Lì, dove ha avuto origine la pandemia di Xylella, può ripartire un modo nuovo di guardare al territorio e di prevenire catastrofi future. Per farlo occorre ricucire lo strappo tra cittadini, agricoltori e ricerca scientifica, ma soprattutto serve un cambiamento di visione. La diffusione del batterio ha trovato terreno fertile in un sistema agricolo disorganizzato e fragile, solo con un rinnovato presidio sul territorio si potranno gestire le crisi future.
Collaborazione tra agricoltura e ricerca scientifica
Di 85 mila ettari colpiti, ne sono stati reimpiantati solo 4 mila per lo più delle due varietà resistenti al batterio: Leccino e Fs-17.
Secondo Giovanni Melcarne, agronomo, olivicoltore e presidente del Consorzio di tutela dell’olio extravergine di olive Terra d’Otranto Dop, nè queste quantità, nè queste varietà da sole saranno sufficienti per garantire un futuro olivicolo-oleario nel Salento. Per questo dal 2016 Giovanni collabora con il Cnr-Istituto per la protezione sostenibile delle piante (CNR-Ipsp) di Bari a un vero e proprio piano di miglioramento genetico a partire da cultivar autoctone.
“Ho messo a disposizione una parte dei miei campi per la sperimentazione – dichiara ad Agenda17 Melcarne – perché sia nella situazione di prima che in quella di oggi la soluzione te la può dare solo il mondo della ricerca. Anche se lo Stato avesse dato finanziamenti consistenti, che non ha dato, senza cultivar resistenti non avremmo potuto avere la lenta ripartenza che abbiamo ora”.
Anche per la ricerca scientifica il rapporto con il territorio è fondamentale, perché la stragrande maggioranza delle sperimentazioni non possono essere fatte in laboratorio, ma vanno fatte in campo aperto e soprattutto perché la conoscenza di chi coltiva è preziosa per il progresso delle conoscenze. Dal 2018 è in piedi all’interno del progetto ResiXO del CNR di Bari una campagna di citizen science proprio nelle zone del Salento dei primi disseccamenti. Si cerca germoplasma che mostri sintomi ridotti o assenti della malattia in varietà autoctone anche minori spesso piantate, per caso o per prova, in un numero esiguo di esemplari o in semenzali spontanei ovvero piante provenienti da semi distribuiti casualmente soprattutto da uccelli e spesso allevati fino a superare la lunga fase giovanile ed arrivare a produrre olive.
Proprio dai campi di Giovanni Melcarne, e a partire da quei semenzali, sembrano arrivare, a distanza di anni, risultati positivi: trenta nuove piante da incrocio di cui sono stati già estratti gli oli sembrano, dalle analisi preliminari, essere resistenti al batterio.
Una timida speranza che va innestata però in un sistema territoriale che non può rimanere lo stesso.
Gli incentivi non bastano
Il “Fuoco invisibile” ha attecchito in un territorio, quello della Provincia di Lecce, che si presenta fortemente parcellizzato. All’arrivo di Xylella, i dati del 6° Censimento agricolo ISTAT fotografano questa situazione: la coltivazione dell’ulivo occupa il 92,6% delle aziende totali e il 60,4% della Superficie agricola utilizzata (Sau) totale. La Sau media per azienda è poco più di 2 ettari (con un valore doppio a livello regionale e quadruplo a livello nazionale); il 99% dei terreni è condotto mediante azienda individuale e per l’82% quella impiegata è manodopera famigliare.
Antonio Bonatesta, ricercatore in storia contemporanea e docente dell’Università di Bari, che per un periodo ha coordinato la Consulta ambientale della Provincia di Lecce, descrive ad Agenda17 il contesto sociale delle campagne del leccese: “sarebbe riduttivo credere che Xylella abbia distrutto soltanto il patrimonio olivicolo salentino; essa ha soprattutto distrutto pezzi consistenti della proprietà agraria, all’interno della quale vi sono in gran numero i piccoli proprietari.
Non si può generalizzare, ma molti di questi soggetti che spesso hanno ricevuto ridotti appezzamenti di terra in eredità, abituati a gestirli in termini di autoconsumo, non hanno le risorse, o non sono interessati a spenderle, per gestire le conseguenze della catastrofe e la stessa riconversione colturale”.
Bonatesta individua in questa fascia di popolazione, prodotta dal lungo processo di svuotamento demografico e produttivo dell’agricoltura, anche gran parte della forte reazione emotiva all’origine dei conflitti sociali degli ultimi anni: “È scattato questo meccanismo: interi pezzi della società salentina che non stanno più dentro le campagne, che non lavorano più la terra, hanno voluto legittimamente esercitare un ruolo pubblico opponendosi all’espianto, ma hanno impostato il problema più su basi affettive, che su solide argomentazioni scientifiche”.
La storia degli incendi nel Salento degli ultimi anni, il fuoco visibile che mette il cimitero degli ulivi anneriti sotto gli occhi di tutti, è soprattutto, secondo Bonatesta, l’ultimo capitolo del declino di questa classe dei piccoli proprietari.
“Buttare incentivi nell’attuale situazione delle campagne salentine non ha senso – continua Bonatesta- perché per lo più manca il soggetto interprete di una nuova politica territoriale. Gli incentivi agli espianti, ai reimpianti degli ulivi creano enormi contraddizioni, perchè danno per scontato che ci sia ancora un soggetto produttivo all’interno delle campagne, ma di fatto non c’è, salvo pochi casi”.
La sfida è ripensare il sistema fondiario in un’ottica di presidio produttivo sostenibile
Quello che è mancato e manca ancora è un vero presidio sul territorio.
“È necessario procedere a una ricomposizione delle unità produttive – continua Bonatesta. Non si tratta di riportare in auge il latifondismo, ma noi nelle campagne non abbiamo più persone che le abitino quindi può succedere qualsiasi cosa. Servirebbe un’agenzia regionale, con i fondi del Pnrr magari, che individui aree, bacini di forte frammentazione dove insisteva l’ulivo, acquisti queste aree e le ricomponga in aziende più grandi, rimettendole sul mercato. Solo la mano pubblica può farlo. Serve una riforma agraria al contrario che riporti realtà solide sul terreno”.
La gestione pubblica del territorio, che tenga conto delle peculiarità locali è stato uno degli anelli mancanti nella strage Xylella e dovrebbe riacquistare peso nella ricerca di soluzioni.
“Nella situazione attuale va ripensato tutto il territorio in un’ottica di sostenibilità economica e ambientale – riprende Giovanni Melcarne. Se l’ulivo millenario è arrivato fino a noi non l’ha fatto perché era un oggetto ornamentale, ma perché ha prodotto per secoli sostentamento alle famiglie. Oggi è impensabile parlare di paesaggio se non c’è reddito. Avremo un paesaggio diverso certo, ma il paesaggio agrario nei secoli e nei millenni è sempre cambiato. Se non vogliamo ricorrere in futuro a olio solamente estero dobbiamo puntare a un’agricoltura che produca a lungo termine, di precisione, con varietà autoctone migliorate geneticamente in campo.”
L’idea non è rimettere in piedi la stessa estensione di monocultura olivicola, ma ripristinare almeno una parte degli ulivi per tenere vive le filiere dei frantoi e le logistiche già collaudate nel tempo, a quel punto affiancare alla vite, che ha già un suo comparto strutturato, altri tipi di colture, adatte alle caratteristiche geomorfologiche e idriche del territorio, ma che si dotino di centri di trasformazione e quindi di una filiera possibile, altrimenti di nuovo si tornerà all’abbandono. E di riconversione produttiva si è parlato anche alla recente Conferenza EFSA “Xylella fastidiosa 2023”.
Rinaturalizzazione organizzata
A questa pianificazione lungimirante dovrebbe accompagnarsi la rinaturalizzazione di alcune aree per far fronte al cambiamento climatico che inevitabilmente acuirà i rischi di nuovi patogeni e nuove criticità produttive.
“Creare polmoni verdi per bilanciare gli effetti del riscaldamento climatico è necessario, soprattutto nella nostra provincia a rischio desertificazione, ma la riforestazione fatta fin qui è solo uno spot, un bel messaggio- conclude Bonatesta. Bisogna passare a qualcosa di più concreto. Utilizzare le minuscole proprietà della provincia per riforestare è un esempio virtuoso, ma serve un modello pubblico di gestione. Non può bastare l’approccio estetizzato di quella parte di società che non lavora più la terra. Il paesaggio non sopravvive senza una funzione produttiva e se non costruiamo, insieme a questo, una rinaturalizzazione organizzata”
Per scansare il pericolo che la storia si ripeta con piazze piene, ma campagne vuote il Salento post-xylella necessita di piccoli e medi soggetti produttivi nelle campagne, in sinergia con la ricerca scientifica, di zone rinaturalizzate per garantire l’equilibrio ecosistemico e un corpo istituzionale pubblico a protezione di un territorio ricompattato e meno fragile.