“I fiumi non sono solo l’acqua dei fiumi, ma l’insieme di acqua, sponde e retroterra: da questo complesso dobbiamo stare distanti. Da sempre la vegetazione cresce lungo le sponde e nelle golene e non è un problema se non pretendiamo di ridurre la superficie golenale per guadagnare spazi dove costruire. Perché il problema è nella nostra pretesa di sfruttamento delle aree fluviali: lasciamo in pace i fiumi, stiamo lontani con le nostre costruzioni ma vicini con la nostra attenzione e gli sforzi di manutenzione”. È quanto dichiara ad Agenda17 Paolo Pileri, docente di Pianificazione e progettazione urbanistica e territoriale presso il Politecnico di Milano.
In questi giorni si sta molto discutendo di cause e responsabilità attorno all’alluvione che ha colpito i territori dell’Emilia Romagna. I recenti eventi rendono necessario riprogettare la gestione del suolo e, in particolare, dei fiumi e delle aree circostanti.
Come dichiarato da Claudio Celada, direttore Area conservazione natura della Lipu-Birdlife Italia, infatti, “è ora di uscire dal dibattito opere sì, opere no. La Pianura Padana è stata per decenni oggetto di cementificazione e dunque di impermeabilizzazione del suolo. Se a questo aggiungiamo il cambio di regime climatico con un alternarsi di siccità prolungate e precipitazioni estreme, il risultato, purtroppo, non può che essere quello, drammatico, cui stiamo assistendo.”
Ridare spazio ai fiumi e realizzare interventi integrati
Secondo il Centro italiano per la riqualificazione fluviale (Cirf), la priorità è ridare spazio ai fiumi, affinché possano muoversi ed esondare. Non si tratta quindi di progettare migliaia di opere a livello locale, ma di costruire una visione di bacino su scala più ampia, in accordo con la Dichiarazione universale dei diritti dei fiumi, in virtù della quale i fiumi dovrebbero avere il diritto di scorrere, svolgere funzioni essenziali all’interno del proprio ecosistema, essere liberi dall’inquinamento, essere alimentati da falde acquifere sostenibili e avere una biodiversità nativa, come così come il diritto alla rigenerazione e al restauro, diritto che comincia a trovare riscontri come nel caso dell’Ouse, il fiume che scorre nella campagna del Sussex in Inghilterra.
La stessa Strategia europea sulla biodiversità 2030 prevede la rinaturalizzazione di 25mila chilometri di fiumi in Europa. Come avevamo già sottolineato, infatti, ciò che serve per una migliore gestione di eventi climatici estremi sempre più frequenti non è la costruzione di ulteriori margini, ma, all’opposto, lasciare più “libertà” ai fiumi e ridurre drasticamente il consumo di suolo. Per fare ciò, è necessario un programma nazionale per la realizzazione di interventi integrati.
Nel concreto significa arretrare gli argini dai corsi d’acqua dove possibile, ripristinare aree di laminazione naturale delle piene, eliminare le coperture di cemento dai corsi d’acqua, costruire ponti più alti e proporzionati e delocalizzare aree residenziali e infrastrutture a rischio. Anche in Romagna sono stati fatti singoli interventi di questo tipo ma lo sforzo deve diventare collettivo.
“Il fiume – concorda Pileri – è un’unità ecosistemica sia nella sua lunghezza che nella sua larghezza e come tale va trattato. Non ha alcun senso continuare a dare in concessione ai Comuni pezzi di fiumi che ognuno finisce di gestire come crede e può. Aver svuotato di ruolo le autorità di bacino è stato e continua a essere un enorme errore, così come il non aver dato alle autorità fluviali un compito pianificatorio prevalente: dobbiamo pulire le competenze dalle incrostazioni di sovrapposizione che abbiamo creato.”
Tutelare i boschi lungo i fiumi contro le esondazioni
La battaglia di ambientalisti e parte del mondo della ricerca su questi temi prosegue da anni. Nel 2017 la Lipu – BirdLife Europe aveva pubblicato con l’appoggio del World Wild Fund (WWF) il dossier “Fiumi in fumo” sui danni causati dall’asportazione della vegetazione nei corsi d’acqua, centrando la ricerca proprio sull’Emilia Romagna.
L’aumento della richiesta di biomassa legnosa e la riduzione dei bilanci pubblici hanno infatti impedito una gestione sostenibile della vegetazione nelle aree vicine ai corsi d’acqua. Il report analizza alcuni dei danni agli ecosistemi ripariali causati dal crescente disboscamento, a partire dall’impoverimento dei corsi d’acqua, trascurando la tutela di habitat e servizi ecosistemici.
I boschi lungo i fiumi, detti boschi ripariali, sono infatti fondamentali, soprattutto in un territorio fortemente urbanizzato come la Pianura Padana, non solo per la biodiversità, ma anche per mitigare le piene, contrastare l’erosione delle sponde e dei greti, favorire la ricarica degli acquiferi sotterranei, ridurre la velocità dell’acqua e migliorarne la qualità.
Questi boschi sono peraltro tutelati in tutta Europa dalla Direttiva Habitat 92/43/CEE tuttavia, con l’espansione urbana e agricola, si assiste sempre di più al loro disboscamento. Tra gli effetti, l’eliminazione del servizio di salvaguardia idrogeologica, che permette appunto la mitigazione delle piene.
È interessante notare come il dossier Lipu includesse anche i casi di due torrenti esondati in questi giorni: il Savena (Bologna) e il Sillaro (Ferrara). Nel caso del Savena, era stato denunciato un taglio di boschi ripariali pari al 21,8% rispetto alla lunghezza del corso d’acqua: “si stima che qui siano stati eliminati circa 50mila alberi – si legge nel dossier – per la maggioranza sani. Inoltre sono stati danneggiati anche la vegetazione arbustiva e il cotico erboso. Si calcola che la biomassa fotosintetica fresca andata distrutta abbia superato le 2mila tonnellate.”
Il disboscamento è avvenuto anche all’interno di aree protette di interesse comunitario e in assenza di una normale procedura di Valutazione di incidenza. Nel caso del Sillaro, Lipu ha stimato un taglio corrispondente al 24,7% della lunghezza totale del fiume: “sono state tagliate migliaia di alberi – denuncia la scheda dedicata al Sillaro – di cui la maggior parte assolutamente sani, tra cui molti ben lontani dall’alveo attivo (50-60 metri), che mai avrebbero impedito la sezione idraulica del torrente. La percentuale di alberi asportata è, in molti tratti, prossima al 90%. Gli alberi risparmiati sono di piccole dimensioni, radi, distanti tra loro; spesso si tratta di esemplari appartenenti a specie alloctone.”
I nuovi invasi non aiutano a recuperare l’acqua piovana né attenuano le piene
Anche la realizzazione di nuovi invasi per l’accumulo di acqua piovana non è esente da criticità e, come evidenzia il Cirf, non può essere la risposta alla crisi climatica.
Da un lato, infatti, le aree dove poterli realizzare sono già state sfruttate e non c’è molto margine per ulteriori interventi. In Italia ci sono 532 grandi dighe, di cui solo 374 in pieno esercizio. Dall’altro, il riempimento di questi invasi e la loro efficacia sono sempre più difficoltosi perché sono mutate le precipitazioni, visti i già notevoli deficit dei laghi alpini e degli invasi artificiali esistenti.
Gli sbarramenti artificiali nei fiumi hanno un impatto ambientale e socio-economico molto elevato: sono il fattore di pressione più significativo in almeno il 30% dei corpi idrici europei e causa del mancato buono stato ecologico in almeno il 20%. Le dighe, in particolare, riducono la popolazione ittica e determinano un deficit di sedimenti, con incisione degli alvei ed erosione costiera, oltre all’impoverimento delle falde freatiche e l’intrusione del cuneo salino.
Infine, gli invasi perdono molta acqua per evaporazione (e sarà sempre peggio con l’aumento delle temperature) e l’elevata temperatura dell’acqua in quelli minori può determinare lo sviluppo di cianotossine e fioriture algali, che la rendono inutilizzabile.
Invece, per trattenere le precipitazioni e mitigare i picchi di piena bisogna ridurre la canalizzazione dei fiumi e ripristinare la connessione tra gli alvei e le pianure inondabili, anche rimuovendo o spostando le opere esistenti. Sono interventi previsti dal Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc) ma quasi per nulla attuati. Al momento, l’unico grosso intervento in partenza sembra quello inserito nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) cioè la rinaturalizzazione del Po.
“Un solo progetto per tutto il sistema fluviale italiano come la rinaturazione di una serie di aree lungo il Po – conclude Pileri – è solo la rappresentazione concreta del disinteresse dei Governi per i fiumi. Non c’è un’unità di regia e di pensiero sul fiume, che continua a essere visto come un intralcio o un luogo dove abbeverare le agricolture, anche e soprattutto le peggiori, come il mais che imperversa nella Pianura Padana.
Oggi le autorità fluviali si sono troppo politicizzate perché hanno imparato l’arte tossica della mediazione a tutti i costi e i loro vertici non sono stati formati ad affrontare le sfide ecologiche e climatiche. Inoltre, molte sono state ridotte a general contractor delle Regioni (quindi prendono soldi per spenderli in opere) e sono governate da politici delle Regioni stesse nominati ben oltre la pur minima competenza.
Manca la visione di insieme e le autorità sono tali solo nel nome, in quanto non sono riconosciute né dalla politica né dalla società civile. Nessuno interpella un presidente di autorità fluviale per chiedere qualcosa se non piaceri od opere. A ciò si aggiunge una sovrapposizione di competenze assurda tra consorzi, agenzie regionali e autorità fluviali: bisogna fare pulizia di queste sovrapposizioni e delle concessioni d’uso delle sponde a Comuni, associazioni, circoli sportivi, che hanno generato un ginepraio incontrollabile.”
Un grazie per questa analisi da poterr rendere operativa se avessimo dirigenti CAPACI