La salute dei giovani transgender, argomento da trattare con gentilezza e competenza scientifica, è diventata ostaggio di una politica che ha abdicato al dibattito pubblico informato per la tifoseria ideologica senza argomentazioni.
Altrove abbiamo cercato di spiegare i termini essenziali della questione: dalla discussa e discutibile definizione di disforia di genere alla funzione e funzionamento dei farmaci impiegati (triptorelina), dalla posizione delle associazioni di medici e attivisti a quella del Governo.
Il contributo al dialogo che segue si allontana prospetticamente dagli schieramenti politici, senza trascurarne lo specifico, per analizzare, dal punto di vista di una esplicita scelta militante, una generalizzata deriva di patologizzazione delle persone trans* e di esclusione dai diritti alla salute anche a causa dell’impostazione fortemente binaria degli strumenti amministrativi della sanità pubblica.
Negli ultimi mesi stiamo assistendo a un attacco ai già pochi diritti trans* in Italia, che vanno a colpire la comunità tutta a partire dallo strumento retorico dei bambini. Il discorso politico, di destra e di sinistra, pone spesso al centro dei suoi modelli ideologici la figura di un bambino, un bambinx che non è reale ma sottomette la loro idea di futuro (Edelman, 2004). Proprio dalle persone piccole parte a dicembre 2023 l’offensiva dell’estrema destra con l’On. Gasparri che ha depositato un’interrogazione parlamentare che attaccava la struttura medico-ospedaliera del Careggi di Firenze, una delle poche realtà in Italia che prende in carico persone trans* giovani e adolescenti.
L’interrogazione aveva al centro le terapie ormonali e una presunta assenza di servizi psicologici e psichiatrici a supporto delle persone giovani e delle loro famiglie. A seguire è stata effettuata un’ispezione al Careggi, i cui esiti ufficiali confermano una virata verso una sempre maggiore patologizzazione delle persone trans*. È degli ultimi giorni la notizia che sono state bloccate le prescrizioni di triptorelina, è stato richiesto un nuovo riesame dell’AIFA e che presto ci sarà una nuova valutazione del comitato di bioetica.
La retorica di protezione dell’infanzia non è nuova per la destra e le ultra-destre, con un linguaggio paternalista, patologizzante e infantilizzante. Il Careggi è attaccato perché forse è il centro con un approccio più solidale e meno patologizzante ai percorsi di affermazione di genere. Questo si iscrive in un quadro più vasto che vede lo smantellamento dei servizi pubblici rispetto al diritto alla salute delle persone trans* da parte delle ultra-destre conservatrici in stretta alleanza con le TERF (trans exclusionary radical feminists).
Occorre forse specificarlo: non vengono somministrati ormoni alle persone trans* giovani o adolescenti, ma nei casi in cui si ritiene necessario e su richiesta della stessa persona coinvolta, con un supporto psicologico e psichiatrico, vengono forniti i cosiddetti sospensori della pubertà. L’obiettivo dei farmaci sospensori non è una transizione precoce irreversibile, né ovviamente la “castrazione chimica”, ma dar loro tempo per poter effettuare scelte più mature e ponderate in seguito, tra cui anche quella di non effettuare alcuna terapia ormonale.
La somministrazione dei sospensori in adolescenza può consentire alle persone giovani di genere non conforme di evitare lo sviluppo di disturbi dell’ansia, depressione, stress, difficoltà psicologiche e pensieri suicidari. In Italia sono attualmente solo due i centri che prendono effettivamente in carico le persone giovani.
La retorica patriarcale della castrazione chimica e gli ostacoli all’interruzione della gravidanza per le persone trans*
Per altro la retorica patriarcale della castrazione chimica è particolarmente violenta, dal momento in cui fino al 2015 (ma di fatto fino al 2018) la sterilizzazione era un passaggio obbligatorio per le persone trans* che volevano accedere a rettifica anagrafica dei documenti, attraverso isterectomia e orchiectomia.
Il diritto alla riproduzione delle persone di genere diverso è stato cancellato a partire da un’imposizione coercitiva che ha sterilizzato generazioni e generazioni. Anche per questo, forse, il tema emerge solo in questi ultimi anni.
Un esempio è il caso mediatico di Marco, il ragazzo che ha scoperto di essere incinto durante gli esami di controllo per l’isterectomia. Il dibattito che ne è seguito è stato violento e sopprimente dei diritti riproduttivi delle persone trans*. Nonostante non ci siano ricerche mediche in tal senso, le persone trans* possono riprodursi. Mentre per le donne cis la gravidanza viene di fatto obbligata ostacolando pratiche abortive, per le persone trans* l’interruzione di gravidanza viene data per scontata come unica opzione.
La nostra attuale legge a tutela della maternità, la 194, riporta ovunque solo il termine donna e, una volta, addirittura quello di madre.
Ad avere un utero e a voler dunque eventualmente ricorrere a IVG non sono solo le donne: ci sono gli uomini trans* e le persone trans* nonbinarie.
Tuttavia il diritto alla salute non menziona l’esistenza trans* con la conseguenza diretta che di fatto è inaccessibile attraverso il sistema nazionale sanitario se non con pochissime eccezioni di natura discrezionale.
Un esempio è l’accesso ai consultori, già pesantemente sotto attacco dal governo – di fine aprile un provvedimento che consente in pratica l’accesso e il finanziamento di associazioni “per la vita” a questi spazi – che risulta molto spesso impraticabile.
Il sistema sanitario attraverso lo strumento dei software è fortemente binario: una persona con una M sui documenti non può accedere ai servizi sanitari essenziali (LEA) come un pap test, così come arriva automaticamente il richiamo per farli a una persona con una F, non importa se un utero ce lo abbia oppure no.
Il discorso si inserisce in un quadro più ampio di attacchi alla salute trans* anche rispetto a un altro farmaco per la terapia sostitutiva ormonale, il Sandrena, declassato recentemente con delibera AIFA da classe A a classe C e di fatto più che raddoppiando il suo costo per chi, per qualsiasi motivo, non è seguito dagli ambulatori endocrinologici pubblici.
Il Sandrena è uno dei farmaci estrogenici di più ampio uso nell’ambito dei percorsi ormonali di affermazione di genere delle persone transfem*.
Un’impostazione patologizzante e psichiatrizzante… bipartisan
Ad attaccare la comunità trans* non sono solo le ultra-destre e le destre. A tutto questo si aggiungono gli atti depositati alla camera dall’On. Zanella cofirmato dall’On Madia, a cui ha fatto seguito un successivo atto dell’On. Piccolotti. Il primo, a cui sono seguite al momento due audizioni parlamentari, è profondamente lesivo. L’atto pone la richiesta di definire “in tempi rapidi linee guida su disforia o difformità di genere, attraverso l’apporto di équipe multiprofessionale e multidisciplinare”.
Il linguaggio di questo documento segna subito una postura politica che appare disinformata e violenta verso le persone trans* e il loro diritto alla salute, diritto che dovrebbe essere garantito loro come a chiunque.
Innanzitutto, pone come tema di discussione la disforia di genere. Si tratta di una terminologia della psichiatria per identificare il profondo stato di malessere che una persona trans* può vivere.
La disforia è un termine patologizzante, che ci riconduce a una condizione di malattia, e psichiatrizzante. A questo si aggiunge l’espressione “difformità di genere” che non trova nessun riscontro né nel dibattito ampio, né in quello medico-scientifico risultando ancora più offensivo e violento.
Aprire un discorso sulla salute trans* a partire dalla disforia lo inquadra in ottica transnegativa e parte dal presupposto che le persone di genere diverso sono soggetti malati e che lo Stato se ne debba occupare a partire da questo presupposto. Si parla piuttosto di incongruità di genere rispetto a un modello affermativo che, in teoria, l’Italia dovrebbe adottare.
Il modello affermativo sostanzia un approccio positivo, non stigamatizzante, secondo cui le persone trans* possano autodeterminarsi tale che l’accesso a percorsi di affermazione di genere, che passa attraverso l’intervento di tribunali e psichiatri, sia meno invalidante e violento.
È proprio il modello affermativo italiano a essere attaccato in questi ultimi mesi, un approccio che tuttavia non si riscontra nelle strutture preposte (con un paio di lodevoli eccezioni) e che nasconde una ulteriore stretta ai già pochi diritti trans* non solo a livello normativo, ma anche rispetto allo sguardo sociale. Uno sguardo che vuole essere deumanizzante, pietoso e medicale.
Gli audit che si sono succeduti per discutere l’atto sono ad oggi due e hanno visto gli interventi di diverse figure professionali tra cui quello della bioeticista Giulia Bovassi che, in un cherry picking di fonti scientifiche, riprende un discorso psichiatrizzante delle persone trans*. Le sue riflessioni si concentrano sul tema di un corpo sano che, citandola, vuole essere mutilato. Infatti afferma: “[dal punto di vista] etico invalidare in modo permanente una corporeità normofunzionante, normodotata, genera un enorme problema che riguarda la medicalizzazione dell’esistenza sia sulla natura e i limiti e gli scopi dell’arte medica”. A seguito è stata costituita una maxi-commissione per la scrittura di linee guida italiane sui percorsi di affermazione di genere composta da alte cariche politiche, pochi esperti sul tema e nessuna realtà o soggettività trans*.
La risposta della comunità trans*
La comunità trans* risponde facendo rete dal basso, creando relazioni e provando a difendere i pochi diritti acquisiti attraverso competenze, professionalità ed esperienze. Mentre le associazioni – come Genderlens, Libellula, MiT, Gender X – provano anche un difficile dialogo con le istituzioni oltre a fornire servizi che altrimenti sul territorio non ci sarebbero, le collettive e realtà dal basso sono organizzate in reti di auto-aiuto, mobilitazioni, casse di solidarietà e azioni di contrasto.
Su Roma, ad esempio, è nato un percorso comune che forse per la prima volta vede in dialogo associazioni e percorsi dal basso della rete trans* e si è mossa in una mobilitazione il 18 maggio su Roma, per attraversare le strade con i nostri corpi e reclamare il diritto ad esistere. Un’iniziativa a cui hanno partecipato tutte e tutti, come individui o come realtà alleate e transfemministe. È necessario cambiare lo sguardo su quello che sta avvenendo e fare proprio il presupposto che se toccano una comunità minorizzata, stanno toccando chiunque.