Riprendendo a poche ore di distanza una quasi indiscrezione annunciata dal «New York Times» lo scorso 5 marzo, la rivista «Science» dava notizia della bocciatura ufficiale dell’Antropocene quale aspirante epoca geologica.
Questa sentenza certifica un processo lungo e faticoso, cominciato nel 2009: anno in cui la Subcommission on Quaternary Stratigraphy (SQS) – un ramo della International Commission on Stratigraphy (ICS): l’istituzione posta a presidio della cronologia geologica –ha affidato al geologo inglese Jan Zalasiewicz il compito di formare lo Anthropocene Working Group (AWG): un comitato di esperti, non solo geologi, che si occupasse di selezionare e vagliare eventuali prove a favore dell’Antropocene, per sottoporle poi al giudizio dello stesso ICS. Al culmine dell’ingente lavoro svolto dall’AWG, la recentissima bocciatura sancisce che, dal punto di vista squisitamente geologico, ci troviamo ancora nell’Olocene: la seconda epoca del periodo Quaternario (dopo il Pleistocene), iniziata poco meno di 12000 anni fa, proposta nel 1850 e certificata in via ufficiale nel 1882.
L’Antropocene è morto, lunga vita all’Antropocene
Mentre il NYT si limitava a prendere atto del “Nope” proferito dalla scienza geologica alla domanda “Are We in the ‘Anthropocene’, the Human Age?”, «Science» titolava il proprio articolo: “The Anthropoceneis dead. Long live the Anthropocene”, con ciò sottolineando come, malgrado il rigetto geologico, “the concept is here to stay”. Più che di un’affermazione si tratta di una constatazione, condivisibile/appurabile da chiunque possegga una familiarità anche minima con questo concetto, diventato nel corso dei suoi poco più di due decenni di vita un termine d’uso e di senso comune.
Qui di seguito vorrei chiarire brevemente le ragioni per le quali, a mio avviso, il titolo/constatazione di «Science» debba valere non solo in riferimento all’Antropoceneessoterico (quello di senso e uso comune, non bisognoso di una particolare legittimazione scientifica), ma anche in riferimento all’Antropocene esoterico (la sua versione peculiarmente scientifica). In altri termini, vorrei porre in evidenza quella che ritengo l’inconsistenza scientifica di questa bocciatura geologica.
La prima valutazione da fare a tale scopo è che la variabile cronologica gioca un ruolo determinante nell’economia di questo discorso. Vale a dire che, se per assurdo, la bocciatura geologica dell’Antropocene fosse avvenuta, ad esempio, nel 2002 o 2003 – cioè, all’indomani della proposta formulata da Paul Crutzen nel 2000 –, avrebbe avuto un significato assai diverso da quella pronunciata tre settimane fa. Probabilmente, essa sarebbe stata in grado di “soffocare l’Antropocene nella culla”. Nel 2024, invece, quella sentenza racconta una storia del tutto diversa: essa dice molto di più sulla geologia (sulla scienza geologica istituzionalizzata) che non sull’Antropocene ovvero sulla paura – per molti aspetti comprensibile – da parte di una “scienza rispettabile” di accettare una sfida che, da un punto di vista epistemico, avrebbe davvero rischiato di condurla, per citare Crutzen, in una “terra incognita”.
L’impressione è che la geologia si sia spaventata prima e irrigidita poi al cospetto di qualcosa che la forzava a mettere in questione se stessa e le proprie certezze. Qualcosa che la spingeva a mutare, almeno in parte, la propria natura: a cessare di essere una scienza esclusivamente constatativa e descrittiva (che guarda all’indietro), per trasformarsi in una scienza anche predittiva (che guarda in avanti). Almeno per il momento – è facile prevedere che la faccenda non sia chiusa, ma soltanto rimandata – la geologia ha ritenuto quella istanza troppo audace.Vistasi minacciata dalla sfida antropocenica, ha optato per un atteggiamento conservativo, teso anzitutto a preservare il suo “buon nome” in quanto disciplina scientifica.
Tuttavia, nel corso di questi quasi 25 anni, ed è questo il punto più interessante dell’intera questione, l’Antropocene ha dimostrato di non avere più bisogno di una legittimazione geologica per esistere. Ciò dicendo, non alludo al fatto che questa idea abbia gradualmente colonizzato le discipline umanistiche (filosofia, in primis), il dibattito pubblico e persino la cultura popolare, la quale vi ha scorto una fondata possibilità per dare finalmente un nome e un significato alla congiuntura che stiamo vivendo.
In quanto “iper-oggetto epistemico”, l’Antropocene è scienza oltre la geologia
Per fare dell’Antropocene il métarécit della nostra epoca. Alludo, piuttosto, al fatto che l’Antropocene possa svolgere una tale funzione metanarrativa (ed epocale, politica, culturale, popolare…) non indipendentemente da una sua legittimazione scientifica, bensì proprio – per non dire, esclusivamente – in virtù di essa. Legittimazione scientifica che però, nel frattempo, ha smesso di identificarsi con quella geologica. In altri termini: il dato più evidente e più sorprendente di questa breve ma vivace storia è che l’Antropocene ha costruito/sta costruendo la propria legittimità scientifica con le sue stesse mani, edificando – o quantomeno solidificando – la propria nicchia epistemica.
Il riferimento va a quel novero di discipline rubricate sotto l’etichetta, non sempre facile da mettere a fuoco, di Earth System Sciences (ESS), emerse almeno un paio di decenni prima della proposta di Crutzen ma che hanno trovato la propria definitiva credibilità proprio a partire da quella proposta.
L’ipotesi antropocenica si è andata via via caratterizzando come la risposta alle domande poste da quelle discipline e che rinviene il suo più immediato antefatto nell’ipotesi Gaia di Lovelock e Margulis (1974), ossia nel definitivo passaggio da una concezione: statica, parcellizzata e reificata una: dinamica, sistemica e olistica del nostro pianeta.
L’Antropocene sta dimostrando sul campo di essere una sorta di “iper-oggetto epistemico”: qualcosa che stressa radicalmente la tenuta dei saperi tradizionali che vi si fanno incontro; qualcosa che per venir compreso e indagato necessita di una prospettiva scientifica che sappia porsi al di là delle consuete barriere settoriali; di un approccio costitutivamente interdisciplinare, genuinamente multidisciplinare.
È questo il motivo di fondo per il quale, oggi, la geologia non è (più) in grado di risolvere la questione antropocenica– in un senso o nell’altro – all’interno dei propri confini disciplinari. Per produrre qualcosa di paragonabile a una vera sentenza, occorre ascoltare anche le voci di: ecologia, climatologia, biologia, chimica, storia naturale, paleontologia…
E se parlassimo di “epoche ecologiche”?
La saga antropocenica suggerisce, tra le altre cose, che forse più che di epoche (o periodi, ere, età…) geologiche sarebbe ormai il caso di parlare di epoche ecologiche: panoramiche complessive di sistemi complessi, dei quali quello geologico rappresenta una delle componenti. A onor del vero, le partizioni geologiche non sono mai state soltanto geologiche; si tratterebbe, perciò, non di una vera riforma, quanto della definitiva presa d’atto di uno stato di cose già vigente.
Dopo tutto, l’ipotesi antropocenica è stata formulata da Paul Crutzen, il quale non è stato certo un geologo puro. La sua proposta è il frutto dei suoi lavori degli anni Settanta sull’atmosfera terrestre, in particolare sull’ozonosfera e le sue fragilità. È come se, per “scoprire” l’Antropocene, Crutzen avesse effettuato dei carotaggi non verso il basso (sottoterra), ma verso l’alto (in cielo). Un metodo non propriamente consueto, dal punto di vista geologico.
Più in generale, molti degli scienziati di riferimento negli Anthropocene Studies non sono geologi puri. Ciò posto, ci si potrebbe azzardare ad affermare che la stessa maniera, alquanto eterodossa, con cui essi fanno scienza – la modalità, del tutto peculiare, del loro essere scienziati – rappresenti una significativa prova a favore dell’esistenza dell’Antropocene.
Per le ragioni appena espresse – ovvero non solo per ciò che l’Antropocene è, ma per ciò che esso è nel frattempo diventato – ritengo che la bocciatura geologica dello scorso 5 marzo arrivi troppo tardi. Parafrasando un noto proverbio: qui si tratta non solo di “aver chiuso il recinto quando i buoi sono già scappati”, ma di aver scoperto che quelli ormai fuggiti non erano mai stati dei buoi.
Anche in chiave scientifica, dunque, quella antropocenica è una partita tutt’altro che chiusa. Si tratta di una sfida ancora aperta, che attende “solo” di essere (r)accolta fino in fondo. La saga continua…
Avrei gradito che nell’articolo fossero citate le motivazioni del rigetto. Da ex geologo ricordo che le definizioni dei periodi geologici sono strettamente cronostratigrafiche, cioè che il tempo ( periodo geologico) è rappresentato da rocce.
Ne consegue che devono essere rispettate una serie di condizioni ad esempio avere delle zone il più possibile ampie con la stessa tipologia di roccia in vaste aree della terra ecc
Daniele
Riceviamo da Agostino Cera e pubblichiamo
Gentile Daniele Fanjer,
ringraziandola per il commento, mi scuso per l’incompletezza dell’informazione. D’altra parte, lo spazio dell’articolo era limitato e a me premeva evidenziare quella che ritengo l’implicazione più interessante (in assoluto, non solo geologicanente) della “bocciatura”. Se avessi dovuto limitarmi a riportare una notizia, peraltro già ampiamente pubblicizzata, avrei evitato di scrivere il mio “pezzo”.
Quanto alle motivazioni specifiche della bocciatura, il problema è legato essenzialmente agli archi temporali standard delle tassonomie geologiche. Le prove stratigrafiche a favore dell’ipotesi antropocenica ci sono e sono plausbili (dalle polluzioni radioattive post 1945, alla presenza dei cosiddetti tecnofossili negli strati più recenti della superficie dell’intero pianeta). Quelli dell’Anthropocene Working Group, come forse saprà, hanno anche individuato un possibile golden spike nel fondale del lago Crawford in Canada. Il punto è che accettare l’Antropocene come epoca geologica (facendolo cominciare sia con la grande accelerazione della metà del XX secolo, sia con la rivoluzione industriale. Questo aspetto cambia poco) avrebbe significato introdurre un intervallo di tempo del tutto anomalo per quanto riguarda l’Olocene: ovvero soli 12.000 anni. Legittimare una simile anomalia avrebbe più o meno significato ridiscutere l’architettura complessiva della Geological Time Scale. In altre parole, avrebbe significato cominciare una riflessione critica della geologia su se stessa e sui propri punti fermi. Questo, legittimamente, la geologia istituzionale non si è sentita di farlo. Non ancora, per meglio dire, Sono queste ragioni di contorno, più che motivi squisitamente “rocciosi”, quelle che hanno condotto alla bocciatura.
Oltre che il mio precedente contributo per “agenda 17” (https://www.agenda17.it/2023/02/13/le-parole-e-le-cose-antropocene/), mi permetto di segnalarle questo link (https://www.leparoleelecose.it/?p=49060#comment-486189), dove compare una versione più ampia dell’articolo che ha letto, con qualche indicazione bibliografica dalla quale potrà trarre ulteriori informazioni.
Grazie ancora per le sue osservazioni.
Cordialmente,
Agostino Cera. .
Gentile collega Daniele Fajner, ringrazio per aver posto le sue perplessità e mi permetto di rispondere da geologo ambientale con competenze in geochimica. Ho trovato interessante la proposta fomulata all’inizio del 2000 di Paul Crutzen di introdurre una nuova epoca nella storia della Terra, e pur rispettando le motivazioni della Subcommission on Quaternary Stratigraphy (SQS), ritengo che l’accelerazione dello sviluppo tecnologico ha introdotto cambiamenti nelle dinamiche del pianeta rilevabili a livello stratigrafico di cui occorrerà prendere atto in tempi brevi al fine di pianificare adeguate politiche ambientali e socioeconomiche. Come giustamente rileva il collega Fabbri il 1950 rappresenta una svolta rilevante per le dinamiche del pianeta e giocano un ruolo chiave la diffusione della plastica, l’anomalia dei radioisotopi prodotti non solo dalle esplosioni nucleari in atmosfera ma anche dalla diffusione delle centrali per l’approvvigionamento energetico e possiamo affermare che dal 2000 la rivoluzione digitale sta ponendo il problema dell’approvvigionamento delle materie prime critiche con l’accelerazione dell’attività mineraria e l’immissione nell’ambiente di metalli che producono anomalie geochimiche a scala globale. La comunità scientifica sempre più è invitata ad un approccio multidisciplinare ecosistemico nel quale la geologia oltre che scienza di analisi delle dinamiche della terrestri del passato si dedica alla previsione delle dinamiche future per rendere resiliente la società ai cambiamenti in atto attraverso soluzioni di adattamento. Siamo 8 miliardi di persone, la cui pressione sul pianeta è amplificata dagli attuali scenari di riscaldamento globale, e solo con soluzioni di politiche ambientali circolari sarà possibile gestire la perdita delle aree costiere densamente urbanizzate e la riduzione delle risorse alimentari e in particolare di quelle ittiche, scenari e sfide che se non affrontati con una corretta pianificazione prospettano una forte crisi della società e perdere del benessere che la rivoluzione tecnologica ha prodotto. La crisi delle scienze della terra, testimoniata dal drammatico crollo degli iscritti nei corsi di laure di geologica che affligge tutti i paesi occidentali, a cui si associano patologie di ecoansia nelle giovani generazioni, dimostra che nonostante la società richiede competenze in questo settore, c’è un ritardo nella risposta della comunità scientifica. Al ritardo delle società occidentale si contrappone nei paesi emergenti come la Cina un forte incremento dei giovani studenti che si dedicano alle scienze della terra. Mi auguro che il piano europeo per le materie prime critiche sia di stimolo per questa importante settore delle scienze utile per la qualità della vita della società del futuro. Rilevo infine che rispetto ad alcuni anni fa dove molti dei colleghi geologi si occupavano di dinamiche ambientali dedicandosi al monitoraggio, negli ultimi anni anni hanno dato maggiore attenzione allo sviluppo di soluzioni di adattamento agli scenari di cambiamento, per cui discutere di Antropocene è un contributo e stimolo verso un approccio ecosistemico sempre più proiettato sul futuro in cui la geologia capitalizza la conoscenza del passato per una corretta pianificazione delle risposte alle sfide climatiche.