Settant’anni fa, nell’aprile 1954 iniziava a Ginevra la conferenza “per l’unificazione e la pacificazione della penisola coreana” a concludere la guerra in Corea, iniziata il 25 giugno 1950 con l’invasione della Corea del Sud (ROK) da parte della Corea del Nord (DPRK) con truppe “volontarie” cinesi. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite condannò l’azione della DPRK e autorizzò l’invio di forze armate in Corea per respingere l’invasione sotto un “Comando delle Nazioni unite” (a guida nordamericana). Un anno dopo il fronte si era stabilizzato attorno al 38mo parallelo, che divideva la DPRK dalla ROK prima dell’invasione a seguito dell’accordo fra URSS e USA sulla linea di demarcazione delle zone ove le due potenze avrebbero raccolto la resa dei giapponesi. La situazione di stallo indusse i comandi militari delle forze combattenti a iniziare negoziati per un armistizio, che venne firmato il 26 aprile 1953.
Alla conferenza di Ginevra, dopo delicati e complessi negoziati diplomatici sulle modalità formali e procedurali, parteciparono i 16 Paesi delle forze internazionali combattenti e l’URSS, la Cina “popolare” e la DPRK; la conferenza si svolse sotto la presidenza alternata dei ministri degli esteri inglese (Antony Eden), russo (Vyacheslav Mikhaylovich Molotov) e Tailandese (il principe Wa) e si concluse il 20 luglio con un nulla di fatto, per l’irriducibile volontà di entrambe le parti di assicurarsi il controllo totale del paese.
Mentre la conferenza ginevrina è fallita e persiste formalmente lo stato di guerra (tanto che il Giappone continua tuttora a mantenere sette basi di supporto a disposizione delle forze ONU che avessero ad impegnarsi in operazioni belliche in Corea), l’armistizio rimane di fatto tutt’oggi in vigore e nel corso degli anni ha permesso a ROK e DPRK di convivere senza una guerra maggiore in un’alternanza di forme di rapporti e prospettive.
Negli ultimi tempi da più parti si sentono voci di una possibile “coreanizzazione” del presente conflitto ucraino; per comprendere fino a che punto l’armistizio coreano possa ispirare azioni nella presente situazione e cosa esattamente esso comporti, una sua rilettura si rende necessaria.
L’armistizio militare coreano
I colloqui faccia a faccia per l’armistizio iniziarono il 10 luglio 1951 a Kaesong, una città della Corea del Nord vicino al (precedente) confine con la ROK. I due principali negoziatori furono il generale Nam II, capo di stato maggiore dell’esercito nordcoreano, e il viceammiraglio statunitense Charles Turner Joy. 159 sessioni plenarie e oltre 500 riunioni a livello operativo si resero necessarie per sciogliere le tre questioni principali: 1. individuazione della linea di demarcazione militare e la definizione di una zona demilitarizzata; 2. accordi specifici per il cessate il fuoco e la creazione un’organizzazione per la supervisione dei termini dell’armistizio; 3. il rilascio e il rimpatrio dei prigionieri di guerra.
L’“accordo tra il comandante in capo del Comando delle Nazioni unite, da un lato, e il comandante supremo dell’esercito popolare coreano e il comandante dei volontari del popolo cinese, dall’altro, riguardante un armistizio militare in Corea” fu infine firmato da Kim II Sung e Mark W. Clark e divenne operativo il 27 luglio 1953.
Il documento finale, in 93 punti per una quarantina di pagine, comprende un sintetico preambolo e cinque articoli oltre a un annesso con “termini di riferimento per la Commissione delle nazioni neutrali per il rimpatrio” e un “accordo temporaneo supplementare all’accordo di armistizio”.
Nel preambolo si precisa che i comandanti dei due eserciti “nell’interesse di fermare il conflitto coreano, con il suo grande tributo di sofferenza e spargimento di sangue da entrambe le parti, e con l’obiettivo di stabilire un armistizio che assicuri la completa cessazione delle ostilità e di tutti gli atti di forza armata in Corea fino al raggiungimento di una soluzione pacifica finale, convengono individualmente, collettivamente e reciprocamente di accettare e di essere vincolati e governati dalle condizioni e dai termini dell’armistizio stabiliti nei seguenti articoli e paragrafi, che intendono essere puramente militari e riguardare esclusivamente i belligeranti in Corea”, sottolineando quindi l’estraneità delle autorità politiche al raggiungimento e alla regolamentazione dell’armistizio.
Una soluzione territoriale basata sulla situazione militare
Il primo articolo fissa la linea di demarcazione militare e stabilisce una zona demilitarizzata ampia 4 km fra le opposte forze, “come zona cuscinetto per evitare il verificarsi di incidenti che potrebbero portare alla ripresa delle ostilità”. Vengono definite le norme di comportamento e le responsabilità nella zona demilitarizzata, preclusa anche ad attività civili. La linea di demarcazione, lunga circa 248 km, taglia la penisola da mare a mare; è prossima al 38mo parallelo, ma non segue confini amministrativi politici o storici, basandosi solo sulle caratteristiche geografiche e orografiche di rilevanza militare.
Il secondo articolo sulle “disposizioni concrete per il cessate-il-fuoco e l’armistizio” fissa i tempi per la cessazione delle ostilità̀, il ritiro delle forze, armamenti e materiali dalla zona demilitarizzata, e presenti sull’“altro lato”; individua le autorità̀ per le amministrazioni civili e la gestione dei cimiteri; impone la cessazione di invio in Corea di rinforzi e nuove armi di ogni tipo, a parte rotazione e turnazioni.
Vengono costituite una Commissione militare d’armistizio (composta di 5 alti ufficiali di ciascuna delle due parti) con “la missione generale di supervisionare l’attuazione del presente Accordo di armistizio e di risolvere per via negoziale eventuali violazioni”, e una Commissione di supervisione di Nazioni neutrali (composta da 4 ufficiali “senior” di Svezia, Svizzera, Polonia e Cecoslovacchia), con il compito di “svolgere le funzioni di supervisione, osservazione, ispezione e indagine, e di riferire i risultati alla Commissione militare di armistizio.” L’articolo precisa funzioni, privilegi, regole, sedi, procedure e norme operative delle due commissioni.
I prigionieri di guerra
L’articolo III “arrangiamenti relativi ai prigionieri di guerra” presenta “le disposizioni concordate da entrambe le parti per il rimpatrio di tutti i prigionieri di guerra tenuti in custodia da ciascuna parte”. La questione dei prigionieri di guerra si rivelò particolarmente delicata: la Cina e la DPRK insistevano per il rimpatrio di tutti i prigionieri di guerra. Le interviste americane e alleate ai prigionieri di guerra cinesi e nordcoreani rivelarono che la maggior parte di essi non voleva essere rimpatriata, creando un dilemma pratico ed etico sul rimpatrio forzato.
L’articolo prevede che “entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente Accordo, ciascuna delle due parti dovrà̀, senza opporre alcun ostacolo, rimpatriare direttamente e consegnare in gruppi tutti i prigionieri di guerra sotto la propria custodia che insistono per il rimpatrio alla parte a cui appartenevano al momento della cattura”.
Per il coordinamento e la supervisione dei piani specifici di entrambe le parti per il rimpatrio dei prigionieri di guerra viene creato un Comitato ad hoc; squadre congiunte della Croce rossa composte da rappresentanti delle Società nazionali della Croce rossa dei Paesi coinvolti sono chiamate ad “assistere l’una e l’altra parte, mediante l’esecuzione di servizi umanitari necessari e desiderabili per il benessere dei prigionieri di guerra”.
Per garantire che tutti i prigionieri di guerra avessero la possibilità di esercitare il loro diritto al rimpatrio, venne istituita una Commissione di Nazioni neutrali per il rimpatrio (di cinque membri nominati dai Governi di Svezia, Svizzera, Polonia, Cecoslovacchia e India e diretta dal generale indiano K.S. Thimayya) cui affidare la custodia in Corea dei prigionieri di guerra che, mentre erano sotto la custodia delle potenze detentrici, non hanno esercitato il loro diritto al rimpatrio, “per la loro disposizione in conformità con i criteri dell’allegato”.
Da ultimo si istituisce un Comitato per l’assistenza al ritorno dei civili sfollati, “responsabile, sotto la supervisione e la direzione generale della Commissione militare di armistizio, del coordinamento dei piani specifici di entrambe le parti per l’assistenza ai suddetti civili e della supervisione dell’esecuzione da parte di entrambe le parti di tutte le disposizioni del presente Accordo relative al ritorno dei suddetti civili”.
Prima delle disposizioni finali, l’articolo IV contiene “raccomandazioni ai Governi interessati di entrambe le parti”; gli Stati Uniti, sebbene avrebbero preferito che l’armistizio si occupasse esclusivamente di questioni militari, acconsentirono all’insistenza cinese e nordcoreana per una conferenza politica, insistenza motivata forse per ottenere legittimità in un momento in cui gli Stati Uniti e le Nazioni unite consideravano ancora la Cina nazionalista come unica rappresentante della popolazione cinese.
“Al fine di assicurare la soluzione pacifica della questione coreana, i comandanti militari di entrambe le parti raccomandano ai Governi dei Paesi interessati che, entro tre mesi dalla firma e dall’entrata in vigore dell’Accordo di armistizio, si tenga una conferenza politica di livello superiore con la partecipazione di rappresentanti nominati da entrambe le parti, per risolvere per via negoziale le questioni del ritiro di tutte le forze straniere dalla Corea, della soluzione pacifica della questione coreana, ecc.”
Si può quasi vedere nell’“ecc.” l’impazienza degli ufficiali militari di non impantanarsi nella diplomazia dopo aver lavorato così a lungo per risolvere gli elementi militari dell’armistizio: l’“eccetera” avrebbe dovuto venir risolto in seguito.
L’Accordo è un unicum diplomatico perché, pur essendo firmato dai soli comandanti militari e non ufficialmente riconosciuto dalle autorità politiche dei Paesi coinvolti, è stato formalmente adottato dall’Assemblea generale dell’ONU il 28 agosto 1953 e rimane l’unico meccanismo giuridicamente vincolante che mantenga la pace, seppur precaria, nella penisola, come riconosciuto nell’Accordo sulla riconciliazione, non-aggressione, scambi e cooperazione, raggiunto nel 1991 fra le due Coree.
Una possibile opzione per la guerra in Ucraina?
I due conflitti hanno effettivamente elementi analoghi: anche quello ucraino comporta certamente un “ grande tributo di sofferenza e spargimento di sangue da entrambe le parti” e gravissime distruzioni di beni e mezzi di produzione civili, con un enorme numero di profughi e persone dislocate. Inoltre, dopo più di due anni di combattimenti, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si è arenata in un’impasse sanguinosa.
Entrambi i Paesi continuano a spendere ingenti risorse per guadagnare territorio, ma i loro progressi sono diventati rari e di piccola entità e spesso vengono rapidamente annullati. Nessuna delle due parti sembra avere le risorse per ottenere una vittoria decisiva sul campo di battaglia ed entrambe subiscono ogni giorno pesanti perdite.
Spesso situazioni come queste favoriscono le condizioni che inducono le parti a negoziare. Se gli attori in guerra non hanno i mezzi per modificare la traiettoria del conflitto e si trovano di fronte a una situazione di stallo sempre più costosa e indefinita, ripensano a quanto possono ottenere con la forza e iniziano a prendere in considerazione uno spazio di contrattazione, disponibili a concessioni in precedenza inaccettabili.
Di fatto sono stati irresolutivi i cinque incontri intergovernativi svolti nella primissima fase del conflitto: il primo tenuto quattro giorni dopo l’inizio dell’invasione, il 28 febbraio 2022, in Bielorussia; un secondo e un terzo ciclo di colloqui svolti il 3 e il 7 marzo 2022, al confine tra Bielorussia e Ucraina, in una località non rivelata della regione di Gomel; un quarto e un quinto ciclo con l’intermediazione della Turchia rispettivamente il 10 e il 14 marzo ad Antalya, in Turchia.
Situazione politica bloccata
Ancora oggi per i Governi di entrambi i Paesi continuare a combattere appare preferibile a trovare un accordo, essendosi troppo esposti con i propri cittadini per obiettivi “irrinunciabili” e “vitali” in una narrazione divenuta sempre più ideologica.
Gli ucraini non possono semplicemente cedere i territori che Mosca vuole annettere (da cui provenivano prima della guerra circa due terzi del PIL dell’Ucraina) esponendo milioni di cittadini alla sottomissione russa (una delle richieste centrali di Mosca) mentre possono ancora difenderli combattendo.
La determinazione del Paese si è rafforzata ulteriormente quando, nell’estate e nell’autunno del 2022, ha lanciato controffensive che hanno costretto i russi a ritirarsi dalla provincia di Kharkiv e dalla città di Kherson, vittorie che spinsero addirittura Kiev ad aumentare le proprie ambizioni: il Governo ha promesso a gran voce di liberare tutto il territorio ucraino, comprese le terre occupate dalla Russia nel 2014, e di imporre risarcimenti per i danni materiali causati dalla guerra.
Anche la Russia non può rinunciare alle motivazioni che l’ha condotta all’invasione, come ripetutamente affermato dal presidente Vladimir Putin (in particolare nel messaggio del 21 febbraio 2022): l’Ucraina è un’“inalienabile parte della nostra propria storia, cultura e spazio spirituale”, tanto che la sua occupazione non può configurarsi come guerra fra Stati (e quindi regolata dalle convenzioni internazionali) ma una “operazione militare speciale” per eliminare un Governo corrotto, impedirne il passaggio a uno “spazio spirituale” diverso e ostile, ma ripristinare i corretti rapporti con la “madrepatria”. Per questo la Russia ha sacrificato centinaia e migliaia di persone – morti, feriti ed espatriati – e orientato l’attività economica e la produzione industriale al solo sforzo bellico.
In piena sintonia con il Governo, il patriarcato della chiesa ortodossa russa, lo scorso marzo, ha aggiunto una dimensione spirituale e teologica al conflitto, affermando che la Russia sta combattendo una vera “guerra santa” per creare una patria per “tutte” le popolazioni russe, dove la loro cultura e spiritualità saranno onorate e per difendersi dal “globalismo e satanismo” che attanagliano l’Occidente.
Appare evidente, sulla base delle attuali posizioni dei due Governi, che un negoziato di pace, o anche un armistizio, è impossibile da raggiungere (e neppure affrontare) senza un cambiamento fondamentale nel sistema politico di (almeno) uno dei due regimi al potere, prospettiva che sembra oggi impensabile.
Un armistizio dei militari?
E qui potrebbe entrare in gioco l’opzione “coreana”, ossia passare la mano ai militari.
Non è pensabile che possa esserci un’iniziativa “autonoma” dei militari, che non hanno il controllo effettivo dei Paesi come era in Corea (in questa guerra la strategia militare appare “politica” in natura, e considerazioni e assunzioni politiche regnano supreme sulla logica militare e una visione razionale della guerra) ma i politici potrebbero delegare ai comandi militari di negoziare quello che loro mai potrebbero ammettere, in modo da ottenere i benefici sociali ed economici di un armistizio senza dover apertamente rinunciare alle loro pretese politiche massimali.
Un cessate il fuoco sostenuto da un armistizio concordato a mio avviso porterebbe dei significativi vantaggi a entrambe le parti. All’Ucraina permetterebbe di risparmiare alla popolazione civile l’esposizione ai continui attacchi russi e la distruzione sistematica delle proprie capacità produttive; evitare il sacrificio di un’intera generazione di giovani (di questi giorni l’abbassamento dell’età di coscrizione a 25 anni); iniziare il ritorno alla vita civile e dare inizio alla ricostruzione di larga parte del paese; aderire a uno stile di vita pienamente occidentale; costruire un sistema di sicurezza integrato in un contesto europeo.
Per la Russia sembra meno cogente una conclusione della “operazione militare speciale” senza aver raggiunto gli obiettivi promessi al Paese, anche per l’assenza di un’effettiva opposizione intenta a sindacare i costi sociali del conflitto.
Tuttavia un armistizio permetterebbe di risparmiare la vita ai propri soldati e di ricostruire le proprie forze armate dalle perdite sostenute (in particolare di personale esperto); alleviare gli enormi costi economici (sia pure sostenuti da buon andamento dell’economia russa) previsti assorbire nel 2024 il 6% del PIL e il 40% dell’intero bilancio della Federazione; disporre di risorse finanziarie per investimenti produttivi nei settori economici e industriali, nonché per il miglioramento dei servizi pubblici; infine, il “congelamento” della questione ucraina potrebbe riconquistarle i mercati europei e alleggerire le sanzioni economiche impostole, e le permetterebbe di riprendere i necessari rapporti con i Paesi occidentali in una “cooperazione pragmatica” (come indicato nel documento del 31 marzo 2023 sui concetti della politica estera della Federazione russa); infine darebbe spazio alla ripresa della politica del controllo degli armamenti e per la stabilità strategica, elementi cruciali per la sicurezza di ogni stato, Russia inclusa.
Vi sono alcuni aspetti del conflitto che possono agevolare un armistizio puramente militare, seguendo le linee del caso coreano: il testo dello stesso Accordo del 1953 potrebbe servire di guida e venire utilmente utilizzato.
Una terra di nessuno fra le linee difensive fortificate sul Dnepro come il 38esimo parallelo
Intanto, come hanno osservato molti esperti militari, nonostante le innovazioni tecnologiche impiegate – dai nuovi tipi di droni ai terminali Starlink utilizzati per le comunicazioni sul campo di battaglia – la guerra Russia-Ucraina è stata ampiamente combattuta con le tradizionali capacità convenzionali del secolo scorso, potenziate o integrate (ma non rimpiazzate) da nuovi sistemi, nuove forme di comunicazione e ricognizione, seguendo strettamente i modelli storici di guerra prolungata su larga scala, caratterizzati da periodi prolungati di combattimenti di posizione, offensive e controffensive, assedi in territorio urbano, fasi dominate da alti livelli di logoramento e operazioni per sfondare le linee di difesa preparate.
Quest’ultimo punto è particolarmente significativo: il genio militare russo ha creato sui mille km di fronte una formidabile linea difensiva fortificata in profondità, costituita da una vasta rete di trincee, campi di mine antiuomo e anti-veicolo, filo spinato, terrapieni e denti di drago (piramidi tronche di cemento armato per impedire la mobilità dei carri armati e della fanteria meccanizzata) uno dei più estesi sistemi di opere militari difensive mai visti al mondo da molti decenni. Anche l’esercito ucraino sta lavorando attivamente alla costruzione di fortificazioni, lungo tutto il fronte a formare tre linee di difesa in profondità, applicando i metodi più moderni.
Queste linee difensive fortificate delle due parti delimitano di fatto una striscia di terra- di-nessuno ampia qualche km lungo tutti i mille km del fronte, che corrisponde alla fascia demilitarizzata di interdizione prevista dall’accordo di armistizio coreano.
Entro questa fascia i negoziatori militari possono ubicare la linea di demarcazione militarmente più adeguata; anche in questo caso andrebbero evitati confini amministrativi, per non precostituire una separazione politicamente significativa. Come in Corea, saranno necessarie una Commissione militare ucraino-russa d’armistizio e una di osservatori neutrali a implementare l’accordo e a dirimere eventuali problematiche, seguendo modalità analoghe a quelle dell’articolo II.
Per quanto è dato sapere, lo scambio dei prigionieri non dovrebbe porre problemi analoghi a quelli coreani e quindi potrebbe svolgersi senza difficoltà, con la collaborazione della Croce rossa dei Paesi coinvolti e senza la necessità di una Commissione neutrale.
Gravissimo invece appare il problema del ritorno dei civili sfollati o deportati e l’amministrazione civile dei territori occupati dalla Russia. Una semplificazione potrebbe venire se la Russia creasse una regione autonoma (del Donbass?), anziché incorporare formalmente la zona nella Federazione russa. Probabilmente questo problema costituirebbe l’“ecc.” dell’accordo militare dell’armistizio ucraino e resterebbe aperto per tempi imprevedibili.
Comunque, un cessate il fuoco duraturo, oltre agli specifici vantaggi già considerati per i due Paesi, aprirebbe la strada alla risoluzione di almeno alcune delle controversie che hanno scatenato la guerra o riguardare una serie di altre questioni non considerate così esistenziali, come la sicurezza delle centrali nucleari, un fondo per la ricostruzione, il commercio bilaterale, aspetti culturali e la libertà di movimento, con un ritorno a un certo grado di relazioni “normali” tra gli ex belligeranti. Sia il Governo russo che quello ucraino sarebbero comunque insoddisfatti e non rinunceranno a cercar di raggiungere i loro obiettivi politici, ma eviteranno di rimanere intrappolati in un estenuante conflitto armato senza fine, o, ancor più grave, a una sua esiziale escalation a livelli incontrollabili.