Nel nostro Paese la situazione sul fronte sanitario, legata anche all’aumento della povertà assoluta, è sempre più critica: “le disuguaglianze sociali nell’accesso alle cure e l’impossibilità di far fronte ai bisogni di salute con risorse proprie rischiano di compromettere la salute e la vita dei più poveri, in particolare nel Mezzogiorno, dove l’impatto sanitario, economico e sociale senza precedenti rischia di peggiorare ulteriormente con l’autonomia differenziata” afferma Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, a commento degli ultimi dati.
Secondo Gimbe, infatti, il Documento di economia e finanza 2024 in forma semplificata da poco approvato “ignora il pessimo stato di salute del Servizio sanitario nazionale (Ssn) i cui principi fondamentali di universalità, uguaglianza ed equità sono stati traditi.”
Spesa sanitaria e Pil: Italia tra i Paesi peggiori di Europa e G7
In rapporto al Prodotto interno lordo (Pil), nel 2023 la spesa sanitaria si è ridotta di 555 milioni di euro rispetto all’anno precedente (dal 6,7% al 6,3% del Pil). Per il 2024 si prevede un rialzo, che però è in qualche modo illusorio: il rapporto spesa sanitaria-Pil sale al 6,4% e la spesa sanitaria cresce del 5,8% (oltre 7,6 miliardi di euro in termini assoluti), ma si tratta soprattutto di spostamenti di spesa per rinnovi contrattuali precedenti e anticipi su quelli dei prossimi anni. Non, quindi, di nuovi investimenti.
Nel prossimo triennio, poi, il rapporto con il Pil si riduce nuovamente al 6,2% (2027), mentre la spesa sanitaria salirà di +1,8%.
Tuttavia questi dati vanno contestualizzati. Dal 2012, infatti, la spesa sanitaria in termini assoluti è quasi sempre aumentata, mentre il rapporto spesa-Pil è in costante calo e questo colloca l’Italia tra i primi Paesi poveri dell’Europa e ultima tra quelli del G7. Perseverare nel definanziamento del settore aumenterà queste distanze e affonderà definitivamente il Ssn.
Spesa out-of-pocket: il nostro sistema sanitario è ormai misto
A ciò si aggiungono i dati sulla cosiddetta spesa sanitaria “out-of-pocket”, cioè quella sostenuta direttamente dalle famiglie, che nel 2022 hanno speso oltre 64 euro in più (circa 1.362 euro a famiglia contro i 1.298,04 del 2021).
Dunque nel 2022 la spesa sanitaria totale è stata per tre quarti pubblica (75,9%) e un quarto privata (21,4% di out-of-pocket e 2,7% intermediata da fondi sanitari e assicurazioni).
Secondo i canoni dell’Organizzazione mondiale della sanità, questo è da considerarsi un sistema misto perché la spesa delle famiglie supera il 15%. E questa quota è in crescita costante (poco più di 5 milioni di euro dal 2012).
Non si tratta tuttavia di un indicatore completamente affidabile per valutare le tutele pubbliche, in quanto è legato a diverse variabili come qualità dei servizi sanitari pubblici, capacità di spesa delle famiglie, consumismo sanitario e l’eventuale rimborso da parte di fondi e assicurazioni. Ai primi posti per spesa out-of-pocket si collocano infatti le Regioni più ricche e/o con servizi sanitari di maggiore qualità: ciò significa che da un lato alcune famiglie spendono anche per servizi inutili, mentre altre non possono permettersi nemmeno le prestazioni necessarie.
Sempre più persone rinunciano alle visite: a rischio i più fragili
Infatti, nel 2022 oltre 4,2 milioni di famiglie (16,7%) hanno dichiarato di aver limitato le spese mediche in visite e accertamenti e le percentuali maggiori si trovano nelle Isole e al Sud.
Dall’altro lato, oltre 4,3 milioni di persone hanno rinunciato a visite ed esami pur avendone bisogno: la percentuale è del 7%, un dato inferiore al periodo pandemico (nel 2021 si era raggiunto l’11,1%) ma comunque maggiore rispetto al 2019 (6,3%). Le motivazioni sono di carattere economico (circa 1,9 milioni di persone), difficoltà di accesso alle strutture e lunghi tempi di attesa mentre le differenze regionali e tra macro-aree sono tendenzialmente contenute.
Questi dati non possono infine prescindere da quelli sulla povertà assoluta, salita dal 7,7% del 2021 all’8,3% del 2022 (quasi 2,1 milioni di famiglie), con incremento su tutto il territorio nazionale. Tale crescita condiziona notevolmente la rinuncia alle cure, il peggioramento della salute e la riduzione dell’aspettativa di vita delle persone più fragili.
Invecchiamento e lavoro domestico: servono più tutele
Infine, il lavoro domestico: secondo il Censis le tutele del welfare sono sempre più fragili a fronte delle sfide future. Se nel 2023 le pensioni hanno rappresentato oltre la metà della spesa per prestazioni di protezione sociale, l’andamento demografico attesta tuttavia un forte aumento delle persone over 65 (dal 9,5% del 1961 al 24% di oggi, con previsioni del 34,5% nel 2050) e un calo della popolazione in età lavorativa.
Questo si traduce in un crescente rischio di collasso sociale. Il lavoro domestico di cura di anziani e malati è divenuto il meccanismo di protezione sociale più diffuso, anche se a carico delle famiglie, anziché essere una forma di supporto. Per questo le famiglie chiedono almeno la deducibilità del suo costo: chi assiste familiari anziani o non autosufficienti denuncia infatti la mancanza di riconoscimento economico per il caregiver (16,4%) e, dato altrettanto grave, di aver dovuto abbandonare o trascurare il proprio lavoro (8,1%).