È attualmente in via di svolgimento la consultazione pubblica dell’Agenzia europea delle sostanze chimiche (European Chemicals Agency, ECHA) sulla proposta di restrizione a produzione e uso delle sostanze per- e polifluoroalchiliche (PFAS), presentata da Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia e motivata soprattutto dai rischi posti alla salute umana. Nel frattempo, nel Mondo si discute anche sui limiti per l’acqua potabile.
Sempre più studi confermano gli effetti avversi sulla salute umana
“Le ricerche condotte finora – afferma ad Agenda17 Luisa Pasti, docente di Chimica analitica presso il Dipartimento di Scienze dell’ambiente e della prevenzione dell’Università di Ferrara – rivelano possibili legami tra l’esposizione umana ai PFAS ed effetti negativi sulla salute. Questi effetti includono alterazioni del metabolismo, un incremento del rischio di alcuni tipi di tumore, una diminuzione della fertilità, una ridotta crescita del feto e un aumento del rischio di sovrappeso o obesità infantile, una riduzione della capacità del sistema immunitario di combattere le infezioni” e di rispondere ai vaccini. L’assunzione di PFAS predispone anche ad alti livelli di colesterolo nel sangue e a danni al fegato.
Interessanti sono i dati dello studio epidemiologico svolto nel 2019 dall’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) del Piemonte e dall’Azienda sanitaria locale (Asl) di Alessandria, per confrontare l’incidenza di patologie tumorali e non in un raggio di tre km dall’impianto della Solvay di Spinetta Marengo rispetto al resto del territorio della Provincia di Alessandria.
Gli studi hanno rivelato, fra gli altri risultati, un incremento del 30% per i tumori epatici e delle vie biliari e del 75% per i mesoteliomi pleurici (tumori della pleura che protegge i polmoni); un rischio maggiore del 26% per l’insufficienza renale acuta e cronica e, fra gli uomini, aumenti del 14% e del 17% rispettivamente di malattie cardiache e ipertensione; e infine, un incremento dell’86% di malattie neurologiche fra i bambini.
Uno studio svolto dall’Università di Padova e dalla Regione Veneto ha voluto indagare un’eventuale correlazione fra la mortalità per Covid-19 e l’esposizione a PFAS, scoprendo un aumento del rischio del 60% nelle zone più contaminate della Regione. Un altro studio danese ha individuato una forte associazione tra presenza di PFAS nel siero sanguigno e forme gravi di Covid-19. Alcune possibili spiegazioni sono l’indebolimento del sistema immunitario da parte dei PFAS o il fatto che essi predispongono ad altre malattie che a loro volta rendono più grave l’infezione da Covid-19.
I limiti per l’acqua potabile non sono uniformi. Scegliere quelli tossicologici tutela la salute
Molti disastri sanitari legati ai PFAS avvenuti in Europa hanno riguardato la contaminazione dell’acqua potabile. Nel 2021 è diventata effettiva la Direttiva dell’Ue sull’acqua potabile, fissando i limiti di 500 ng/L (nanogrammo per litro) per la somma totale di PFAS e di 100 ng/L per la somma dei venti tipi più pericolosi (valori che potrebbero essere rivisti come conseguenza della proposta di restrizione).
In Italia l’Istituto superiore di sanità (Iss) ha fissato limiti simili nel 2019: 100 ng/L per ogni singolo PFAS e 500 ng/L per la somma totale. In precedenza, solo la Regione Veneto, in seguito al disastro dell’ex-Miteni, si era mossa stabilendo 30 ng/L per PFOS (acido perfluoroottansolfonico), 90 ng/L per la somma di PFOS e PFOA e 300 ng/L per la somma di tutti gli altri PFAS.
L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha tenuto una consultazione pubblica fra settembre e novembre 2022 per stabilire un limite per PFOS e PFOA e ora sta valutando i feedback ricevuti per prendere una decisione. Tuttavia, 116 scienziati hanno firmato una lettera affermando che il limite proposto nella bozza per la consultazione, derivato dalla necessità di mediare sul livello tecnologico mondiale di capacità di monitoraggio e bonifica dei contaminanti, è insufficiente.
Oltreoceano, l’Agenzia per la protezione dell’ambiente statunitense (Environmental Protection Agency, EPA) ha proposto a marzo di quest’anno di fissare a 4 ng/L (in precedenza era 70 ng/L) il limite individuale sia per PFOS che per PFOA, ovvero alla quantità minima rilevabile dai test. Nella proposta, l’Agenzia ha anche ricordato che i livelli massimi che possono essere assunti senza causare danni alla salute sono 0,02 ng/L per PFOS e 0,004 ng/L per PFOA, ponendo come obiettivo finale valori pari a zero. Ora è aperta la fase di consultazione e la regolamentazione dovrebbe essere finalizzata entro la fine dell’anno.
Ma l’acqua potabile non è l’unico mezzo tramite il quale gli esseri umani ingeriscono PFAS. Queste sostanze, infatti, finiscono anche nel cibo, soprattutto in frutta, pesce e uova. Perciò l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (European Food Safety Authority, EFSA) ha condotto uno studio per individuare la dose massima ingeribile considerando sia l’acqua potabile che gli alimenti. Nel 2020 ha stabilito che si possono ingerire al massimo 4,4 ng per kg di peso corporeo a settimana di quattro molecole: PFOS, PFOA, PFNA (acido perfluorononanoico) e PFHXS (acido perfluoroesano solfonico).
Secondo l’EFSA, quindi, una persona che pesa cinquanta kg potrebbe ingerire al massimo 220 ng di questi quattro PFAS a settimana. Bevendo la quantità ottimale di acqua consigliata, ovvero due litri al giorno, e senza considerare gli alimenti, questo significa che l’acqua dovrebbe avere una concentrazione massima di PFOS, PFOA, PFNA e PFHXS pari a circa 15,7 ng/L. Luisa Pasti ci aiuta a capire il motivo della discrepanza fra lo studio dell’EFSA e le direttive dell’Ue e dell’Italia.
“Le diverse Agenzie o Enti propongono limiti differenti basati sulla diversa scelta delle sostanze e questo è un primo fattore discriminante. Il limite di 500 ng/L (Ue) si riferisce alla somma di tutti i PFAS, mentre 4,4 ng per kg di peso corporeo a settimana (EFSA) è il limite per solo quattro di essi. Un altro fattore è legato alle finalità e alle metodiche differenti delle Agenzie. Oms e Ue si basano sulle tecnologie disponibili per il monitoraggio e la depurazione delle acque, in quanto devono poter garantire il raggiungimento degli standard prefissati.
Se si impone un limite molto piccolo occorre essere in grado di misurarlo, e i metodi non sono ancora completamente sviluppati per tutti i PFAS, sebbene siano sempre più sensibili. Un ragionamento analogo può essere fatto per le tecnologie di abbattimento. Al contrario, enti quali EFSA ed EPA propongono limiti che si riferiscono a dati tossicologici, ovvero alla dose che può essere assunta per un lungo periodo di tempo senza provocare danni alla salute. A mio avviso, i limiti che andrebbero rispettati sono quelli basati su dati tossicologici.”
Bonificare i siti contaminati è difficile e costoso
Per evitare le conseguenze negative sulla salute umana, oltre a limitare la produzione dei PFAS per il futuro, bisognerebbe anche bonificare i siti già contaminati. È quello che chiedono ad esempio le Mamme-No-PFAS (Vicenza) e il Comitato Stop Solvay (Alessandria) in Italia. Ma la depurazione, pur dipendendo dalla natura e dalla geomorfologia del territorio specifico, è innanzitutto molto costosa: uno studio svolto nel 2019 dal Consiglio nordico (un’organizzazione intergovernativa che riunisce Danimarca, Islanda, Finlandia, Svezia e Norvegia) ha stimato che potrebbero servire fino a 170 miliardi di euro per bonificare l’Europa.
Inoltre, i PFAS sono una classe molto vasta e i metodi per rimuoverli completamente dalle acque non sono ancora del tutto sviluppati. Come spiega Pasti, “attualmente vi sono metodologie basate sull’assorbimento, in cui vengono usati carboni attivi, resine a scambio ionico e molti altri materiali, alcuni in fase di sviluppo. Vi sono ricerche attive nel settore delle tecnologie basate sull’impiego di membrane (osmosi inversa e nanofiltrazione). La degradazione reattiva, ovvero la distruzione attraverso reazione chimica-biochimica dei PFAS, è per ora in fase di studio. È proprio per la difficoltà di eliminare i PFAS dall’ambiente che l’Ue vuole bandirli.”