C’è tempo fino al 7 gennaio 2024 per visitare al Forte di Bard, in Valle d’Aosta, la mostra “Il Monte Bianco. Ricerca fotografica e scientifica”, aperta il 29 luglio scorso.
L’esposizione si inserisce nel progetto dell’Associazione Forte di Bard intitolato proprio “L’Adieu des glaciers”, nato nel 2019 dalla percezione – evidente anche solo agli occhi dei frequentatori abituali della montagna – delle criticità che già allora i ghiacciai stanno vivendo. Da qui l’intenzione di fare ricerca fotografica e scientifica sui quattro principali gruppi glaciali della Valle d’Aosta: Monte Rosa, Monte Cervino e Gran Paradiso prima e ora, con la mostra in corso, il Monte Bianco.
Un secolo di modifica del clima: la misura del cambiamento
La prima foto è degli anni Venti del Novecento ed è stata scattata dal fotografo Alessio Nebbia. Dalle pendici del Monte Cormet la catena del Monte Bianco– dall’Aiguille del Glaciers al Mont Dolent– mostra nel contrasto del bianco e nero i suoi ghiacciai. Il secondo scatto, di Daniele Camisaca, è invece digitale ed è un mosaico di cinque fotogrammi, sempre dalla prospettiva del Monte Cormet. La ripresa è però del 12 settembre 2022 e il colore grigio che contrasta con l’azzurro del cielo mostra gli effetti di un secolo di cambiamento climatico.
Il fotografo e storico della fotografia Enrico Peyrot e Michele Freppaz, professore del Dipartimento di scienze agrarie, forestali e alimentari dell’Università di Torino, hanno curato l’allestimento che conta 142 autori, 29 schede di ricerca, una serie di foto-confronti e 73 fotografie tra presente e passato.
Sono esposte, ad esempio, le fotografie che Vittorio Sella, tra il 1934 e il 1935, stampò in grande dimensione con trattamenti a doppio tono da lastre sue e di altri autori. L’insieme ha il pregio di rendere evidente anche agli occhi dei meno avvezzi ai paesaggi montani la misura del cambiamento che le Alpi stanno attraversando e risponde anche all’esigenza sentita dall’Associazione di trasmettere alle future generazioni il ricordo dei ghiacciai del Monte Bianco.
Con gli occhi del ghiacciaio
Il percorso inizia, tuttavia, con un mutamento di prospettiva. Il visitatore si trova circondato da quattro vedute fotografiche sperimentali di aree recentemente deglaciate della Val Veny e della Val Ferret, sul versante valdostano della catena del Monte Bianco. Gli scatti mostrano volutamente una prospettiva da monte a valle, come se fossero generati dagli occhi del monte, occhi puntati verso l’uomo che osserva pendici spoglie ai fronti dei ghiacciai.
I dati quantitativi, invece, che raccontano ricerche passate o ancora in corso, sono affidati principalmente ad alcuni pannelli, tra i quali quelli dedicati al Ghiacciaio nero di Estellette, al Ghiacciaio orientale di Gruettae al Ghiacciaio del Miage.
Il Ghiacciaio nero di Estellette è stato oggetto tra il 2004 e il 2016 di campagne di rilevamento annuali per lo studio dei fattori che controllano la formazione e lo sviluppo della copertura detritica sopra il ghiacciaio (13% della superficie glaciale nel 2016, 22% nel 2020). Lo studio si è concluso nel 2016, dopo che nel 2012 la fronte è risalita sopra un gradino roccioso a quota 2.500 metri, con un ritiro frontale di 710 metri tra il 2005 e il 2014. Il pannello contiene due foto e nella seconda una linea gialla tratteggiata indica il settore di ghiaccio morto nel 2014.
Il Ghiacciaio Orientale di Gruetta, dopo il distacco dal bacino di alimentazione della lingua valliva del ghiacciaio di Pré de Bar nel 2012, misurata regolarmente sin dagli anni ’50, è rimasto l’unico a essere oggetto di misurazioni annuali di variazione frontale in Val Ferret. Infatti nell’area la maggior parte dei ghiacciai presenta fronti difficilmente raggiungibili a causa delle elevate pendenze dei versanti e della presenza di un gradino roccioso a quota 2.400 metri circa. Le misure, dal 1995, hanno documentato un ritiro complessivo di 234 m in 27 anni (8,5 m/anno).
Infine, il ghiacciaio del Miage è sicuramente il più importante “ghiacciaio nero” (un ghiacciaio con la lingua ricoperta da detriti originato da fenomeni franosi) delle intere Alpi. La copertura detritica ha un ruolo importante nell’ecosistema alpino: se lo spessore è elevato ne riduce i tassi di fusione. In questo caso la copertura si è sviluppata prevalentemente tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento e nonostante la sua forte presenza in alcuni settori (anche un metro), dal 2008 al 2022 lo spessore del ghiacciaio si è ridotto di circa 23 metri di spessore, per un volume totale di 110 milioni di metri cubi: in 14 anni è stata persa una riserva di acqua dolce pari a 100 miliardi di litri.
Oltre che dalle fotografie, il Ghiacciaio è rappresentato da un plastico, frutto della collaborazione con il Comitato glaciologico italiano e con aurora-Meccanica (collettivo che realizza videoinstallazioni per i circuiti artistici): con l’interazione è possibile visualizzare e leggere i dati dell’arretramento del ghiacciaio nel corso degli anni.
Calano i laghi glaciali e la disponibilità di acqua in montagna
Un approfondimento è dedicato anche al lago del Miage, uno dei più noti laghi di contatto glaciale delle Alpi. Almeno una quindicina degli svuotamenti a cui è stato soggetto si sono verificati dalla metà del XX secolo. Nel 2003, al momento della sua massima estensione (circa 37.000 metri quadrati) prima dello svuotamento verificatosi nel 2004, la sua profondità massima era di 30 m, con una temperatura dell’acqua compresa tra 5°C e 8°C. Due foto mostrano la differenza: quello che era un unico lago è ora nettamente separato in tre-quattro piccoli laghi.
L’acqua di fusione passa dal Ghiacciaio del Miage al Lago Verde e poi agli alberi, ma negli ultimi anni, a causa dell’elevata fusione del ghiacciaio indotta dal riscaldamento globale, il lago si sta prosciugando, esponendo così l’ecosistema forestale a fenomeni di carenza idrica. La disponibilità di acqua in montagna sta diventando sempre più un fattore cruciale, in grado di indurre forti cambiamenti nell’ecosistema alpino.
La ritirata dei ghiacciai chiama la scienza a nuovi compiti. Il Ghiacciaio del Miage è stato utilizzato per un monitoraggio della colonizzazione dei detriti supraglaciali da parte di popolazioni microbiche fungine. La ricerca ha messo in evidenza come le cellule microbiotiche fungine, depositate a partire dai detriti circostanti o continuamente trasportate dal vento e dalle precipitazioni atmosferiche, possano colonizzare i detriti supraglaciali, contribuendo alla degradazione della sostanza organica presente.
Gli ambienti lasciati liberi dall’arretramento dei ghiacciai permettono di studiare i processi di formazione del suolo. Le morene del Ghiacciaio del Miage, cioè l’accumulo di materiali rocciosi e terrosi trasportato o depositato da un ghiacciaio, consentono di valutare lo sviluppo dei suoli e della vegetazione su un’ampiezza temporale millenaria e di approfondire le complesse interazioni fra i microrganismi del suolo e le piante.
“La percezione dell’urgenza degli interventi necessari a un reale cambiamento della situazione climatica, e quindi della conservazione dei nostri ghiacciai, in questi quattro anni di cammino del progetto “L’Adieu des galciers”, ci pare non sia ancora stata assimilata a sufficienza;” scrive la presidente Associazione Forte di Bard Ornella Badery, nella sua introduzione al catalogo della mostra “il rischio concreto è il passaggio a un livello di irreversibilità nell’evoluzione climatica, che renderò la terra inospitale per l’uomo”.