Nel Canto General di Neruda messo in scena dal Centro teatro universitario di Unife risuona l’epica di un oggi lacerato da guerra e oppressioni ma anche l’incontenibile forza della Natura

Nel Canto General di Neruda messo in scena dal Centro teatro universitario di Unife risuona l’epica di un oggi lacerato da guerra e oppressioni ma anche l’incontenibile forza della Natura

“Quando ero giovane, la poesia di Pablo Neruda era una lettura ‘obbligatoria’ per la nostra generazione” afferma Michalis Traistis responsabile dei laboratori del Centro teatro universitario di Unife nel presentare nei giorni scorsi al Teatro universitario di Ferrara lo “studio teatrale” Canto General, tratto dall’omonimo poema epico di Pablo Neruda . “Ora, riletto a distanza di anni, lo si apprezza ancora di più. Non è solamente un grande affresco dell’America latina come fu concepito in quegli anni, ma è diventato, nel tempo della  globalizzazione, il canto di una Storia-Mondo. E oggi colpisce anche in maniera sorprendente il fatto che ci troviamo di fronte a un testo che, per la forza delle immagini e per l’ampiezza dedicata ai temi della Natura, potremmo definire ‘ambientalista’, anche se quando l’opera fu scritta, questo parola non era diffusa”.

La scelta dei testi e il loro montaggio in scena rispondono a questa scelta drammaturgica di rivitalizzare  su un doppio registro contemporaneo l’epos originariamente concepito nel Canto: da un lato la rutilante, primigenia forza della natura  e dall’altro la sofferenza della guerra e dell’oppressione. 

“Algunas bestias”, è un testo esemplare del registro che pone al centro la Natura. Un senso di energia primordiale e l’intima interconnessione delle  forme polimorfe della vita animano una sfavillante rappresentazione della foresta pluviale amazzonica al crepuscolo: la lingua dell’iguana guizza rapida e appuntita, le formiche avanzano come una lunga  litania nel verde e gli zoccoli dorati del guanaco lasciano una scia nel crepuscolo (“Era il crepuscolo dell’iguana/dall’iridescente cresta/la sua lingua come un dardo/sprofondava nel verde/il monacale formicaio pestava/con melodioso piede la selva/il guanaco leggero come l’ossigeno/nelle vaste oscure alture andava calzando stivali d’oro”), mentre l’elusivo giaguaro e l’inseguimento infuocato del puma creano un’atmosfera di bellezza e pericolo (il giaguaro sfiorava le foglie/con la sua assenza fosforescente/il puma corre nelle fronde come il fuoco divoratore).

(foto ©Andrea Casari)

“Sicuramente – afferma il programma di sala rispetto all’altra tematica, quella della sofferenza dei popoli e della guerra – [ il Canto] ha agito da detonatore di una riflessione sul presente che attanaglia uomini e donne di ogni età . Un presente in cui gli aspetti della guerra non solo sono memorie vissute o, nel caso dei giovani, racconti ascoltati o letti, ma immagini di atrocità e desolazioni, di abbandoni e miserie, di macerie in ogni luogo, di pianti e di silenzi strazianti.”

Ma i due piani – quello della natura e quello della sofferenza nell’oppressione – sono destinati a fondersi nella potenza immaginifica di una poesia che, attingendo creature, immagini e simboli dalla  forza ciclopica della  natura sgorgata dal caos primordiale, canta quella stessa forza primigenia come la  linfa che  alimenta nel popolo la sopportazione della sofferenza, la lotta indomita e la rinascita. 

In “Amor América”, Neruda riconnette in modo emblematico il piano della storia drammatica del  continente latinoamericano all’essenza profonda della sua identità “naturale”. Il testo si apre con lo scenario simbolico di un tempo mitico:  “prima della parrucca e della casacca/ furono i fiumi, fiumi arteriosi/ furono le cordigliere sulle cui onde impetuose/ il condor e la neve apparivano immobili/ fu l’umidità e la fitta boscaglia, il tuono/ancora senza nome, la pampa planetaria”, dove la parrucca aristocratica e la casacca delle uniformi coloniali sono metonimie dell’influenza coloniale ed europea in America latina, giunte a stravolgere la vasta immobilità di un tempo ancestrale.

(foto ©Andrea Casari)

Se, in questo senso, Neruda è stato allora il poeta cosmico dell’America latina, oggi  la sua poesia è un’occasione per ritrovare nel mondo globalizzato un Noi che ridà “fiducia e speranza in ciò che ancora si può fare per cambiare”.

Così le spettacolo chiude con Oda a la paz, il canto alla pace universale e senza tempo “Sia pace per le aurore che verranno,/ pace per il ponte, pace per il vino, pace per le parole che mi frugano  più dentro/ e che dal mio sangue risalgono/legando terra e amori con l’antico canto” e il poeta si congeda – come gli attori sulla scena – con questo compito che ora tutti siamo chiamati ad assolvere “ Io non voglio che il sangue/ torni ad inzuppare il pane, i legumi, la musica:/ ed io voglio che vengano con me/ la ragazza, il minatore, l’avvocato, il marinaio, il fabbricante di bambole/ e che escano a bere con me il vino più rosso./ Io qui non vengo a risolvere nulla./ Sono venuto solo per cantare/e per farti cantare con me”

(foto ©Andrea Casari)

In una regia essenziale che privilegia la forza della parola sottolineata da pochissimi tratti gestuali interpretati dai giovani allievi del Laboratorio, la messa in scena enfatizza ancor più la carica emotiva del testo accompagnandone  la lettura con la musica dell’oratorio composto da Mikis Theodorakis sul Canto General.  E quando calano le luci di scena, sugli ultimi versi dell’Oda, alle spalle degli attori non restano appese a un filo sottile che le parole del Canto

(foto ©Andrea Casari)

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