In questi giorni è entrato nel dibattito ferrarese un tema che potremmo definire nuovo (nel senso di mai sentito prima, non nuovo in assoluto), ovvero la felicità come soggetto politico.
Purtroppo, non ho potuto essere presente al dibattito cui ha partecipato tra l’altro Mons. Perego, ma personalmente credo che la valenza politica di questo tema la si possa associare alla questione posta da Hannah Arendt, ovvero del come contrastare la privazione del “diritto di avere diritti” che “si manifesta soprattutto nella privazione di un posto nel mondo che dia alle opinioni un peso e alle azioni un effetto” e quindi alle persone un ruolo.
La felicità ha poi anche una valenza personale, intima, ma diventa politica nella misura in cui la società democratica mi metta nella condizione di poter godere, nelle forme e nelle regole che guidano una comunità, del diritto alla sanità, alla scuola, alla cultura, a un lavoro non precario e sicuro, alla casa e alla città. In sostanza al diritto di “avere un posto in questo mondo” che non significa solo il riconoscimento di una condizione giuridica (pensiamo agli immigrati) ma anche mettere in condizione di agire e parlare concretamente in questo mondo, ad esempio attraverso le pratiche di cittadinanza attiva, e non solo attraverso la delega politica ed elettorale.
Su queste premesse si può innestare un percorso, ovviamente non automatico, orientato verso la felicità, che rimane comunque una dimensione personale.
In realtà, mi pare che testi come quelli di Helena Norberg-Hodge o Bruno S. Frey e Claudia Frey Marty usano il termine “felicità” per parlare di giustizia redistributiva, di equità sociale, del diritto per tutti alle risorse e al benessere. Temi che la sociologia e le scienze sociali trattano da decenni, ma l’umanità non è un monolite, le situazioni non sono interscambiabili; quindi, qualunque categoria, anche la “felicità”, va precisata e contestualizzata perché posso esistere diverse aspettative di felicità.
È lo stesso discorso di quando si usa il termine “Antropocene” per definire il processo di alterazione del Pianeta da parte dell’uomo o dell’umanità, è certamente vero ma l’umanità non è responsabile tutta allo stesso modo. L’impatto di un nordamericano o di un europeo non è lo stesso di un africano o di un indio, che sono di fatto vittime di questa situazione, al contrario dei “bianchi” che ne sono direttamente responsabili.
Felicità in USA e nella foresta Amazzonica ha un significato diverso
Gli Stati Uniti d’America hanno il diritto alla felicità nella Costituzione ma è uno dei paesi più diseguali del mondo, forse con il più alto numero di morti per disperazione.
Gli USA hanno ratificato la loro Costituzione nel 1788 ma hanno abolito la schiavitù nel 1865. Nel mondo occidentale la felicità la si può perseguire una volta che è garantito un certo livello di benessere e diritto ai servizi vitali ma gli psicologi ci insegnano che la stabilità emotiva, precondizione per la felicità, può essere destabilizzata anche a fronte di una stabilità economica.
Alcuni etnologi brasiliani ci hanno raccontato, al contrario, che molte popolazioni indigene erano felici quando vivevano nelle loro terre in Amazzonia: una condizione di vita che noi non esiteremmo a definire di povertà.
In realtà loro, in quanto “popoli-foresta” avevano tutto il necessario per vivere ed essere felici ed hanno scoperto di essere poveri quando i bianchi gli hanno deforestato la loro “casa”, gli hanno trasmesso le proprie malattie e li hanno messi a vivere in alloggi di fortuna, degradati nei margini periferici delle città che avevano nel frattempo costruito, rendendoli infelici.
La felicità non è quindi un apriori automatico, ma si lega innanzitutto al diritto a vivere nel proprio contesto e al dovere di rispettare i contesti altrui attraverso il dialogo e la cooperazione.
Se queste categorie, che definirei personali, se non intimistiche, diventano uno dei fattori politici forse è necessario definire una teoria critica che approfondisca i concetti attribuibili alla categoria-felicità e le implicazioni con i processi di una nuova società che ci obbliga a misurarci con i “cambiamenti di passo”, necessari per contrastare la mutazione climatica in corso.
Ridefinire una teoria critica della qualità urbana in società complesse
Questo significa ripensare i nostri indicatori di benessere che volente o nolente possono contribuire al farci sentire felici.
Mi rendo conto che mi sto avventurando in un campo disciplinare che non è il mio, con il rischio quindi di dire delle banalità, ma in quanto urbanista, che cerca di pensare ad un futuro delle città dove lo stare a proprio agio, dove il sentirsi nel posto giusto è indicatore di qualità urbana, la dimensione personale del vivere in città e dell’accesso ai diritti diviene politica urbana.
Ma ciò che è indicatore di qualità urbana, per me, quindi potenzialmente fattore di felicità nel vivere in quel dato luogo, lo è per il mio vicino di casa?
Come esercitare una condivisione di fattori di qualità urbana, associabili ai diritti sopra citati, in grado diventare un orizzonte di felicità, condiviso da una comunità? Qui è entra in ballo il discorso della dimensione sociale della vita urbana, che è una dimensione collettiva e politica, anche se non totalizzante; in una città vi sono differenti comunità che devono trovare un patto per convivere in una città luogo di differenze.
Non sottovalutiamo il fatto che la nostra società è stata plasmata, da tempo, sulla visione della crescita costante e continua, come se il pianeta non fosse un insieme di risorse limitate.
Il rapporto che si è stabilito con lo sviluppo è stato impostato sulla alimentazione del “desiderio individuale” che diviene sinonimo di benessere e dunque di “felicità”. Quindi passare da una economia basata sul soddisfacimento del benessere individuale ad una basata sulla centralità della socialità condivisa presuppone un salto che non renderà tutti felici.
A ben vedere, lo sviluppo generato dalla rivoluzione industriale si è fondato sull’intreccio miseria/opulenza o povertà/ricchezza. La miseria londinese, parigina, raccontata da tanti scrittori tra metà Ottocento e inizi del Novecento, è il substrato che ha alimentato il benessere delle metropoli occidentali.
Bernard Mandeville nella sua riflessione intitolata La favola delle api, individua nello sporco, nel cattivo odore, nel degrado della Londra settecentesca l’indicatore di quel benessere e di quella ricchezza prodotta dai commerci internazionali che daranno vita alla rivoluzione industriale e che ha avvantaggiato alcuni.
Le opposizioni ordine/disordine, pulizia/sporcizia, igiene/malattia, risorsa/sfruttamento, e potremmo aggiungere felicità/disperazione, hanno in fondo generato tale modello di sviluppo che è causa della crisi ambientale che stiamo vivendo. Hanno arricchito pochi e reso subalterni molti, cercando di convincerci che per aiutare i poveri bisognava arricchire i ricchi, questo avrebbe determinato, a cascata, un po’ di ricchezza anche sui “subalterni”.
È la favola neoliberista che ancora oggi ci raccontano, ma che ahimè è divenuta realtà, nelle dinamiche e processi economici che governano il mondo.
Felicità, conflitto e democrazia
Dobbiamo essere consapevoli che i parametri che per alcuni costituiscono i “valori non negoziabili” della felicità, per altri non lo sono. Va dunque governato il conflitto che ne consegue, e credo che le scelte determinate da un reale (e non retorico) processo di transizione ecologica in corso, ancora oggi più annunciato che praticato, se si trasformerà in pratiche di governo reali, questo conflitto lo alimenterà.
L’obiettivo della “città decarbonizzata”, personalmente credo debba essere perseguito per consentire soprattutto ai più giovani di avere un futuro, ma non sono convinto che quando si tratterà di limitare gli spazi di azione individuali a favore del benessere collettivo, questo renderà tutti felici.
Dobbiamo essere consapevoli che il perseguimento della “felicità” per come è stato posto nell’incontro citato e nella letteratura, sarà comunque fonte di conflitto, che è comunque un prerequisito della democrazia.
Non dimentichiamoci poi che viviamo in un mondo fortemente diseguale. Da alcuni resoconti che sono stati fatti degli interventi del seminario su “Ferrara città felice” emergono dei temi di cui a Ferrara discutiamo da alcuni anni inerenti alle pratiche di rigenerazione urbana.
Ad esempio, un progetto rigenerativo trova senso solo dentro una politica urbana, in grado di gestire i processi trasformativi, cercando di bilanciare gli effetti sociali indotti dal valore, a mio parere non negoziabile, del diritto alla città per tutti.
Se non si opera seguendo questa prospettiva, il rischio è che le azioni rigenerative siano selettive perché quando si risana un quartiere popolare i valori immobiliari cambiano e si determinano dei processi di espulsione della popolazione meno abbiente verso le parti più esterne della città che, se non dotate di un efficiente sistema di mobilità pubblica, determinano, per chi vi abita, una situazione sfavorevole ambientalmente (ricorso necessario all’auto privata) e socialmente (marginalizzazione della componente economicamente più debole della popolazione).
Anche a Copenaghen, modello di città eco-sostenibile, alcuni interventi hanno rafforzato le disuguaglianze urbane. Ne sono un esempio le vicende de Mjølnerparken, un quartiere operaio ed etnico dove vivono 1.600 residenti in gran parte di origine “non-occidentale” (nuova categoria classificatoria introdotta nel dibattito danese) destinato a scomparire sotto la spinta della rigenerazione “gentrificata”.
Un processo di miglioramento della qualità urbana per alcuni che genera però disperazione per altri.
Forse più interessante è l’approfondimento del caso della città di Vienna, una delle esperienze socialmente più avanzate di diritto alla casa e alla città. Come lo fu, del resto, anche l’esperienza della stagione Ina-Casa, negli anni post-bellici della ricostruzione dell’Italia.
Del resto, interventi quali: la creazione di nuovi parchi e l’aumento degli alberi in città, la riqualificazione dei waterfront, la mitigazione delle isole di calore, il ridisegno degli spazi pubblici anche per gestire gli effetti indotti dalle acque piovane, il recupero di vecchi edifici esistenti per trasformarli in uno studentato o in una attrezzatura pubblica, gli interventi per la mobilità sostenibile, hanno certamente un effetto positivo sulla transizione ecologica, ma scatenano anche investimenti finanziari e immobiliari di lusso che generano disuguaglianze e allontanano sempre più i cittadini a basso reddito.
Eco-gentrificazione e rischio di una “felicità autoritaria”
Solamente una strategia fondata su “valori non negoziabili”, da definire all’interno di un processo partecipativo con le comunità locali, può dare un senso ampio e condiviso a quelle azioni. In questo senso se la “felicità” è una finalità, gli obiettivi devono basarsi sui principi di equità sociale e non di separazione dettata dai valori immobiliari.
Diversamente il rischio è quello di una rigenerazione neoliberista fondata sulla egemonia delle rendite immobiliari che producono gentrificazione, che a sua volta, a cascata, determina la necessità di introdurre forme di privatizzazione o semi-privatizzazione dello spazio urbano.
In molte città del mondo la precondizione per vivere felici è abitare auto segregati in una gated communities (dove risiede l’élite) e muoversi in una auto blindata con i vetri oscurati, muovendosi in quartieri dove vive una massa di infelici “incazzati”, per il livello di precarietà e marginalità della propria vita. Non si tratta di una descrizione distopica ma di una situazione urbana reale che si sta sempre più generalizzando.
Va quindi evitato che la città della transizione ecologica slitti verso una eco-gentrificazione trasformata in strumento di esclusione o espulsione.
Un esempio, che mi pare sia emerso nella discussione, riguarda il tema della “città dei 15 minuti” (un’idea che sessant’anni fa i progetti dell’Ina-Casa avevano ben chiara), tale prospettiva rischia di diventare una retorica che può diventare azione concreta solo nelle parti rigenerate, dove un certo tipo di commercio di prossimità e di servizi alla persona sono possibili grazie alle condizioni economiche dei residenti.
Per gli altri rimangono gli ipermercati, i centri commerciali che continuano a crescere come funghi nelle aree periurbane rendendo difficile il ricorso ad una mobilità non incentrata sull’automobile privata. Come collochiamo questa dinamica in una prospettiva orientata alla ricerca della felicità?
L’economista francese Thomas Piketty ha più volte evidenziato come, secondo la Banca Mondiale, nel pianeta circa un centinaio di paesi possono essere ritenuti ad “alto reddito” e la contribuzione del 0,03% del prodotto interno lordo consentirebbe di ottenere le risorse necessarie per far fronte alle crisi umanitarie mondiali attraverso l’istituzione di agenzie indipendenti in grado di operare reinventando forme di multilateralismo globale.
Del resto da tempo i paesi in via di sviluppo chiedono di poter utilizzare i propri bilanci pubblici per interventi e politiche strutturali finalizzate allo sviluppo e alla equità economica e sociale senza dover essere, sempre più frequentemente, costretti ad intervenire con azioni di soccorso, prevenzione, emergenza in situazioni generate da cambiamenti climatici di cui sono responsabili per il 3% (ad esempio l’Africa).
Una scelta di questo tipo consentirebbe investimenti nel miglioramento della qualità della vita di molte persone, consentirebbe un investimento in direzione dell’ottenimento di quei diritti di cui parlavo all’inizio.
Un diritto garantito come pratica democratica, che diviene precondizione per una vita migliore da cui può discendere una condizione di “felicità”. Diversamente il rischio è che ci si orienti verso una “felicità autoritaria” o selettiva.
(Contro la città autoritaria è il manifesto con cui il sociologo Alfredo Alietti e l’architetto Romeo Farinella hanno lanciato l’idea di un confronto interdisciplinare sui luoghi dell’abitare)