener alta l’attenzione sul suo caso; alla forza della “protesta pacifica”, come la chiama Sara Chessa nel libro “Distruggere Assange”. 

Gaza: uccidere i giornalisti per uccidere la verita’

Il timore della verità da parte dei signori della guerra è dimostrato, inoltre, dagli oltre 120 giornalisti uccisi a Gaza dall’esercito israeliano in questi nove mesi di sterminio dei palestinesi in seguito alla strage del 7 ottobre 2023 (mentre scrivo la rivista scientifica inglese The Lancet indica, come stima prudente di vittime reali, a partire da quelle accertate, tra il 7 e 9% della popolazione di Gaza), al punto che l’inchiesta del consorzio internazionale di giornalisti indipendenti Forbidden stories certifica che essere giornalisti nella Striscia oggi significa essere target, inseguiti e uccisi anche con i droni, per cui è meglio non usare la pettorina identificativa della stampa, perché non salva ma uccide: “Da quando sono stati colpiti, diversi giornalisti hanno detto al Consorzio che ora hanno paura di indossare i loro gilet stampa. Alcuni li tengono nascosti nelle loro borse, indossandoli solo quando le telecamere stanno girando.”

La “scorta mediatica” della stampa italiana

I crimini di guerra israeliani sono inoltre pesantemente coperti dalla “scorta mediatica” della stampa italiana. Emerge nell’atteggiamento dei media nazionali rispetto al massacro palestinese una complice omertà volta ad alleggerire e diluire nei confronti dell’opinione pubblica le responsabilità del governo israeliano, soprattutto se paragonata alla “scorta mediatica” che invece è in corso a sostegno delle vittime civili ucraine dell’occupazione russa. 

Si tratta, nel caso di Gaza, di una “scorta mediatica” ai carnefici, anziché alle vittime – ribaltando il senso di questa espressione che indica la pratica del giornalismo civile che tiene viva l’attenzione su un fatto che non deve essere dimenticato o oscurato – di cui scrive il giornalista Raffaele Oriani in “Gaza, la scorta mediatica”. Agile volume nel quale denuncia il cortocircuito tra la narrazione delle vicende ucraine e di quelle palestinesi, evidenziandone la postura giornalistica  differente: un esempio tra i tanti, lo scorso marzo un editoriale del Corriere della Sera metteva in sequenza “lo scempio inumano di Hamas, la carneficina di Putin in Ucraina, e le operazioni a Gaza di Netanyahu”. 

Si vis pacem para bellum: una formula magica falsa e irrazionale 

Ma oltre alle menzogne sulla conduzione delle guerre, è la legittimazione culturale della guerra in quanto tale – strumento obsoleto di regolazione dei conflitti, soprattutto in epoca nucleare, eppure costantemente alimentato – ad essere fondata sulla menzogna originaria, su una vera e propria formula magica, falsa e irrazionale, ma ripetuta all’infinito a tutti i livelli decisionali e mediatici, nazionali e internazionali: si vis pacem para bellum

Per esempio da Charles Michel, presidente uscente del Consiglio europeo, che anticipava l’esito dell’ultima convocazione dell’organismo da lui presieduto (21 e 22 marzo 2024), con una lettera recapitata a molti quotidiani europei, che si concludeva con questa incredibile formula: “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra”. Pienamente confermata anche al vertice Nato dei 75 anni, svoltosi a Washington il 10 e 11 luglio scorsi, che ha rilanciato massicciamente la già lanciata corsa globale agli armamenti, che significa per il nostro paese l’impegno a raggiungere velocemente il 2% del PIL in spese militari, ossia a trasferire altri 10-12 miliardi all’anno di risorse pubbliche da scuola, università, sanità a welfare all’acquisto di nuovi armamenti. Una riconversione al contrario.

Mai così tante armi, mai così tante vittime e profughi

Eppure non è difficile dimostrare – disvelare, dicendo appunto la verità – che preparare la guerra per avere la pace è una illusione fondata sul pensiero magico, per giustificare il trasferimento alle spese militari, e dunque all’industria bellica, di risorse pubbliche crescentemente sottratte agli investimenti sociali e civili. 

I governi complessivamente non hanno mai speso così tanto per la guerra (2.443 miliardi di dollari nel 2023, dati SIPRI) e i conflitti armati dilagano ovunque (169 sul pianeta nel 2023, di cui 59 coinvolgono Stati, dati UCDT-Uppsala Conflict Data Program), facendo impennare incredibilmente le vittime civili rispetto all’anno precedente (+ 72% nel 2023 rispetto al 2022, dati ONU), con il conseguente dilagare di profughi e rifugiati (117 milioni nel 2023, giunti a 120 milioni nei primi sei mesi del 2024, dati UNHCR). 

Preparando le guerre, dunque, non si ha la pace ma più guerre e più vittime in un perverso circolo vizioso, nel quale vince solo il complesso militare-industriale internazionale.  

Il doppio standard della violenza nei conflitti interpersonali e in quelli internazionali

Inoltre, ad un livello più profondo, questa sacca di pensiero magico incistata ai vertici politico-mediatici serve ad alimentare il consenso delle opinioni pubbliche che devono approvare l’ideologia della guerra, che sta alla base del sistema di preparazione della guerra, o almeno non vedere la contraddizione sulla doppia morale tra la risoluzione dei conflitti interpersonali e quella dei conflitti internazionali. 

La prima fondata universalmente sulla nonviolenza (seppur non sempre applicata) e i dispositivi formativi e giuridici di regolazione pacifica e sanzionamento della violenza; la seconda fondata ancora sulla guerra, attraverso il processo di etificazione della violenza, come afferma Judith Butler, in “Critica della violenza etica”, quando voluta dalla Stato, e sanzionamento del suo rifiuto. Un doppio standard morale che promuove l’etica nonviolenta nei conflitti interpersonali ma il suo repentino disapprendimento e l’etica della violenza nei conflitti internazionali.

One thought on “Contributi al dialogo – La “forza della verità” per decostruire la narrazione bellicista

  1. Mi aspettavo di più da questo articolo.
    L’unico esempio concreto è sui termini usati per definire gli stessi massacri da un giornalista del Corriere.
    Con esempi come quello si può capire e far capire meglio la dimensione del problema, comune nel nostro mondo “occidentale”.
    Saluti e grazie

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