Contro la città autoritaria il sociologo Alfredo Alietti e l’architetto Romeo Farinella dell’Università di Ferrara hanno scritto un “manifesto” che invita al confronto interdisciplinare. Sono già intervenuti Carlo Zanotti, medico e socio dell’Associazione Ferrara sostenibile 2030, segnalando le implicazioni di questo modello urbano per la salute, e Francesca Cigala Fulgosi, medico, membro di Extinction Rebellion e del Forum Ferrara Partecipata, che ha affermato la necessità di ripensare nuove forme di governo superando i fallimenti della “retorica del consenso” diffusa in tante amministrazioni locali.
L’analisi, dunque, si approfondisce e continuerà nei prossimi giorni. Ma intanto potremmo chiederci: se le città stanno diventando disumane e disumanizzanti, come affermano gli estensori del manifesto, quale dovrebbe essere l’orizzonte del cambiamento? che tipo di città è quella in cui sarebbe bello vivere e per la quale, dunque, vale la pena impegnarsi? Be’, una bella risposta c’è: la città felice.
La città felice non è un sogno naive, anzi: può essere declinata concretamente
Secondo Stefano Bartolini, politologo e docente di economia politica e di economia della felicità presso l’Università di Siena, la felicità è un tema politico concreto non uno slogan ingenuo.
“Io studio la felicità da vent’anni – ha affermato l’economista toscano nel corso dell’incontro ‘Ferrara: una città felice?’ organizzato da Finalmente 2024-Ferrara – e su questo tema sono stati già assegnati due premi Nobel. La felicità è misurabile quantitativamente con metodo scientifico.”
Quello che non funziona, secondo questa prospettiva di analisi, è ridurre tutto alla disponibilità di reddito, misurare la felicità in base alla quantità di beni posseduti mano a mano che il reddito cresce. O meglio: la (in)felicità è legata al reddito solamente quando esso è talmente basso da non consentire il soddisfacimento dei bisogni fondamentali per la vita che normalmente conduciamo.
Condividere non possedere
Per chi ha un livello di reddito sufficiente, la vera povertà è la mancanza di relazioni, e la vera ricchezza sono le relazioni di buona qualità.
Ora, il punto è – e qui sta lo snodo decisivo dell’analisi sulla città felice – che tutto questo sembra intuitivo, e come tale un po’ banale; un po’ come dire “il denaro non fa la felicità”. E invece non è così, perché non si tratta di una questione individuale ma di una condizione sociale, frutto di scelte politiche.
“La città – ricorda Bartolini – è nata come luogo di relazioni urbane e ora è diventata luogo di solitudini, addirittura di solitudine dei bambini”. Forse la condizione infantile è proprio il caso paradigmatico, anche perchè l’epidemia di Covid-19 ha accelerato una tendenza già in atto che vedeva i bambini sempre più isolati davanti a uno schermo e lontani dalla condivisione di spazi di gioco all’aperto come è stato per le generazioni precedenti.
Veniamo da decenni di erosione delle relazioni umane, e questa situazione è il prodotto di scelte politiche che possono essere cambiate. Un esempio eclatante sono le scelte politiche sul traffico: “Non si possono mettere a proprio agio contemporaneamente le auto e le persone” afferma lo studioso.
La città di Amsterdam, ad esempio, ha fatto la scelta di liberarsi dalle macchine. È una decisione politica complessa che va ben organizzata. Cambia il modello di città: c’è una diffusa presenza di microgiardini attorno ai quali si sviluppa la “città dei quindici minuti”, nella quale tutti i servizi sono raggiungibili in un quarto d’ora.
Se questa è la direzione verso cui muove Amsterdam, va rilevato che le città italiane sono fra le peggiori d’Europa, grazie alla scelta politica che è stata fatta di privilegiare le auto.
Eppure anche nel nostro Paese non mancano le risorse. Una, importantissima, è la straordinaria quantità e varietà delle realtà partecipative, associative e di volontariato. “Una straordinaria vitalità, a cui però, secondo Bartolini – manca un solido coordinamento di rete, capace di incidere politicamente, forse anche a causa del fallimento dei movimenti dei decenni precedenti”.
Non case ma città
Gli esempi positivi di grande caratura non mancano anche nel nostro Paese. Lo ha ricordato nella stessa occasione il vescovo di Ferrara Gian Carlo Perego. il caso da manuale è quello dell’edificazione del quartiere dell’Isolotto a Firenze.
È il primo intervento urbanistico di grande rilievo del dopoguerra e uno dei più importanti del Novecento. La Pira, il sindaco di allora, realizzò un nuovo nucleo urbano autonomo e autosufficiente in grado di dare una risposta inclusiva alla consistente crescita dell’immigrazione dovuta al nuovo sviluppo industriale. Un problema che oggi definiremo multietnico e multiculturale. La sua realizzazione era inserita nel piano nazionale Ina-Casa
Al progetto dell’Isolotto lavorarono architetti di primo piano che si misurarono con la richiesta di La Pira di costruire i luoghi di socializzazione prima delle abitazioni, secondo un concetto riassunto dal sindaco nel motto “Non case ma città”.
Oggi, afferma il vescovo, la direzione intrapresa è esattamente contraria: l’espulsione dalla città di chiunque non ha redditi e consumi elevati o che possa rappresentare un problema di inclusione.
È il caso dei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr). E anche su questo sono possibili soluzioni migliori come dimostra il Modello Vienna.