Tra le opere esposte nel Parco arte vivente (Pav) di Torino, quella di Stefano Boccalini, “PublicPrivate”, rispecchia in maniera particolare lo spirito del centro sperimentale d’arte contemporanea che la ospita. Per le due parole, public e private, l’autore ha scelto due materiali simili, acciaio e ferro, ma con caratteristiche tecniche che le rendono soggette in modo differente allo scorrere del tempo: l’acciaio mantiene la sua brillantezza originale mentre il ferro si deteriora e arrugginisce, richiamando implicitamente l’elemento dell’acqua, sulla quale è cruciale il dibattito politico come bene pubblico.
Dunque il tempo modificherà l’opera, evidenziando in maniera sempre più marcata la differenza tra le due parole, sia esteticamente che concettualmente, con l’intento di attivare una riflessione sul concetto di bene comune.
Un incubatore di coscienza ecologica
L’obiettivo del “padre” del Pav, l’artista Piero Gilardi che lo ha concepito, era del resto quello di creare un “incubatore” di coscienza ecologica. Gilardi, che ha scritto della costruzione di questa istituzione artistica nella prefazione di “La mia biopolitica” (Prearo Editore), ha parlato di consapevolezza della necessità di una conversione ecologica del modello generale di sviluppo, che si esprime nel movimento globale del bene comune.
Il Pav, diretto da Enrico Bonanate, ospita attualmente, nella sua area esterna, venti installazioni.
Nato nel 2008 nel sito industriale dismesso di una società dell’indotto FIAT che produceva componenti per auto, è di circa 23.500 mq, compresi aule e laboratori didattici. L’area esterna comprende installazioni ambientali, giardini e un progetto di apicoltura urbana che prevede la presenza di api all’interno de “La Folie du PAV” di Emmanuel Louisgrand.
Attualmente, e fino al 22 ottobre, il Pav ospita anche due mostre, coerenti con il progetto: “Andare con le radici” del gruppo Wurmkos e “Il parlamento delle cose” con Chiara Antonelli, Davide Barberi, Alessandro Cavallini, Traian Cherecheș e Chiara Scodeller, entrambe a cura di Marco Scotini.
Imparare dalle piante: cooperazione e non competizione
Per quanto riguarda “Andare con le radici”, la mostra individua nel mondo vegetale un ambito dal quale è possibile attingere per apprendere nuovi modelli di vita volti a immaginare forme virtuose di convivenza sociale, nel tentativo di scardinare le gerarchie costitutive delle politiche neoliberiste.
Il gruppo Wurmkos è stato fondato a Sesto San Giovanni nel 1987. Il progetto, definito dal curatore della mostra “un’esperienza ‘basagliana’”, mette in relazione arte e disagio psichico senza porsi obiettivi di salvezza.
Al progetto hanno preso parte e cooperato artisti, con disagio e non, critici e altre persone che partecipano alle molteplici azioni del progetto, che prende forma a partire dalla primavera del 2020. Si tratta di un percorso di autoriflessione e trasformazione che ha come soggetto in primo luogo le metodologie adottate dal gruppo stesso.
Il riferimento fondamentale è il mutuo appoggio teorizzato da Pëtr A. Kropotkin, secondo il quale il mutualismo contribuisce alla sopravvivenza delle comunità di ogni specie, costituendo un fattore dell’evoluzione. Per Kropotkin è dunque la cooperazione, e non la competizione, a garantire un vantaggio in ambienti inospitali.
Per illustrare la mostra si spiega che svariati esempi di alleanze fra piante, funghi e diverse forme di vita rendono evidente come in natura la sopravvivenza in condizioni talvolta inadatte alla vita sia possibile grazie al sostegno reciproco.
Conoscere e studiare esseri viventi che abitano il pianeta Terra da molto più tempo dell’essere umano significa imparare nuove strategie da chi ha sviluppato migliori strumenti di adattamento e, come scrive Stefano Mancuso, attraverso lo studio della biodiversità possiamo coltivare sguardi utili a comprendere la nostra pluralità.
L’allestimento è composto, tra l’altro, di un unico grande tavolo ricoperto da tre collage realizzati collettivamente dal gruppo Wurmkos e di un dispositivo calpestabile immaginato per essere vissuto come un suolo, un flusso che ospita una comunità vegetale non più conforme a una visione antropocentrica. In relazione all’opera calpestabile ci sono disegni a parete, le cui raffigurazioni rimandano agli erbari fantastici del naturalista cinquecentesco Ulisse Aldrovandi.
Una delle fotografie esposte ritrae invece il corpo di un uomo connesso al terreno con le radici attraverso le quali radica nel mondo vegetale. Rappresenta il simbolo e il mito dell’’Uomo selvatico”, una figura della cultura popolare che abita tra i boschi ed è ricoperto da una folta vegetazione.
Secondo il gruppo Wurmkos, guardando alle radici si può apprendere come gestire collettivamente i rischi e le difficoltà della “vita sotterranea” attraverso movimenti coordinati volti alla creazione di uno spazio comune, immaginando un agire che prende forma attraverso relazioni di alleanza.
Così, nel sottosuolo urbano, lontano da un centro distratto, artisti dai percorsi eterogenei, proprio come specie di piante differenti, intrecciano storie e segni che non dobbiamo necessariamente interpretare ma accogliere.
Il parlamento delle cose, dove umano e non umano interagiscono
La mostra “Il parlamento delle cose” si concentra invece su come le teorie e le pratiche che animano l’ecologia politica e l’ecofemminismo a partire dalla seconda metà del secolo scorso abbiano provocato delle fratture nel modello neoliberale ed etero-patriarcale.
Il titolo stesso è un diretto riferimento al programma di ecologia politica sviluppato dal filosofo e antropologo Bruno Latour che suggerisce la creazione di un “parlamento delle cose” appunto, volto a estendere la democrazia e i diritti di rappresentanza non solo all’umano ma anche e soprattutto al non-umano.
La mostra propone, tra l’altro, otto stampe e dodici brocche di terracotta che “raccontano” la performance “In acqua e terra la mano”, che si è tenuta a Norcia il 23 settembre 2022 con un gruppo di donne locali.
Il lavoro nasce da uno studio etnografico dei sistemi magico-protettivi messi in atto dalle donne dopo il sisma del 30 ottobre 2016 come possibile conforto alla paura.
L’installazione multimediale “Il fungo delle Alpi” (legno, stampe in acido polilattico e componenti elettroniche), traduce in forma fisica e tangibile l’esperienza di contemplazione di un paesaggio delle Alpi svizzere. L’obiettivo è quello di controllare e depotenziare un territorio altrimenti ingovernabile. Nell’installazione la restituzione grafica di una selezione audio è tradotta in curve di livello: gli elementi vengono animati dalle onde sonore emesse dagli speaker.
Trova spazio anche l’etnomusicologia, attraverso il video di Alessandro Cavallini. Una camera riprende i movimenti di una particella all’interno di un fontanile. L’ambiente acquatico si fa teatro e la colonna sonora, udibile tramite cuffie a disposizione dei visitatori, è un manifesto per la democrazia scritto da Delphine Mantoulet per il film Exils, diretto da Tony Gatlif.
Si segnala anche l’opera di Chiara Scodeller, “Erbario di genere – I fiori ermafroditi come concetto di genere nell’antropocene”: un manuale nel quale sono raccolte quaranta illustrazioni botaniche di fiori ermafroditi messe in relazione a uno slideshow che rimodula le vignette dei Gay Flowers realizzate da Stefania Sala per la rivista Fuori! – Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano.
In una di queste vignette, datata 1972, sono raffigurati la pratolina, chiamata a rappresentare il Fuori!, e un cactus, simbolo della società opprimente.
Fuori metafora, viene spiegato, la pratolina (Bellis perennis L.), è un fiore ermafrodita nel quale sia il sesso maschile sia il femminile risiedono nello stesso fiore, mentre il cactus (Cactaceae Juss) è un fiore bisessuale in quanto ha stami e pistilli insieme.
In realtà in biologia usare il termine bisessuale, ermafrodita o monoclino è equivalente e in ogni caso il cactus potrebbe diventare un potenziale alleato del movimento, superando la visione binaria che separa il mondo sulla base dei sessi.
Nel parco del Pav è ospitata un’aiuola che contiene quattro specie di fiori ermafroditi piantate dall’autrice: Glycine max L., Matricaria chamomilla L., Phacelia tanacetifolia Benth, Solidago virgaurea L.