La stagione turistica non è ancora finita, ma agosto ormai ci ha lasciati e sono possibili i primi bilanci. E non sono positivi. A parte le ondate di calore, che hanno portato alcuni a sconsigliare i viaggi nel nostro Paese, e Medicane, il ciclone tropicale del Mediterraneo, che non saranno eccezioni a causa del cambiamento climatico, i conti non sono soddisfacenti. A partire da quelli degli italiani, che hanno fatto meno vacanze e per periodi più brevi.
Avrebbe dovuto essere l’anno del turismo, il primo a pieno regime dopo quelli funestati da Covid-19, e oltre alla serenità per chi in vacanza ci va, avrebbe dovuto portare anche sollievo a un’economia che negli ultimi mesi dà segnali negativi nei settori fondamentali.
I flussi di turismo, come è noto, non sono legati solamente a fattori di gusto e di moda, ma sono il frutto di scelte politiche precise, che comportano il coinvolgimento di molti attori e impegni su molti fronti.
Non solo: la “qualità” del turismo è importante tanto quanto la quantità. Nulla di più insensato che la distruzione di valori artistico-ambientali di valore storico irripetibile per un profitto immediato ma di breve durata.
Su questi temi abbiamo chiesto il parere di Gianfranco Franz, docente di Progettazione per turismi sostenibili e direttore del Laboratorio di progettazione multidisciplinare in itinerari per turismi culturali e sostenibili dell’Università di Ferrara e autore, per i tipi di Mimesis edizioni, de L’Umanità a un bivio. Il dilemma della sostenibilità a trent’anni da Rio de Janeiro
I dati che provengono dal settore del turismo sembrano indicare che il boom atteso per questa stagione non c’è stato, e che l’aumento di presenze abbia riguardato sostanzialmente la fascia degli stranieri a reddito medio alto. Quali sono a suo avviso le cause di questo andamento di mercato?
“Credo che non si tratti semplicemente di un andamento di mercato contingente ma di un fenomeno e di una crisi che sta colpendo le principali economie mondiali e i Paesi più ricchi.
Dapprima c’è stato un processo inflazionistico dovuto al Covid, quando per reagire al blocco quasi totale delle attività a scala globale, i Paesi più importanti hanno iniziato a stampare carta moneta immettendola sul mercato, generando ovviamente inflazione, che è sempre la risposta più immediata di fronte a una crisi; appena trascorsa la pandemia il Mondo ha dovuto confrontarsi con la guerra fra Russia e Ucraina e la conseguente crisi energetica dovuta alle speculazioni sui prezzi del gas, della benzina e del gasolio più che a una reale scarsità di mercato.
Anche in questo caso si è generata inflazione e a questo punto le maggiori banche centrali, quella degli Stati Uniti e quella dell’Unione Europea hanno dato vita a una controversa stretta sui mercati finanziari rialzando progressivamente i tassi di interesse. La prosecuzione della guerra e il suo ampliamento a tutto il blocco occidentale in quanto fornitore di armi e risorse finanziarie all’Ucraina ha generato il terzo motivo inflazionistico: inviare armi, produrre munizioni, rimpolpare gli arsenali occidentali e fornire finanziamenti freschi all’Ucraina costa moltissimo denaro, che viene stampato in grande quantità ma non sufficiente, come accadde con la pandemia.
È così che ci stiamo trovando con una stretta finanziaria dovuta al rialzo dei tassi di interesse ma, paradossalmente, a un continuo utilizzo di enormi risorse finanziarie per sostenere la guerra nella speranza che la Russia collassi.
Tutto questo sta generando un pesante e progressivo impoverimento delle classi medie occidentali, termine che comprende anche paesi come il Giappone, la Corea del Sud e gran parte del mondo latinoamericano.
La necessità di fare le vacanze – perché sempre di più nelle società ricche e opulente del Nord Globale le vacanze sono ormai una necessità – per molte famiglie si sta scontrando con l’impossibilità di sostenerne i costi.
È questo – io credo – il problema principale della crisi che ha colpito il settore turistico occidentale proprio nell’estate del 2023, quella che si sperava fosse l’estate della ripresa dal crollo delle attività registrato fra il 2020 e il 2021. Le famiglie della classe media hanno sempre meno liquidità a disposizione.”
Se questa situazione dovesse tendere ad affermarsi nel futuro, quali sono i suoi punti di forza e debolezza?
Il modo di fare vacanza e di fruire delle ferie per milioni di persone era già cambiato nei decenni scorsi: periodi più brevi di vacanza, disseminati nel corso dell’anno piuttosto che concentrati nella stagione estiva.
Tuttavia, se il processo di impoverimento delle classi medie e di gran parte dei giovani, colpiti da una parte dal progressivo aumento dei costi per l’istruzione universitaria – diventata ormai una merce sempre più costosa – e dall’altra da un aumento della precarizzazione professionale che si traduce in una riduzione dei salari, il fenomeno delle vacanze di massa non potrà che cambiare profondamente.
Da un lato assisteremo a una continua crescita delle ondate di turismo di massa internazionale all’assalto di città come Parigi, Roma, Venezia, Firenze, ma anche luoghi di minore dimensione come le Cinque Terre o San Gimignano, perché ci sono centinaia di milioni di persone in Cina, India, indonesia, Brasile, Messico che hanno raggiunto uno status di classe media e vogliono avere le loro vacanze, dall’altro chi, nei Paesi ricchi, non potrà avere le vacanze che si prendeva nel recente passato, proverà a modificare sia le modalità di fruizione delle ferie, sia le destinazioni: più vacanze a basso costo, periodi più brevi, destinazioni più vicine.
Sarà una risposta subita e, da un punto di vista psicologico, non sempre gradita. Credo che i maggiori riflessi si avranno da un punto di vista psicologico, di frustrazione.
Solo sessanta anni fa, all’alba della grande rivoluzione dei costumi che si scatenò nei Paesi occidentali con le ferie garantite a tutti i lavoratori pubblici e privati, meno della metà della popolazione di ciascun Paese faceva le vacanze.
Dagli anni Sessanta del Novecento in poi, invece, le ferie sono diventate prima un diritto poi un elemento qualificante del proprio tenore di vita e, quindi, anche dell’autostima personale e familiare, tanto quanto il possesso di una berlina per il capofamiglia – come si diceva un tempo – e di una utilitaria per la massaia/madre/moglie.
Dagli anni Settanta in poi questo senso di necessità dovuto al benessere crescente si è poi trasferito al bene casa, con la rapida diminuzione in tutta Europa delle famiglie in affitto e l’aumento di quelle con l’alloggio di proprietà e, rapidamente, di una seconda casa per le vacanze.
Tutto questo oggi è in profonda discussione. Se già il lavoro è sempre meno un diritto, come anche la casa, e lo stanno diventando anche l’istruzione o le cure sanitarie, proviamo a chiederci cosa per molte decine di milioni di europei potranno diventare le vacanze.
Lei insegna Progettazione culturale per turismi sostenibili, e dirige anche un Laboratorio su questo tema, che si occupa, fra l’altro, di quello che potremmo chiamare “Turismo lento” di cui abbiamo parlato. Pensa che questo tipo di turismo sia una prospettiva realistica per il nostro Paese, o è destinata a rimanere confinata a una fascia minoritaria – e un po’ elitaria – di pubblico?
“Credo che il turismo lento si affermerà lentamente. Non è una battuta. Certamente siamo di fronte a una nicchia turistica ancora di non grandi dimensioni, certamente un po’ elitaria, scelta da attivisti ecologisti, persone attente alla natura, intellettuali che vogliono stare lontano dalla massa.
Ma nel tempo questa nicchia crescerà, come è cresciuta negli ultimi tre decenni la nicchia di chi mangia biologico, come sta crescendo la nicchia dei vegetariani. È questione di tempo.
Io porto sempre l’esempio della ormai mitica rivista “Il Gambero rosso”, fondata nel 1986, e di Slow Food, associazione nata anch’essa nel 1986.
Queste due ‘novità’ culturali generarono un gran dibattito politico, culturale, sociologico, nel corso degli anni Ottanta, ma rivoluzionarono il modo di confrontarsi con il cibo e, in seconda battuta, anche con il modo di fare vacanze. È stato un cammino lungo, come lungo lo sarà per i turismi lenti, i turismi di prossimità e quelli di relazione. Per ora fanno piccoli numeri, ma questi cresceranno nel tempo al crescere dell’offerta.”
Il caso dei danni dovuti ai grandi concerti nelle città d’arte – al Circo Massimo a Roma e al Parco urbano a Ferrara – ha fatto molto discutere questa estate. Cosa ne pensa? come è possibile coniugare il rispetto dei beni architettonici e ambientali con il piacere delle manifestazioni musicali di massa e con i benefici economici per le città in cui si svolgono?
“ Il caso dei mega concerti è un insieme di paradossi. Io, per l’età che ho, ho vissuto da giovanissimo le emozioni dei grandi concerti. Ma si tenevano negli stadi ed eccezionalmente nell’Arena di Verona, da sempre vocata agli eventi musicali anche di massa. Uno dei momenti di svolta fu il concertone dei Pink Floyd a Venezia, durante la festa del Redentore del 1989, voluto fortissimamente da Gianni De Michelis, allora potentissimo politico socialista, pluriministro e sponsor della poi abortita Expo di Venezia.
Fu un bellissimo concerto e un disastro per la città. Ma fu anche il momento di sdoganamento dell’uso del patrimonio culturale, architettonico e monumentale per eventi che producono una pressione eccessiva.
Non a caso la sciagurata definizione di “giacimenti culturali” la dobbiamo ancora una volta all’immaginifico Gianni De Michelis: sciagurata perché i giacimenti – come tutti sanno – prima o poi, a furia di estrazioni, si esauriscono. Ed è quel che succede al patrimonio da qualche anno. A cui di recente si deve aggiungere la ancora più sciagurata abitudine di fare concerti nelle spiagge, un danno di cui dobbiamo ringraziare Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti.
Perché dobbiamo usare delle bellissime spiagge, dei bellissimi parchi, delle bellissime piazze per dei mega concerti? Abbiamo gli stadi, abbiamo spazi che potrebbero ospitarli senza impatti disastrosi. Lo stesso concerto più famoso della musica rock, quello di Woodstock, fu organizzato su una proprietà agricola affittata per l’occasione. Venne la pioggia e il prato andò distrutto trasformandosi in un pantano di acqua, fango, vestiti, stracci, tende. Ma il proprietario ebbe la sua parte e il danno fu minimo.
Io stesso partecipai a un concerto dei Weather Report nelle campagne intorno a Mestre. Anche lì finì tutto nel fango, ma era un prato agricolo non un parco a beneficio dell’intera comunità urbana.
E le cose sono ancora più gravi quando usiamo vestigia romane. La stessa Arena di Verona può essere appropriata per un concerto di musica classica o di opera, ma non esserlo per un concerto rock, dove i decibel picchiano più a fondo e pure i piedi del pubblico.
Infine, una parola sui benefici economici che i concerti e gli eventi di massa producono nelle città che li ospitano. È vero e sono sempre benefici benvenuti, ma lo sono solo per una parte dei cittadini e dei lavoratori.
Questo significa che non può essere la città intesa come collettività a pagare le spese o i danni, che devono essere accollati agli organizzatori in quanto imprese private che utilizzano temporaneamente un bene pubblico.
A maggior ragione se si tratta di un bene monumentale che dobbiamo conservare per le generazioni future anche nel suo significato. Il Circo Massimo, Piazza San Marco a Venezia e Piazza Trento e Trieste a Ferrara non sono luoghi da sequestrare per eventi di grande impatto. Possono ospitare eventi, ma che siano garbati, pochi, un’eccezione e non la norma.