Le saline di Makgadikgadi, in Botswana, ricordano molto da vicino alcuni terreni che caratterizzano la superficie di Marte. Nel pleistocene, oltre diecimila anni fa, questa regione del Paese africano, oggi secca, ospitava un grande lago di cui rimane solo una vasta distesa d’argilla salata. È proprio questo che ne fa un “analogo marziano”: un luogo sulla Terra che presenta una o più caratteristiche geologiche o ambientali simili a quelle presenti, oggi o nel passato, sul Pianeta rosso.
Una collaborazione internazionale, che vede la partecipazione di ricercatori africani ed europei, sta studiando questo ambiente estremo dal punto di vista geologico, mineralogico e microbiologico per tracciare paralleli con Marte. Tra gli obiettivi c’è anche quello legato all’astrobiologia: valutare la possibilità che sul pianeta esistano, o siano esistite in passato, forme di vita.
Studiare le faglie delle saline per capire la circolazione dell’acqua su Marte
“Stiamo caratterizzando le faglie nel bacino delle saline di Makgadikgadi per capire se c’è un collegamento tra le faglie e la circolazione dell’acqua nel sottosuolo, che è un aspetto importante della geologia marziana” – commenta ad Agenda17 Fulvio Franchi, professore associato presso il Dipartimento di Scienze della Terra e dell’ambiente, Botswana International University of Science & Technology.
Le saline di Makgadikgadi sono il più grande bacino evaporitico interno – quel che resta di un lago essiccato – al mondo. L’ambiente è alimentato dal deflusso superficiale e dalla risalita delle acque sotterranee che danno origine a canali alluvionali, sorgenti effimere, morfologie stratificate e depositi di sedimenti.
Le morfologie stratificate delle saline si possono riconoscere facilmente attraverso telerilevamento per fare un confronto con quelle osservate su Marte. Vi prosperano inoltre comunità microbiche di estremofili – organismi in grado di vivere in ambienti estremi – tra cui batteri, alghe e funghi, che permettono di studiare i limiti della vita sulla Terra in relazione ad ambienti analoghi su altri pianeti.
Alcuni miliardi di anni fa Marte non era il pianeta arido che oggi conosciamo. La sua superficie era ricoperta di fiumi, laghi e oceani. Se ne osservano le tracce nella morfologia marziana odierna: canyon, delta di fiumi e bacini di laghi essiccati come il cratere Jezero, dove nel 2021 è atterrato il rover Perseverance della NASA. Esistono anche prove, seppur controverse, della presenza di acqua liquida nel sottosuolo marziano.
Per comprendere a fondo l’evoluzione di Marte e svelare alcuni dei suoi misteri, in particolare quelli legati alla sua potenziale abitabilità, esistono oggi diverse sonde in orbita attorno al pianeta e rover che ne esplorano la superficie, realizzate da svariati paesi del mondo – dalla NASA alle agenzie spaziali europea, russa, giapponese, indiana, cinese ed emiratina.
Un complemento alle osservazioni dirette viene dallo studio di analoghi marziani come le saline di Makgadikgadi. In questi siti terrestri dalle proprietà estreme, non dissimili da quelle di Marte, i planetologi possono toccare con mano alcuni dei processi che hanno contribuito a plasmare il Pianeta rosso.
Una comunità scientifica paritaria di studiosi europei e africani
Allo studio delle saline in Botswana, sotto l’egida della Europlanet Society, partecipano attivamente studenti e scienziati africani che si interfacciano con le loro controparti europee da pari, come collaboratori a pieno titolo e non solo come “ospiti” o guide del posto – un aspetto chiave per la costruzione di una comunità scientifica globale equa e inclusiva.
“Si deve uscire dal paradigma della ricerca come aiuto umanitario – nota Franchi –. Ci vuole attenzione da parte di chi alloca i fondi, per capire cosa succede in Africa, cosa è già attivo e cercare di far proliferare realtà già esistenti. Il problema principale è la mancanza di continuità nei fondi di ricerca. Si deve considerare l’Africa come l’Europa: un gruppo forte continua a vincere progetti.”
“Diavoli di polvere” nelle saline come quelli su Marte
Un esempio di queste collaborazioni è la campagna guidata nel 2021 da un team dell’Instituto Nacional de Técnica Aeroespacial (INTA), in Spagna, per inseguire i diavoli di polvere che si formano a centinaia nelle saline alla fine della stagione delle piogge. Si tratta di coni di sabbia e polvere che vorticano per un breve intervallo di tempo sulla superficie, raggiungendo fino a decine di metri d’altezza, simili agli ancor più imponenti diavoli di polvere che solcano le lande desertiche di Marte.
La superficie piatta delle saline spazzata dal vento è ideale per testare strumenti in vista di future missioni marziane. Il team dell’INTA ha usato due stazioni meteorologiche: una identica allo strumento Radiation and Dust Sensor, attivo sul rover Perseverance, e l’altra al Sun Irradiance Sensor che volerà su Marte a bordo del rover europeo Rosalind Franklin.
Commissione europea e Università del Botswana insieme per superare il paradigma occidentale
Per facilitare questi progetti è nato il Pan-Africa Planetary and Space Science Network, un programma di mobilità intra-africana per le università del continente dedicato alle scienze planetarie e spaziali. Il consorzio, finanziato dalla Commissione europea, è guidato dalla Botswana International University of Science and Technology e include università in Etiopia, Nigeria, Sudafrica, Zambia e Italia.
“Il programma finanzia sessantacinque borse di studio per giovani ricercatori, studenti di master e dottorato in scienze planetarie in Africa” – sottolinea Franchi, che nel suo team di ricerca vede impegnati un dottorando etiope e studenti di master da Camerun e Ruanda –. “È riservato a studenti africani, cioè residenti in Africa: lo scopo è distruggere il paradigma secondo cui chi vuole studiare queste discipline deve andare in Occidente.
Ha riempito un grande gap nel continente, perché l’astrobiologia e le scienze planetarie non erano molto sviluppate prima che io mi trasferissi in Botswana. Il prossimo passo è quello di creare un centro di eccellenza per le scienze planetarie e spaziali in Africa per incrementare le risorse locali fino a renderle autosufficienti”.