Ancora una volta l’arte guarda alla natura, in particolare al mondo vegetale, come ispirazione per costruire un altro futuro, senza però tralasciare il conflitto. La mostra “The Butterfly Affect”, ospitata dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino e curata da Irene Calderoni e Bernardo Follini, presenta la sfera dell’affettività interspecie come modalità con cui immaginare nuovi paradigmi di coesistenza sociale e ambientale, allontanandosi dalle prescrizioni del dominio estrattivo.
L’allestimento, che chiuderà il prossimo 15 ottobre, raccoglie le opere (sculture, installazioni, pitture, video) di undici artiste e artisti da Stati Uniti, Sud Africa, Canada, Regno Unito, Cile, Brasile e Italia. Inoltre, il 12 e 14 ottobre sono organizzati eventi (reading, performance e pratiche artistiche) nel cuore dello spazio espositivo.
“Nell’ambito delle attività della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo – dichiarano ad Agenda17 Irene Calderoni e Bernardo Follini, curatori della mostra – pensiamo sempre allo spazio della mostra come un luogo polifonico e democratico, attraversato da differenti prospettive, le opere dellə artistə. Questi dialoghi tra più voci fanno emergere discorsi, metodologie, immaginari connessi a domande pressanti della nostra contemporaneità. I programmi pubblici e i programmi educativi rappresentano quindi per noi delle occasioni per sviluppare ulteriormente questi discorsi e queste domande, provando a far emergere differenti tracce, più o meno sotterranee nel percorso di mostra.”
Responsabilità individuale e processi collettivi: oltre il legame scientifico, quello affettivo
Il titolo dell’esposizione richiama la nota domanda formulata nel 1972 dal matematico e meteorologo Edward Norton Lorenz (“Può il battito delle ali di una farfalla in Brasile scatenare un tornado in Texas?”) e il filo conduttore della mostra può essere individuato nella connessione tra responsabilità individuale e processi collettivi.
Il virare di “effect” in “affect” sottolinea però principalmente la sfera dell’affettività, a cui si legano i temi della vulnerabilità e della salute. Questi ultimi sono esplorati grazie ai saperi erboristici, facendo emergere i processi di medicalizzazione del corpo e di stigmatizzazione della malattia.
Vulnerabilità e salute legano tutti gli esseri, umani e vegetali
Ad esempio, Plant saga di Patricia Domínguez è una sorta di altare pensato per accogliere tributi e rendere possibili le pratiche di cura e riparazione necessarie a ricostruire un rapporto equilibrato e rispettoso con l’ambiente.
La codificazione e la presentazione degli elementi non è lineare o gerarchica, per consentire l’emergere di modi di vivere sostenibili e possibili futuri vivibili. Per l’artista, “le piante sono una fonte di conoscenza piuttosto che soggetti da studiare. Sono potenti tecnologie terrestri con la capacità di essere alleate dell’uomo nei processi di cambiamento che stiamo attraversando”.
L’artista e attivista per i diritti delle persone disabili Sharona Franklin, poi, che convive con diverse malattie autoimmuni degenerative, si interroga poi sull’accesso, la cura, la malattia e la disabilità. Le sue installazioni “accolgono” lana, gelatina, gomma, prodotti farmaceutici scaduti, tapioca, prodotti botanici misti, siringhe, posate per mettere in relazione i diversi approcci alle metodologie di guarigione, intrecciando la medicina psichedelica e vegetale con il complesso farmaceutico-industriale.
Un filo conduttore lega la salute umana e il mondo vegetale anche in Dungeness, il video di circa sedici minuti di Isaac Julien che rievoca la storia di Derek Jarman (regista, pittore, scrittore, esperto di botanica, attivista, icona queer) e di Prospect cottage, una vecchia casa di pescatori sulla spiaggia di Dungeness, nel Kent in cui Jarman si era ritirato dopo la diagnosi di positività al virus HIV.
Due narrazioni differenti scorrono parallele e dialoganti su due schermi uniti ad angolo sul lato corto. Derek Jarman e Swinton, sua amica e musa, abitano lo stesso paesaggio e attraversano il giardino: il primo arriva allo spettatore attraverso l’immagine in formato super-8, quasi pittorica; la seconda attraverso l’evidenza delle fasi di produzione cinematografica. Keith Collins, nella prefazione del libro Derek Jaman’s Garden scrive: “Piano piano il giardino assumeva un nuovo significato – le piante, che prima lottavano contro il vento sferzante della Death Valley, come Derek lottava contro la malattia, iniziavano a sbocciare, mentre lui lentamente sfioriva”.
Due vasi di fiori e uno specchio richiamano poi la condizione della fragilità esistenziale e il tema della vanità e della cura nelle sculture di Zoe Williams.
L’artista coinvolge non solo i sensi della vista, ma anche quello del tatto e dell’olfatto facendo così coincidere il richiamo sessuale con la decadenza e la morte. Sull’incontro sessuale, in particolare quello tra persone sconosciute all’aperto, lavora anche Sebastiano Impellizzeri, con mappe di complessa decodifica, che contengono le coordinate spaziali ed emotive delle aree di cruising. Rachel Youn produce un immaginario ironico e grottesco di cura, piacere e intimità, costruendo installazioni impiegando piante artificiali e macchine per i massaggi.
Il mondo vegetale è però anche luogo di conflitti e regole imposte
La botanica e il mondo vegetale, però, nel percorso espositivo è visto anche come terreno di conflitto governato da dinamiche di sfruttamento e di oppressione. Alcune opere discutono le modalità con cui lo spazio naturale è costruito fisicamente e normato giuridicamente, e come ne è regolamentato l’accesso.
È il caso, in particolare, dell’opera di Jumana Manna che con Foragers, film del 2022 di sessantaquattro minuti girato sulle alture del Golan, in Galilea e a Gerusalemme, indaga l’impatto sociale ed economico delle leggi sulla protezione della natura del governo israeliano sulla popolazione palestinese, e di Lungiswa Gqunta, che decostruisce le eredità patriarcali e coloniali che regolano l’accesso e la proprietà della terra.
Gqunta avvolge strisce di stoffa verde, arancione e viola al filo spinato, cercando di occultarne la pericolosità, ma provocando comunque una sensazione di disagio in chi osserva.
Kapwani Kiwanga affronta le asimmetrie del potere a partire dal giardino all’inglese e dalle tecnologie botaniche di epoca vittoriana, attraverso una scultura gonfiabile in PVC e metallo che ospita una Cissus antarctica, specie che nell’Ottocento fu importata dall’Australia all’Inghilterra grazie a uno dei primi impieghi delle teche di Ward (un vero e proprio ecosistema autosufficiente in miniatura che consente il trasporto da un continente all’altro delle specie botaniche , e che contribuì a cambiare paesaggi, coltivazioni, giardini e collezioni botaniche di tutto il mondo).
Ja’Tovia Gary, con il video di sei minuti Giverny I (NEGRESSE IMPERIALE) del 2017, si focalizza sul giardino di Claude Monet a Giverny, per riflettere sulle violente politiche della rappresentazione del corpo nero.
Infine Jota Mombaça osserva l’innalzamento marino e la crisi ambientale alla luce delle odierne discriminazioni di genere, classe e razza, presentando un’installazione prodotta originariamente per la sua performance “in the the tired watering”, avvenuta sull’Isola di San Giacomo a Venezia, nuova sede della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.
Eventi e performance a chiusura della mostra
In dialogo con le opere sono ora previsti diversi eventi: il 12 ottobre all’interno degli spazi espositivi si susseguiranno le letture, a cura di Gabriella Dal Lago, di Adrienne Rich e di Judith Schalansky. Il 14 ottobre verrà ospitata la pratica artistica della dance well, rivolta principalmente a persone con Parkinson ma aperta a chiunque voglia partecipare e infine, sempre il 14 ottobre, è prevista una performance di e con Elena Maria Olivero in dialogo con le mediatrici culturali dell’arte della Fondazione nel contesto del Let’s Talk.
“Le attività che abbiamo ospitato e ospiteremo all’interno della mostra ‘The Butterfly Affect’ esplorano alcuni orizzonti suggeriti dalle opere. Ogni progetto che abita lo spazio espositivo aiuta così a tessere ulteriormente il filo delle storie e delle riflessioni di una mostra, coinvolgendo sempre i pubblici come soggetti attivi in un processo di produzione di conoscenza condivisa” concludono Irene Calderoni e Bernardo Follini.