“Purtroppo siamo in una fase in cui si è passati dall’iper spinta alla globalizzazione alla contrapposizione in ogni ambito, dallo sviluppo economico ai diritti umani e al cambiamento climatico, per cui fatico a immaginare che ci siano davvero le condizioni per affrontare in modo costruttivo la questione della giustizia climatica. Bisogna trovare un terreno da dove cominciare a sanare questa frattura e introdurre un ragionevole meccanismo di proporzionalità nella contribuzione, che coinvolga anche le economie a basso reddito, permetterebbe un notevole passo avanti” afferma ad Agenda17 Federico Frattini, docente di Economia dello sviluppo presso l’Università di Ferrara.
Abbiamo chiesto a Frattini un commento sui risultati raggiunti dall’ultima Conferenza delle parti (COP 28) in termini di finanza climatica, in particolare l’istituzione del fondo Loss and Damage, nato per dare assistenza finanziaria ai Paesi più vulnerabili colpiti dal cambiamento climatico. Come già affermato in occasione di COP 27, il docente ribadisce la necessità di una diversa impostazione di meccanismi finanziari come il Loss and Damage, che andrebbe ripensato alla stregua di uno strumento assicurativo in cui tutti i Paesi sono obbligati a versare, proporzionalmente alle proprie economie, e a cui tutti possono accedere, anche qui in proporzione alle rispettive necessità.
“Distinguere nettamente le responsabilità – prosegue Frattini – è complicato, basti pensare, ad esempio, che si discute ancora se le emissioni prodotte da un grande esportatore come la Cina siano da imputare interamente alla Cina o anche ai Paesi di esportazione. Uno schema di obbligatorietà della contribuzione, invece, porterebbe con sé la capacità politica di individuare le clausole che regolano i rapporti con il fondo, cioè a quali condizioni vi si può accedere. Il punto quindi non è tanto la disponibilità delle risorse quanto costruire un contesto in grado di valorizzarle.”
Non solo mitigazione del danno, ma anche adattamento
Al momento, invece, sono i Paesi ad alto reddito ad aver confermato i propri contributi al fondo, tra cui i 100 milioni di dollari promessi dagli Emirati Arabi Uniti. Si è stabilito che la sede provvisoria per quattro anni sarà la Banca mondiale e i versamenti restano su base volontaria, mentre tutti i Paesi in via di sviluppo possono richiederne le risorse.
“La questione del risarcimento per le economie più povere è condivisibile – commenta Frattini – ma al momento rimane un’idea, anche perché le risorse non sembrano essere sufficienti. Bisogna inoltre ricordare che il cambiamento climatico è un fenomeno globale e si inserisce in un contesto economico e politico diventato a sua volta globale: in questi anni, tuttavia, questa globalità sta entrando in crisi e si sta polarizzando, impattando anche sulla possibilità di formalizzare procedure e soluzioni di finanza e giustizia climatica.
Tuttavia il principio su cui si basa il Loss and Damage è globale da qualsiasi parte lo si guardi per cui o lo si affronta a partire da questo oppure immagino che si andrà avanti così, con contribuzioni volontarie che cambiano continuamente e forse prima o poi arriveranno agli importi attesi.
In più rimane il tipico problema tecnico dei risarcimenti, cioè la prevedibilità del danno: capire quanto di quel danno era in qualche modo evitabile, e una delle poche cose opportunamente stressate nella dichiarazione finale è che bisogna fare di tutto per contenere i danni. Ciò significa anzitutto accelerare sul raggiungimento degli obiettivi, ma anche agire per evitare conseguenze straordinarie: accanto alla mitigazione, dunque, l’adattamento, parte sostanziale della massima prevenzione possibile.”
Superare le disuguaglianze, anche con l’obbligatorietà alla contribuzione
Infine ci sono i recenti dati sulle perdite macroeconomiche e gli impatti sul Prodotto interno lordo (Pil) dovuti al cambiamento climatico, evidenziati da un report secondo il quale nel 2022 c’è stata una perdita media sostanziale del 6,3% nel Pil dei diversi Paesi. Complessivamente, il Pil globale ha subito un calo dell’1,8%: significa che il Mondo è 1,5 trilioni più povero di quanto non lo sarebbe senza il cambiamento climatico.
La distribuzione di tali perdite non è però omogenea e, ancora una volta, la bilancia pende a favore delle economie più ricche: a sostenere il peso maggiore, infatti, sono Sud-Est asiatico e Paesi africani, specie l’Africa meridionale, con una perdita media annuale di Pil rispettivamente del 14,1%, 8,1% e 11,2%. La perdita media per i Paesi meno sviluppati è dell’8,3% e questo non fa che esacerbare le disuguaglianze esistenti.
Di contro, invece, la Russia ha conosciuto un aumento di 4,2% del Pil grazie a inverni più miti, che possono aver catalizzato le attività economiche, mentre per gli Stati Uniti la situazione rimane sostanzialmente in pareggio.
È in questo scenario che si inseriscono anche le criticità sottolineate dai Paesi del Sud del Mondo rispetto agli accordi internazionali, come l’obiezione sull’indipendenza della Banca mondiale quale garante dei risarcimenti, la soglia troppo bassa di contributi (stimano un fabbisogno effettivo di 400 miliardi l’anno, mentre la soglia minima stabilita sono 100 miliardi annui entro il 2030) e la necessità che i Paesi più ricchi facciano di più in relazione alle loro responsabilità.
“Allo stato attuale la questione della Banca mondiale – rileva Frattini – è la criticità minore. Se l’accordo è che a contribuire sono le economie avanzate, allora queste decidono di tutelarsi e controllare dove vanno i soldi. Inoltre si tratta dell’istituzione che già usa risorse delle economie più ricche per sostenere processi di trasformazione in quelle meno ricche ed è, quindi, la soluzione che scompone meno l’attuale architettura istituzionale.
Piuttosto quelle disparità portano ulteriormente a cogliere uno degli aspetti più complessi della finanza climatica: se, per superare questa impasse, sia necessaria un’obbligatorietà della contribuzione. Politicamente infatti è più complicato gestire la situazione finché a contribuire è solo qualcuno, mentre potrebbe essere più praticabile se tutti versassero proporzionalmente.”
Come costruire concretamente tale obbligatorietà? “Esiste già un’istituzione, la World Trade Organization (WTO, Organizzazione mondiale del commercio), le cui decisioni sono legalmente vincolanti per gli aderenti – conclude Frattini – che siano Paesi ad alto o basso reddito. Potrebbe dunque essere una direzione in cui guardare. È nella natura delle cose dover lavorare per un accordo che soddisfi tutti, ma credo che un contesto globalmente vincolante sia fondamentale per far funzionare la giustizia climatica.”