Le parole e le cose – Diniego Automatismo difensivo dalla paura del disastro climatico

Le parole e le cose – Diniego

Automatismo difensivo dalla paura del disastro climatico

Conosciamo ma non sentiamo: la scissione ragione/sentimento e il diniego della realtà sono  conseguenza della gravità della crisi climatica. Pur essendo informati e consapevoli dell’origine antropica del problema non riusciamo a reagire e ad attivare strategie politiche e sociali e comportamenti individuali all’altezza della nuova era che chiamiamo Antropocene.

La centralità del tema è emersa anche nel corso del convegno “Cura del Mondo e urgenza climatica” recentemente organizzato a Firenze da AfsEP- Associazione di filosofia sociale Elena Pulcini. Come affrontarlo? Secondo Telmo Pievani, trattando l’Antropocene come un “iperoggetto” pensabile solamente intrecciando aspetti scientifici e culturali, è necessario attivare  linguaggi appropriati, fra cui quello artistico. È quello che fa Simon Mundy nel suo libro di immagini e storie, pensato  proprio come antidoto al blocco cognitivo prodotto dall’iperogetto.Iniziamo qui, con l’analisi di Dario Squilloni, con l’intervista di Mara Marchesa a Telmo Pievani e il reportage di Barbara Sessini sul lavoro di Simon Mundy, una dialogo a più voci che Agenda17 – partner di AfsEP – apre per approfondire, anche al di là delle notizie e dei dati scientifici, i temi della cura del mondo e dell’urgenza climatica.


Distinto dalla rimozione (meccanismo di difesa rivolto ad arginare l’angoscia perturbante di contenuti psichici interiori, impedendone l’ingresso nel campo della coscienza), il diniego, per Freud, è invece un automatismo difensivo che si attua quando il soggetto non è in grado di fronteggiare l’impatto emotivo conseguente alla paura suscitata da eventi esterni, cioè dalla gravità insostenibile di pericoli reali.

Com’è noto, la rimozione provoca la perdita della memoria dell’evento traumatico, vale a dire che il soggetto, dimenticandolo, può fare come se l’evento non fosse mai accaduto, almeno nella misura in cui è in grado di mantenerlo rimosso. Comportamento, questo, favorito dal fatto che, più che la pericolosità dell’evento reale (il quale peraltro, sempre secondo Freud, spesso è un prodotto di fantasia), si tratta di arginare l’angoscia generata dalla sua percezione psichica. In altre parole l’angoscia è la reazione emotiva suscitata da un accadimento psichico, e la rimozione è il meccanismo di difesa “nevrotico” che cerca di neutralizzarla.

La paura è invece la reazione emotiva che il soggetto comunemente prova (o dovrebbe provare) quando è esposto ad un pericolo reale ed è, in tutti i viventi, una facoltà emotiva fondamentale per il processo di adattamento alla realtà e per la sopravvivenza stessa delle specie,perché spinge il soggetto a reagire. Non provare paura diminuisce invece fortemente la percezione del pericolo ed espone a conseguenze lesive per l’autoconservazione.

È proprio ciò che accade nel caso del diniego, automatismo difensivo che si pone in essere quando il pericolo reale è di gravità tale da risultare insostenibile per le risorse psichiche del soggetto. 

Usiamo il diniego per “difenderci” dalle continue notizie di disastri diffuse dai media 

Quando ha a che fare con un pericolo oggettivo conclamato, tanto più se condiviso e ricorrente, il soggetto non è in grado di rimuoverlo; si può rimuovere un fatto isolato o poco frequente, non un evento che si ripresenta continuamente e con sempre maggiore frequenza. È  però possibile ridurne l’angoscia, operando una cesura fra la coscienza razionale e il vissuto emotivo correlato, che viene così scollegato dall’evento e illusoriamente depotenziato. 

In una certa misura il diniego è un meccanismo di difesa necessario alla sopravvivenza che adottiamo normalmente nella nostra vita, per esempio nel caso della quotidiana esposizione alle notizie e alle immagini di disastri di ogni genere dei telegiornali: anche in questo caso non possiamo rimuoverne la nozione, ma riusciamo in generale a depotenziarla automaticamente sul piano emotivo, arginandone così le altrimenti inevitabili conseguenze patologiche per la psiche. 

Rimane però il fatto che questo è possibile solo attraverso l’attuazione di un comportamento dissociativo, che separa la coscienza dalle proprie emozioni e divide il soggetto in due. L’esercizio del diniego infatti, per Freud, è un comportamento che travalica i limiti della condizione nevrotica di cui la rimozione è attività precipua e che, potremmo dire, descrive la situazione patologica del soggetto con se stesso, per sconfinare sul terreno della psicosi, che descrive invece la condizione patologica del soggetto in rapporto alla realtà.

Nel pensiero di Elena Pulcini, il diniego blocca la possibilità di contrastare  la fine del Pianeta

Già vent’anni fa Elena Pulcini (La cura del mondo, 2009), ci avvertiva che il diniego rappresenta il più pericoloso e diffuso fra i comportamenti evasivi adottati oggi dall’umanità per depotenziare la percezione del rischio ed evitare di porre in atto i cambiamenti necessari a contrastare l’ormai prossima fine della vivibilità del Pianeta. 

Quest’ultima affermazione, cioè la nozione che, a breve termine, il degrado ecologico possa distruggere la vita sulla Terra, affatto figlia di una visione catastrofista, è attualmente invece una realtà conclamata, peraltro da anni continuamente ribadita dalla comunità scientifica internazionale. Una realtà inedita sulla scena della storia, di cui l’umanità non sembra in grado di acquisire una vera consapevolezza, proprio per l’insostenibilità dell’angoscia che l’idea impensabile della fine di tutto, porta con sé.

A spiegare perché si continui ad emettere nell’atmosfera quantità di CO2 sempre maggiori, nonostante ufficialmente ripetuti accordi internazionali dichiarino il contrario, non bastano quindi le ragioni utilitaristiche e nemmeno l’ammissione che il liberismo selvaggio e la cieca logica del mercato abbiano raggiunto un livello di autonomia tale che nessuna politica sia più in grado di controllare, in quanto tutti sono ormai ben consapevoli che gli algoritmi del profitto non contemplano l’opzione “salvezza”.

Perché è questa l’altra novità inedita che l’“apocalisse” porta con sé, cioè la notizia che questa volta nessuno si salverà, nemmeno i detentori del potere, abituati da sempre a rifugiarsi in paradisi tropicali o, più recentemente, nella convinzione di sapere esercitare comunque un controllo, seppur precario, sulla distruttività dell’atomica. La “bomba” ecologica accomuna invece per la prima volta l’umanità azzerando tutti i dislivelli esistenziali, senza eccezioni: anche i potenti scompariranno, magari per ultimi, ma pure loro cesseranno di esistere. 

L’esodo biblico su Marte è un operazione di diniego delle élite

Eppure, pur ben informato a riguardo, il potere stesso anestetizza la percezione della propria vulnerabilità continuando a coltivare vecchie illusioni elitarie di salvezza, ed ad alimentare, con investimenti miliardari, inflazionati deliri di onnipotenza quali l’esodo biblico su Marte, in un macroscopico e fallimentare esercizio di diniego.

Il pericolo più grande per la vita sul Pianeta è quindi rappresentato oggi non solo dalla immensa quantità e qualità del potenziale distruttivo creato dalla tecnologia, ma anche dalla relazione perversa che lega la deriva autodistruttiva intrapresa dall’umanità e la sua negazione da parte dell’umanità stessa. Negazione operata da un soggetto ormai pericolosamente dissociato, separato dalle proprie emozioni, in origine il “Prometeo irresistibilmente scatenato” (Jonas 1979) oggi degenerato progressivamente nell’homo oeconomicus, autoreferenziale, individualista, privo di empatia e capace di relazionarsi all’altro solo in modo strumentale. 

Una tipologia di personalità agli antipodi di quella oggi indispensabile a un’umanità per la prima volta accomunata dall’unico obiettivo della sopravvivenza, un’unica umanità su una sola barca, che non può più permettersi il lusso di esercitare alcuna aggressività intraspecifica, né di rinunciare a uno strumento fondamentale per la sopravvivenza come la propria capacità emotiva.

In questo senso, come auspicava Elena Pulcini (2020), solo da una trasformazione profonda della personalità, indotta da una ritrovata percezione della propria vulnerabilità da una rinnovata capacità relazionale emotivamente fondata, potrà generarsi un sentimento positivo di appartenenza comune che possa dare all’umanità una nuova possibilità di futuro.

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