Dopo quattordici anni Julian Assange è di nuovo libero: a dare la notizia WikiLeaks e Stella Moris, moglie del giornalista. Dopo lunghe trattative con il Governo degli Stati Uniti, Assange lascia la prigione londinese di Belmarsh. Il prezzo da pagare? Dichiararsi colpevole dei reati contestati, pur non avendoli mai commessi.
L’ultima svolta nella tormentata vicenda era arrivata lo scorso mese, quando l’Alta corte di Londra aveva fermato l’estradizione concedendo il diritto a un ulteriore ricorso, a causa soprattutto dei timori rispetto a un giusto processo negli Stati Uniti.
Nella mattina del 24 giugno, dopo 1.901 giorni di detenzione e una mutevole serie di accuse alcune delle quali cadute nel tempo, il giornalista ha lasciato la più dura prigione del Regno Unito e potrà tornare nel suo Paese d’origine, l’Australia. Non prima di aver toccato il suolo americano: l’aereo partito da Londra lo porterà infatti nelle Isole Marianne settentrionali, per comparire di fronte a un giudice e chiudere il patteggiamento.
Il presidente Joe Biden aveva già accennato a questa possibilità, probabilmente in vista delle imminenti elezioni politiche a cui si avvia godendo di scarsa popolarità presso alcuni settori dell’opinione pubblica democratica a causa del ruolo americano nei conflitti. Inoltre, l’attivismo e l’attenzione mantenute in questi anni dalle associazioni umanitarie e dall’opinione pubblica, ma non dalla maggioranza dei grandi media internazionali (anche di quelli che con WikiLeaks avevano collaborato), hanno avuto un ruolo fondamentale nella sua liberazione.
Il calvario di Assange: con lui, su quell’aereo, la sua e la nostra libertà
Julian Assange, lo ricordiamo ancora una volta, è stato privato della sua libertà per aver rivelato crimini di guerra e torture commesse dal potere – in particolare (ma non solo) con la pubblicazione del video Collateral Murder nel 2010, dove si vedono soldati americani che uccidono un gruppo di civili disarmati, tra cui due giornalisti di Reuters.
In questi anni di mobilitazione internazionale – che, come abbiamo finalmente visto, ha dato i suoi frutti – la figura di Assange ha finito per diventare l’emblema della vittima dell’attacco alla libertà di stampa in un Mondo in cui è sempre più minacciata proprio da chi dovrebbe tutelarla, cioè le autorità politiche, e aumenta il numero di giornalisti uccisi o incarcerati.
Giornalismo scientifico basato sui dati, intelligenza artificiale e fake
Ma il lavoro suo e di WikiLeaks è qualcosa di più e di molto diverso da una strenua difesa della libertà di informazione. Sotto quell’etichetta di hacker con cui molta stampa oggi frettolosamente lo classifica, ci sono un metodo e una capacità di fare giornalismo che si sono perduti o che non si riescono a riattivare nelle modalità adeguate alla complessità che il sistema della (dis)informazione ha raggiunto.
L’esplosione dell’Intelligenza artificiale, che l’Europa sola si propone di controllare, senza sufficiente attenzione però ai diritti, e le tecniche sempre più sofisticate di diffusione delle fake news necessiterebbero oggi di una analoga – ma assai diversa e superiore – capacità di “aprire i file” come quella che a suo tempo WikiLeaks mise in campo.
Oggi il data journalism è diventato un po’ un sottosettore per nerd in grado di produrre visualizzazioni accattivanti, magari da vendere a qualche soggetto istituzionale, mentre inutilmente ci chiediamo chi e cosa “c’è dietro” ai tanti misteri di queste ultime guerre certi che le ipotesi avanzate da una stampa sempre più debole sono solo, appunto, ipotesi e che solo un approccio di accesso ai file, verifica incrociata delle informazioni e pubblicazione delle stesse sia l’unico strumento che abbiamo oggi come allora per conoscere la verità.